I diritti di cui non avevamo bisogno
L’introduzione, voluta da diversi istituti e da una recente proposta di legge, del congedo mestruale per le studentesse, è una proposta ingenua e ideologica, che non solo non migliora, ma complica inutilmente la situazione che vorrebbe correggere.
È notizia di qualche mese fa che alcuni istituti superiori, autentici pionieri nella terra dei diritti, hanno introdotto il cosiddetto “congedo mestruale”, una speciale giustificazione che, previa certificazione medica, consente alle studentesse affette da dismenorrea di usufruire di due giorni di permesso al mese, escludendoli dal conteggio delle assenze stabilito dalla legge.
Si tratta di episodi di per sé circoscritti e poco rilevanti, eppure sintomatici delle idee che animano il dibattito intorno alla scuola anche presso l’opinione pubblica e la stessa politica (lo scorso febbraio è stata infatti presentata da alcuni deputati una proposta di legge in tal senso).
Quale meccanica accomuna proposte come questa? Con la sincera intenzione di difendere l’interesse di una categoria sociale oggetto di presunta discriminazione – nel caso presente le studentesse, ma nella proposta di legge anche le lavoratrici –, si assegna ad una determinata condizione (la dismenorrea, nel nostro caso), di per sé fisiologica, un riconoscimento giuridico, che presenta tuttavia molti più difetti della situazione che vorrebbe emendare.
Innanzitutto è superfluo: ciò che infatti viene a ben vedere riconosciuto, tanto dai predetti istituti, quanto nella proposta di legge, non è il congedo mestruale tout court per tutte le studentesse, ma solo per coloro la cui dismenorrea è, a parere di un medico, di impedimento alla regolare frequenza scolastica. La legge vigente prevede però già che, a fronte di certificato medico, le assenze effettuate da uno studente in ragione di una condizione patologica non influiscano sulla validità dell’anno scolastico svolto solo parzialmente.
In secondo luogo, non solo non aggiunge nulla, se non un’inutile fattispecie, ma comporta la rinuncia, per chi si avvale del congedo, alla fondamentale riservatezza circa le proprie condizioni di salute, che è invece garantita da una generica giustificazione, già oggi disponibile, “per motivi di salute”. Ci si limita qui a notare come l’introduzione di un diritto, il cui esercizio comporta l’autolesionistica violazione di un altro, dovrebbe far riflettere.
La proposta, non aliena da un certo rivendicazionismo solo superficialmente femminista (e in realtà lesivo verso un serio femminismo), è in verità il frutto di una ubriacatura ideologica, il parto di intelletti accecati dalla luce di un progresso civile da realizzare a tutti i costi, anche contravvenendo alla ragionevolezza. Ricordano, questi ultimi, i ciechi immortalati da Baudelaire, i cui occhi “come se guardassero lontano, restano alzati al cielo; giù verso il selciato mai li si vede chinare pensosamente la testa”: l’alto ideale del progresso ch’essi inseguono obnubila il loro sguardo, che resta così indifferente al senso che la realtà, osservata con occhio scevro dal pregiudizio, mostra già di possedere.