La ricetta del buon insegnante
Quale peso devono avere la metodologia o la psicologia nella formazione dell’insegnante? E la conoscenza della disciplina?
Sono moltissime le persone, anche nel mondo della scuola, che sottolineano il bisogno di formare gli insegnanti affinché sappiano affrontare le difficoltà emotive, psicologiche o relazionali degli allievi con cui hanno a che fare, oltre che rapportarsi con loro in modo arricchente, costruttivo.
Gli antiquari non sono insensibili al mal di denti dei loro clienti, ma non riescono a sentirsi in difetto se non sanno curarne le carie. Alla stessa maniera qui al Gessetto non siamo insensibili alla questione delle difficoltà emotive degli studenti; ma dubitiamo che essa sia risolvibile senza stravolgere il compito della scuola, che è quello di istruire incidendo davvero nella vita degli individui.
Che cosa deve fare l’insegnante? L’insegnante insegna la propria disciplina, soprattutto nella scuola secondaria; e così facendo forma la persona, la educa – benché in modo indiretto – a un metodo, a un certo tipo di rigore procedurale, all’impegno, alla costanza ed alla fatica mentale e fisica, oltre che ad una serie di valori intellettuali connessi all’orizzonte del sapere che promuove. Non c’è dubbio che una parte delle difficoltà emotive degli allievi possono venir meno proprio nella pratica dello studio, che conferisce un ordine e un significato a un vissuto altrimenti frammentato e confuso. Basta questo, a volte, a dare nuova speranza ai ragazzi. Ecco perché l’insegnante deve anzitutto conoscere ciò che insegna; anzi, deve averne una padronanza che eccede quel che mette in campo in classe: la sua libertà d’insegnamento è possibile solo nella misura in cui egli è in grado di fare una cernita delle proprie conoscenze, è in grado di organizzarle, di adattarle a chi ha di fronte dopo aver analizzato il contesto e il flusso delle circostanze particolari. Ciò è un prendersi cura degli allievi, sebbene sotto il particolare rispetto della loro istruzione.
Se la preparazione disciplinare dell’insegnante deve avere l’assoluta priorità su altri aspetti della sua professionalità, quanto spazio resta alla sua formazione metodologica o psicologica?
Per quello che concerne le metodologie didattiche è evidente che il Gessetto è nato anche per contrastare l’idea secondo cui esse possono essere scisse dalla padronanza disciplinare mantenendo una reale spendibilità. La maggioranza dei corsi di aggiornamento sulle metodologie didattiche danno una sola garanzia: prospettano una diminuzione qualitativa e/o quantitativa dei contenuti di studio, seppur spacciandola per una nuova forma insegnamento o d’apprendimento.
Per quello che invece concerne lo strumentario psicologico dell’insegnante ci troviamo costretti a precisazioni che parrebbero inutili se non fossimo assediati da discorsi spesso irrazionali e confondenti, che accrescono le aspettative verso una scuola dove si educhi “in modo scientifico” a tutto.
Certo, la psicologia aiuta le persone a capire un po’ meglio gli altri; ma la sua stessa genesi, la sua evoluzione, la complessità di indirizzi che oggi la caratterizzano raccontano bene l’impossibilità di trattare l’animo e la mente umana come semplici ingranaggi da oliare, aggiustare o mettere a punto (anche se qualcuno ci prova sempre, seguendo l’ultima moda). Inoltre la psicologia può aiutarci a capire e migliorare noi stessi. Ma a tale scopo serve sempre qualcuno che ci osservi, ci guidi dall’esterno; e i tempi necessari sono spesso molto lunghi.
Un insegnante dotato di nozioni basilari di psicologia può svolgere meglio il proprio mestiere perché valuta in modo più accurato la consonanza tra le proprie proposte didattiche e il grado di maturazione di chi ha di fronte, le sue fasi di crescita, i suoi momenti critici e i suoi stati di temporanea afflizione o demotivazione. Tuttavia dovrebbe essere noto che:
1) l’insegnante non è a scuola per fare le veci dello psicologo o dello psicoterapeuta, ma ha altri obiettivi non meno importanti dei loro;
2) l’insegnante può servirsi delle proprie conoscenze di psicologia per modulare le proprie scelte professionali, ma difficilmente può cambiare se stesso come persona, ovvero mutare drasticamente carattere e stile, diventare più empatico, comunicativo, accogliente o costruttivo nelle relazioni. Perché? Perché queste qualità non si insegnano, soprattutto agli adulti; al massimo le si può simulare, e mai troppo a lungo. Se così non fosse tutti gli psicologi o tutti gli studiosi di morale sarebbero persone perfettamente virtuose, equilibrate, coerenti, socievoli, razionali e – forse – pure felici: il che non è, per il semplice fatto che la sapienza e la scienza non equivalgono alla saggezza, o – per dirla in modo meno antico – conoscere il bene in teoria non significa affatto essere capaci di perseguirlo nella pratica.
Ogni santo giorno gli insegnanti entrano in relazione con i propri allievi in quanto esseri umani. Non hanno grandi possibilità di nascondersi al loro sguardo curioso e penetrante, e poco possono le tecniche decise a tavolino. Il meglio che gli insegnanti possono fare è:
- insegnare conoscenze fondamentali;
- alimentare relazioni importanti ed autentiche, commisurate allo specifico compito che è loro assegnato;
- cercare di capire chi hanno di fronte, entro i limiti delle situazioni concrete;
- fuggire l’illusione di poter acquisire competenze relazionali di livello professionale, per così dire, come fanno i giardinieri con le tecniche di potatura delle conifere oppure gli ingegneri con le competenze motoristiche. C’è un’enorme differenza tra coltivare relazioni umane e coltivare le piante. Gli allievi non sono vegetali, non sono estrusi metallici di un sistema industriale; sono invece i fini di un’azione educativa dalla quale dovrebbe essere bandita ogni tecnica di manipolazione e di persuasione occulta da parte di docenti che si percepiscano follemente quali “professionisti della relazione umana”.
Il bravo insegnante non è quello che ha il pieno controllo delle relazioni che vive in classe, perché gli allievi non sono le sue marionette, i suoi pupazzi; gli allievi sono esseri liberi, anche se esercitano la propria libertà dentro la relazione. Per questa ragione essi si devono assumere un tot di responsabilità. Il bravo insegnante è quello che può garantire per sé, per il proprio importante ruolo; e non per ciò che fanno gli altri.
Si dice spesso anche che l’insegnante dev’essere d’esempio. È così. Ma ciò non significa ch’egli possa sempre esserlo sotto tutti i punti di vista. È irrealistico. Anzi, credo che l’idea di un insegnante perfetto (ammesso che sia definibile) porrebbe all’allievo un serio problema d’identificazione e rispecchiamento, in modo simile a quanto accade al neonato in presenza di una “madre perfetta”, stando allo psicanalista Donald Winnicott.
La semplice verità è che l’indole, il carattere e la struttura morale degli esseri umani non sono mai stati nella disponibilità della pura pianificazione tecnico-scientifica. Tempo e denaro sprecati. Educare, come genitori o come insegnanti, assomiglia molto più ad un’arte che ad una scienza; e nella relazione educativa è pressoché impossibile individuare formule e soluzioni seriali, ripetibili, standardizzate. Ogni insegnante è unico. Ogni allievo è unico. La loro relazione è irriducibile a schemi; e gli esiti migliori sono sempre il prodotto di fattori che le metodologie e le teorie didattiche non sanno catturare, soprattutto se vengono scorporate dai casi concreti.
Riassumiamo. Esistono i cattivi insegnanti? Sì, e come per ogni categoria di responsabilità sociale simile o addirittura superiore a quella degli insegnanti, anche per questi si pone il tema della loro selezione, della loro idoneità e della loro attitudine. Ma ciò non giustifica affatto l’irragionevole insistenza di chi – parlando del bisogno di migliorare la professionalità degli insegnanti – riduce tutto alle loro carenze sul fronte relazionale, psicologico o metodologico: il buon senso ci dice infatti quanto sia impervio rimediare a tali mancanze ricorrendo alla formazione, soprattutto per come è oggi intesa. Ancor più ingiustificato, o persino sospetto, è il silenzio tombale circa le possibili carenze di tipo culturale degli insegnanti, alle quali sarebbe ben più facile porre qualche rimedio, seppur tardivo: sennonché di questo secondo tipo di carenze sembra non importare più nulla a nessuno, o quasi.