Disprezzo

La miglior via per promuovere i cambiamenti? Mostrare come spregevole ciò che si intende cambiare


È sempre difficile proporre analisi che riguardino intere categorie professionali, poiché si rischia facilmente la generalizzazione. Nonostante ciò mi arrischio: gran parte delle teorie diffuse dai pedagogisti sono attraversate da un disprezzo latente o esplicito verso il lavoro degli insegnanti.

Va certamente detto che noi insegnanti non dobbiamo figurare come una categoria protetta, e che non siamo dei santi. Siamo umanissimi. Colpisce però che la pedagogia che qualcuno spera di imporre nelle scuole, nei corsi di formazione, nelle università, attraverso le pubblicazioni, si basi su una critica tanto radicale – direi eversiva – della scuola così come è stata fatta fino ad ora (o meglio, fino a pochi decenni fa) che ogni mezzo per imporla pare legittimo.

Di cosa si tratta? Si tratta di sostituire una scuola il cui scopo è la trasmissione del sapere (soprattutto teorico) da una generazione all’altra tramite il ruolo intermedio degli insegnanti, con una scuola centrata sul discente, sul suo attivismo, sui suoi processi di apprendimento spontaneo e naturale (secondo il paradigma introdotto da Rousseau) in presenza dei quali il ruolo degli insegnanti diventa marginale.

Questa operazione di sostituzione ha bisogno di una fase preparatoria in cui gli insegnanti diventino attaccabili: perché appassionati alle loro discipline, perché impegnati a scioglierne le difficoltà, perché legati a una concezione della scuola come lavoro e dunque refrattari ai cambiamenti auspicati. Dunque urge raffigurarli come individui inetti, non troppo svegli, sciatti.

La copertina del libro qui sopra riprodotta è un esempio lampante tratto dall’immaginario di cui si serve troppo spesso la pedagogia per imporre le proprie idee. È formalmente legittima; ma non può sperare di trovare condiscendenza proprio tra coloro che offende: forse l’autore conta su un mercato composto da insegnanti privi di amor proprio (che possono certamente esistere) o da figure esterne alla scuola.

Osserviamo la copertina. L’insegnante vi è ritratto in modo inequivoco: bolso, sovrappeso, non rasato, spettinato, quasi incastrato sotto la cattedra, assorto in un conteggio elementare (l’attribuzione dei voti?) per il quale deve aiutarsi con le dita, come un bambino; non volge il proprio sguardo verso gli allievi, ma, tutto intento nei propri calcoli, guarda in alto a sinistra come chi cerchi di ricordare qualcosa che ha scordato…

Anche il titolo del libro è un capolavoro. La valutazione che educa. Il non detto è che qualsiasi modo di valutare che si smarchi da quello proposto dall’autore non educa, o addirittura è diseducativo. Nel sottotitolo poi si parla di una “tirannia del voto” che spadroneggerebbe sull’insegnamento e sull’apprendimento, lasciando bene intendere, proprio dopo aver dato corpo a un insegnante che assomiglia a un bruto neanderthaliano, ch’egli non si sa difendere da quella tirannia, perché inconsapevole di quel che fa, oltre che alienato dall’atto stesso della valutazione.

Sullo sfondo, in piedi, ci sono tre studenti perplessi a causa dell’impaccio del loro docente. Assistono senza malizia all’indecoroso spettacolo; sulla lavagna compare un elenco di giudizi arzigogolati che fotograferebbe lo strumentario cervellotico dell’insegnante.

È una copertina che va a segno? Direi di sì. Come molte prime pagine di un certo successo. Ma non tutto ciò che ha successo merita approvazione.

[l’immagine della copertina del testo di Cristiano Corsini, La valutazione che educa, Franco Angeli, Milano, 2023, con l’illustrazione di Alessio Spataro, è qui riprodotta a solo scopo di recensione e libera critica, e come unico estratto dell’opera menzionata, per non pregiudicare i legittimi diritti di sfruttamento commerciale dal parte del titolare del copyright. Vedi art. 70, legge 22 aprile 1941 n. 633] 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *