Competizione e scuola
Molti fanno rientrare le attività didattiche tra quelle che un supposto neo-liberismo economico avrebbe corrotto in modo irrimediabile. Ma è vero?
A partire dalla denuncia indiscriminata dell’aziendalizzazione delle scuole si leva alto il grido contro la competizione, che oggi le avvelenerebbe. Credo che vadano fatte alcune distinzioni.
La retorica aziendalistica e il pauroso regresso demografico spingono davvero le scuole a gareggiare tra loro per accaparrarsi il maggior numero di iscritti, che sono preziosissimi per la stessa sopravvivenza dei singoli istituti, oltre che degli indirizzi di studio. Chi non ha iscritti chiude.
Questo tipo di competizione tra le scuole – a ben vedere – basta a rendere irrealistica l’idea della competizione tra gli alunni, che devono essere trattati in modo tale che le famiglie non siano indotte a trasferirli altrove, magari in cerca di promozioni ancora più agevoli: quando il successo è garantito (come del resto prescrive il D.P.R. n. 275/1999) la voglia di gareggiare latita.
Coloro che sostengono l’esistenza ubiquitaria della competizione nella nostra società chiamano in causa gli effetti morali e psicologici individuali e collettivi del regime di concorrenza mercantile, del neo-liberismo sfrenato, del neo-darwinismo sociale di cui la scuola stessa sarebbe l’incubatrice. Per loro la competizione non riguarderebbe solamente le scuole in gara tra loro, ma anche (ed è questo il punto) gli scolari e gli studenti, perpetuamente immersi – così si racconta – in una asfissiante atmosfera agonistica.
Porterò qui alcuni argomenti tesi a falsificare quest’ultima rappresentazione della realtà, che coinvolge la vita di milioni di scolari e studenti.
Possiamo pensare la competizione secondo due diverse accezioni.
Nel primo caso essa ha a che vedere con il vizio classico dell’invidia e tende a confondere la soddisfazione per il raggiungimento di un traguardo personale con il piacere dell’insuccesso di chi è in gara con noi. Se ho come unico obiettivo quello di vincere, più che di migliorare, crescere, superare i miei limiti, sono inevitabilmente incline a sperare che il mio concorrente perda; dunque sono incline a desiderare il suo male.
Nel secondo caso, invece, la competizione ha a che vedere con la virtù dell’ammirazione. L’ammiratore trae ispirazione dai meriti e dai pregi di chi fa meglio di lui nel suo stesso ambito d’interesse; impara ed orienta la propria crescita nel solco di chi ha successo, e si cimenta con lui per prendere coscienza, per confrontarsi; individua il proprio bene (che ha sempre aspetti unici) a partire dal bene altrui e non si serve del suo insuccesso per immaginare il proprio. Senza l’altro (cioè senza modelli, senza misure, senza maestri) l’umano progresso sarebbe cieco, solipsistico, di fatto impossibile.
Aggiungo che la competizione invidiosa è rappresentativa di una mancanza di autonomia di giudizio, in quanto si focalizza soprattutto sulla gerarchia nel rapporto con l’altro; la competizione contraddistinta dall’ammirazione, diversamente, punta alla comprensione delle qualità umane e dei meriti che hanno definito quella stessa gerarchia. E così promuove l’autonomia del giudizio, pur sorgendo dal rispecchiamento nell’altro.
Non credo sia possibile, se non idealmente, tenere nettamente distinte nell’animo umano le due tendenze competitive che ho appena descritto. Ciò nondimeno è dovere dell’educatore tentare di farlo, magari cercando di sublimare la prima (quella più animale) nella seconda (che è propria degli animali razionali e sociali).
Nella scuola italiana l’educatore è stato – involontariamente – esonerato da questo pur difficile compito. Come? Semplicemente eliminando entrambi i tipi di competizione, sia quella cattiva, sia quella buona: gli studenti non solo non si sentono in gara tra loro, ma non avvertono quasi mai una spinta al miglioramento personale che nasca dal confronto. La garanzia del successo formativo può questo ed altro.
Un arguto collega ha affermato che, se nella scuola c’è competizione, essa è quella tra gli studenti che fanno a gara tra loro a chi studia di meno, nel mentre i numeri delle bocciature dicono che la selezione è sempre meno severa. In effetti, se vogliamo pensare le scuole come aziende che competono sul mercato dell’istruzione e formazione dobbiamo prima chiarire a noi stessi qual è il prodotto che commerciano: 1) se assumiamo che il loro prodotto sia la preparazione culturale degli scolari e degli studenti, ebbene la gara è davvero fiacca, del tutto anticompetitiva, giacché la tendenza del mercato pare proprio quella di sfornare diplomati sempre meno preparati, al contrario di quel che accade nei paesi economicamente emergenti dove la competizione è effettiva; 2) se invece assumiamo che il prodotto delle scuole-azienda in gara tra loro siano l’accoglienza empatica, il benessere e l’intrattenimento degli allievi, organizzati al preciso scopo di sottrarre utenti agli istituti concorrenti sul territorio, allora non capisco più in cosa consista la competizione…
Molti fanno sovente un vago riferimento all’atmosfera competitiva generata nelle aule dalla valutazione delle interrogazioni o delle verifiche scritte, chiamandole “prestazioni” (termine che nessun insegnante adopera mai). Ma anche questo, per esperienza diretta, mi pare un argomento inconsistente. In più di venticinque anni di insegnamento e di condivisione delle aule con i colleghi più diversi non ho mai ascoltato una sola parola che assomigli ad un incitamento a far meglio degli altri, a superare qualcuno, a vincere, ad imporsi sul gruppo o su un altro singolo. Ho certamente ascoltato, invece, colleghi di fine intuito psicologico che mettevano utilmente in evidenza i progressi individuali, senza fare alcun confronto con l’esito delle prove altrui… finirà col dar fastidio pure questo?
Da anni – con un’accelerazione in corrispondenza dell’introduzione dei registri elettronici – i voti e i giudizi relativi alle prove scolastiche scritte non vengono resi noti in forma pubblica ma solo ai singoli scolari e studenti, con l’intento di non violarne la privacy, evitando confronti che alimentino disagi, imbarazzi o competizioni…
Per quello che riguarda le prove orali accade quasi ovunque la medesima cosa, peraltro anteponendo – forse discutibilmente – le questioni di privacy sopra esposte a questioni didattiche non banali: nell’ordinarietà didattica potrebbe talvolta essere importante che le osservazioni finali dell’insegnante su un’interrogazione fossero note a tutti coloro i quali l’hanno ascoltata, così da aiutarli a comprendere l’applicazione concreta dei suoi criteri di valutazione…
L’affissione pubblica dei cosiddetti tabelloni con gli esisti di fine anno non esiste più, ça va san dir, mentre infuria ciclicamente la polemica relativa ai modi della pubblicazione dei voti degli esami di Stato: di recente in Emilia Romagna alcuni dirigenti hanno rifiutato la loro condivisione con gli organi di stampa, proprio per “combattere la competizione”…
I quotidiani locali hanno recentemente dismesso la pubblicazione delle cosiddette pagelle d’oro in nome di misteriose violazioni che la maggior parte dei cittadini non hanno compreso…
Nelle scuole vengono promossi, a dire il vero senza troppa enfasi, olimpiadi di lingue antiche, di matematica, concorsi di scrittura, artistici e musicali dove – seguendo una tradizione che non mi stupirei fosse prima o poi contestata – vengono ancora premiati i migliori, e stilate graduatorie: ma non mi risulta che la partecipazione a queste iniziative sia obbligatoria…
Tutte le scuole sono tenute a prevedere piani didattici personalizzati a beneficio degli studenti eccellenti nello sport o nella musica (quelli che per esempio decidano di frequentare le accademie prima del conseguimento del diploma), ambiti nei quali la competizione è assunta quasi come naturale; eppure, quelle stesse scuole che riconoscono un valore all’eccellenza musicale o sportiva di quei ragazzi, che è sempre celebrata pubblicamente, si guardano bene dal valorizzare pubblicamente l’eccellenza nell’ambito delle discipline scolastiche che caratterizzano i propri percorsi di studio: quasi che le stesse scuole se ne vergognassero…
Nelle classi non ho mai notato il sorgere di legami di amicizia determinati dai livelli di apprendimento o di profitto scolastico. Certo, i bambini e i ragazzi possono avere un’indole molto competitiva, e metterla in mostra; ma non ho mai avuto l’impressione né che le attività scolastiche alimentino tali tendenze personali, né che gli scolari sviluppino i propri affetti e le proprie simpatie sulla base degli esiti didattici. L’animo umano è complesso, e distingue bene le circostanze nelle quali la competizione si può scatenare, e quelle nelle quali prevalgono dinamiche di altro tipo. Ogni buon osservatore sa che le gerarchie che si creano nelle scuole sono molte, variegate e perlopiù refrattarie ai giudizi formulati dagli adulti…
Per finire, la scuola non prevede alcun sistema di premi e riconoscimenti per chi riesca bene, al di là dei voti conseguiti nelle singole discipline, che – come ho già detto – non sono mai pubblici. Le borse di studio non vengono quasi mai menzionate, forse perché poco attrattive; non si assegnano medaglie, coppe o diplomi di merito, come invece accadeva ai tempi di mia madre…
Quale potrebbe essere, dunque, il fomite della competizione nelle scuole? Dove starebbe, la competizione? In che cosa consisterebbe, con esattezza? Ho sempre più l’impressione che chi avversa la competizione con argomenti logori e confusi, tanto da vederla anche dove non c’è, sia segretamente suggestionato dal desiderio di vedere sparire anche la valutazione. I risultati della valutazione infatti non possono essere taciuti, nascosti all’infinito: i bambini e i ragazzi fanno domande, osservano, notano, distinguono, come è normale che sia; prendono ineluttabilmente atto di tutte le differenze che li contraddistinguono. Sono differenze sociali, economiche, culturali; ma anche di impegno, di attitudine e profitto nelle attività scolastiche.
E qui casca l’asino. Molti osservatori poco imparziali infatti confondono l’idea della competizione con la semplice rilevazione delle differenze.
Ma le persone sono differenti. Le loro opere sono differenti. Le loro speranze, le loro potenzialità, le loro qualità, i loro desideri, i loro limiti e le loro difficoltà sono differenti. Ebbene, c’è chi non sopporta quella differenza, ché pare un insormontabile ostacolo all’utopia egualitaria: perciò pensa di rimuovere tutto ciò che la intralcia.
Con questo discorso voglio forse sostenere l’ineluttabilità di tutte le differenze? Sto legittimando le più bieche discriminazioni? Certo che no, davvero. Ci sono differenze che vanno combattute, anche dentro la scuola. Eppure abbiamo poche chance di vincere quelle battaglie per una maggiore uguaglianza se neghiamo quelle stesse differenze che vorremmo sanare, magari ricorrendo proprio allo spauracchio della competizione.
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