Di Remigio-Carosotti: la controreplica di quest’ultimo

L’attenzione critica riservatami da Paolo Di Remigio meritava una risposta articolata. So che nessuno la leggerà interamente, in quanto troppo lunga, ma era necessaria un’analisi un po’ accurata. Sebbene scritta di fretta tra le pause di un’attività scolastica in questi giorni frenetici. Comunque utile perché mi ha portato a riflettere nuovamente su testi per me importanti.


In risposta all’articolo di Paolo di Remigio pubblicato qui in data 8 ottobre 2024.

Gent.le Paolo di Remigio,

ti ringrazio anch’io innanzitutto per la traduzione di un volume che ritengo prezioso e per certi versi indispensabile (in particolare proprio per la sua non contemporaneità); ma anche per la lettura minuziosa che hai dedicato a quanto da me scritto. Detto questo, la distanza tra noi mi sembra notevole, pur nella condivisione dell’idea che il pedagogismo altro non sia che una pseudo-scienza.

Mi soffermo brevemente sulle differenti reciproche convinzioni politico-ideologiche perché, se mi sembrano rilevanti per discutere in merito al destino della scuola ai nostri giorni, non inficiano la discussione sul testo di Hirsch jr.. Laddove invece, il tuo sottoporre a critica la contestualizzazione politico-ideologica da me proposta della ormai più che decennale politica di riforma della scuola (il contesto neoliberista) per chiarire l’utilità che quel testo può avere oggi per i lettori italiani rischia di depotenziarne il possibile impatto critico.

In merito al nostro diverso riferimento politico-valoriale, non posso convenire con quanto tu scrivi, in merito a una «attribuzione della natura totalitaria del comunismo al capitalismo». Io personalmente ritengo che il capitalismo, nella sua essenza, sia intrinsecamente totalitario, e che la libertà contrattuale di mercato sia solo la sua “apparenza” ideologica, che maschera fondamentalmente la disuguaglianza radicale nei rapporti di classe. Apparenza in parte diventata realtà nei quarant’anni del secondo dopoguerra dove le organizzazioni dei lavoratori hanno goduto di rapporti di forza mai così favorevoli. Nell’essenza del comunismo continuo a individuare invece un’istanza emancipatrice, pure umiliata dalle vicende novecentesche. Il tuo ragionamento mi ricorda un po’ quello di Nolte, che pretende di far derivare l’intera violenza del Novecento dall’ottobre del 1917, e non invece dal giugno del 1914. Al netto di queste differenze, nulla di questa diversità di opinioni toglie al modo in cui riflettiamo sul testo di Hirsch jr.; mi sembra comunque giusto sottolineare questo aspetto, perché colgo in te la preoccupazione di addossare al fronte “progressista” la totale responsabilità della deriva antidisciplinare della scuola, escludendo l’invadenza della strategia economica neo liberista nel voler controllare le istituzioni formative.

Vorrei anche permettere un’ulteriore breve considerazione (pure non sostanziale nel nostro confronto), sul pensiero pedagogico di Dewey, per te così dirimente da citarlo nel titolo (nella mia recensione invece tale riferimento aveva un ruolo solo marginale). Su questo con me sfondi una porta aperta. Non è Dewey l’autorità da contrapporre alle attuali politiche riformatrici, né quella da tenere presente per contribuire alla costruzione di una “scuola democratica” (concetto a cui tengo e a cui rimango fedele nella mia pratica professionale). Christian Laval e François Vergne, nel loro Éducation Démocratique, un testo per me insostituibile, sembrano distinguere tra “Dewey” e un “deweismo” deteriore prodotto dai suoi discepoli; ma, in un passo ritengo estremamente rivelativo, compare un riferimento al grande filosofo dell’educazione (che effettivamente svetta rispetto ai suoi epigoni; anche perché, al netto di tutti gli aspetti che possiamo considerare problematici, non si sogna affatto di teorizzare una deriva radicalmente antidisciplinare). In quel passo i due prendono le distanze dall’obiettivo di Dewey di «non separare la didattica dalle esperienze sociali allievi». Per Laval e Vergne, invece, per «preparare l’allievo all’azione critica», come lo stesso Dewey auspica, e «suscitare il suo interesse», non bisogna «partire dall’esperienza concreta», bensì essere consapevoli del «valore del sapere apparentemente sganciato dalla realtà», con il proposito di «far uscire gli allievi dall’esperienza immediata» e farli «riflettere razionalmente sulla situazione reale del mondo». Le discipline, dunque, non sono “apparato servente” (definizione di FA) delle «competenze di alto profilo» (qui è Hirsch jr), ma contenuti di cultura senza i quali non si realizza vera emancipazione e, di conseguenza, uguaglianza. Cito i due perché, da questo punto di vista, quanto da essi affermato coincide con le intenzioni dello studioso americano. E, guarda caso, in entrambi questa idea viene corroborata attraverso un riferimento a Gramsci. L’autonoma decisione del docente in merito ai contenuti da insegnare, contro qualsiasi tentativo di etero-dirigerlo secondo crtiteri tecno-pedagogistici per ottenere i isultati attesi, consente di costruire emancipazione e non processi di soggettivazione.

Onestamente penso che i due studiosi francesi (ma secondo me lo stesso Hirsch jr; ma noto che tu hai ricevuto invece un’altra impressione) manifestino ancora un timore reverenziale a prendere le distanze in modo netto da Dewey (per l’indubbio spessore intellettuale e la chiara coscienza democratica del filosofo statunitense); e si siano limitati ad affermarlo indirettamente, con quell’osservazione apparentemente marginale che però va al cuore della teoria deweyana. Tanto che qualcuno, recensendo il testo ma fraintendendolo secondo me (Filippo Ceccarelli su Il Manifesto) parlava di Dewey come uno dei riferimenti primi dei due. Anche Hirsch jr. mi sembra concentri i suoi strali soprattutto su Kilpatrick, che in qualche modo avrebbe fatto degenerare l’insegnamento di Dewey, per non fare direttamente i conti con il suo maestro. In fondo è quello che accade, a sinistra, con don Milani. Quando giustamente Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli, nel loro importante studio “Gramsci e la Scuola” (mi interessa proporre questo excursus perché Gramsci è il legame con Hirsch jr.), intitolano un capitolo dedicato a don Milani “un anti Gramsci italiano” (cito a memoria, potrebbe non essere esatto), nella prefazione allo stesso volume un intellettuale certo rigoroso come Marco Revelli prende esplicite distanze proprio da quel capitolo, con una presa di posizione tutt’altro che argomentata e sostanzialmente moralistica. Un altro caso di incapacità di individuare dei limiti in un personaggio lodevole se contestualizzato, ma che non può diventare modello per un progetto di scuola democratica come quello teorizzato da Laval e Vergne.

Tutta questa lunga premessa per venire al punto che ti preme: la denuncia del carattere progressista delle riforme in atto (intendendo per “progressista” l’area politica e culturale che le avrebbe inizialmente generate), in modo da sottrarle al condizionamento -secondo me invece decisivo- con la torsione neoliberista del capitalismo contemporaneo. Per cui la distruzione della scuola e una formazione inevitabilmente votata a produrre ignoranza si risolverebbe in un assurdo attacco alla tradizione per ragioni più culturali (la “tecnica” contro la “erudizione”) che non per una logica politica che, materialisticamente interpretata, ben fa comprendere le intenzioni politiche in gioco e i poteri che le dirigono.

Che Hirsch jr. non possa venire direttamente implicato in questa discussione sono io il primo ad affermarlo nella mia riflessione. Ma il nocciolo della discussione mi sembra sia: quale il senso nel proporre la lettura dello studio di Hirsch jr., a decenni dall’uscita del suo testo, in un contesto storico e geografico evidentemente mutato? Personalmente ritengo che, senza il riferimento allo scenario economico dominante, questa risposta non possa essere data, e a quel punto il testo rischierebbe di risultare obsoleto, e non invece fondamentale come lo è di fatto. Partiamo dal testo di Ferroni del 1997: lui richiama Hirsch jr. per individuare una possibile deriva sottoculturale cui andrebbe incontro la scuola se accogliesse quelle stesse riforme che hanno dimostrato di essere già fallimentari negli Stati Uniti. Ma la domanda da porsi è: perché quelle riforme sono state invece perseguite con determinazione e costanza, nonostante un’evidenza contro fattuale tanto palese (e altre continuano ad emergere, venendo sistematicamente ignorate)? e perché a lanciarle con molta determinazione è stata -sia in ambito europeo sia italiano- la sinistra cosiddetta riformista? Quella che (e io faccio fatica a chiamarla sinistra) ha sposato interamente la logica dell’economia di mercato nella sua declinazione più radicale?

Che la didattica pedagogistica o “per competenze” avesse la sua origine nella “didattica democratica” delle sperimentazioni degli anni precedenti Ferroni già lo chiariva in modo esemplare. E io aggiungerei che quel bagaglio di esperienza si ripresentava in un certo modo “secolarizzato”, cioè ormai privo della sua aurea ideologica, ma inserito invece in una cornice tecnocratica, perfettamente coerente con l’egemonia economicistica che da allora si sarebbe imposta in Occidente. Rimaneva ben poco di “progressista” o di “innovativo”, poiché da quel momento le due espressioni (ma molte altre) iniziarono a essere usate per stravolgerne l’autentico riferimento semantico.

Chi legge Hirsch jr. oggi in Italia dovrebbe, a partire da quell’analisi, cogliere tutta l’insufficienza (ed è un eufemismo) di quel dispositivo teorico falsamente pedagogico che continua a riproporsi in forma apparentemente variata nelle diverse politiche dei governi succedutisi fino a ora di qualsiasi colore. Quella politica ha prodotto il portfolio delle competenze, i crediti e i debiti, l’ASL e poi il PCTO, la riforma anti culturale degli istituti tecnico-professionali, la debole metodologia STEM (tutt’altro che scientifica), la teoria del “capitale umano”. Insomma negare la ratio puramente economicistica rischia non far comprendere il senso di tutti questi provvedimenti, dall’ingresso continuo di attori privati a sostituire la professionalità docente, al legare direttamente le competenze al mercato del lavoro, al testo le competenze della Fondazione Agnelli, alle analisi di numerosi intellettuali (non li cito perché sono decine, comprese le pubblicazioni successive dello stesso Ferroni). Men che meno si potrebbe comprendere la ratio sulle ultime “Linee Guida” di Educazione civica (ho già scritto qualche riflessione in proposito, ma questo aspetto lo chiarirò sul numero di Novembre di “Professione docente”), con persino indicazioni da offrire agli studenti sul ruolo delle assicurazioni private per garantire un degno futuro previdenziale. Solo i sindacati collaborativi cercano di occultare questo dato (cercate in archivio su Radio Radicale la registrazione di un incontro, tenutosi al Liceo Carducci di Milano, sulla riforma Gentile, relatore Scotto di Luzio; i due segretari regionali della FLC e della CISL negavano la deriva economicistica della scuola, in modo da poter esaltare le competenze in quanto estranee a qualsiasi logica di valorizzazione. E ritenevano corretto affidare ormai il destino della scuola ai pedagogisti). Onestamente, non mi sembra che ci sia stato alcun studio rilevante sulla scuola in questi ultimi anni, in senso critico, che non abbia individuato questo legame profondo, perfino in area liberale (quella illuminata), come ho potuto constatare quando ho proposto la mia riflessione l’anno scorso al Convegno presso l’Università di Bergamo sui Cento anni della “Riforma Gentile”. Dove il meglio (non tutto lì, ovviamente) della cultura liberale e progressista (anche marxista) si riconosceva in questa ricostruzione. Lo strumento concettuale e pratico per condurre a termine questo disegno è proprio la tecno pedagogia, la pseudo scienza sul cui carattere di impostura intellettuale concordiamo in modo assoluto.

Tu scrivi -sembra persino con un po’ di sgomento- che io possa allora intendere la comunicazione didattica come impegno militante per costruire quasi una situazione rivoluzionaria. Nulla di più lontano da me; la mia preoccupazione è semmai emancipare gli intelletti dei soggetti a me affidati in modo che possano sviluppare la capacità per intervenire con senso critico all’interno del dibattito democratico, anche con -perché no?- intenzioni radicalmente trasformative. Concludo con due riferimenti che mi sono cari. Lo storico Francesco Germinario, che ha mostrato in modo io credo indubitabile il legame tra “didattica” per “competenze” e neoliberismo a un certo punto, a proposito dello storico, scrive:«Lo storico può rivendicare posizioni neoliberiste; ma gli risulterà difficile condividere lo Zeigeist. Nel momento in cui opera nel suo studio e si confronta con le fonti, si trova nella condizione di essere costretto a impegnarsi in un confronto serrato con una storicità del Passato che rimanda necessariamente a quella del Presente, licenziando seccamente il suo neoliberismo in politica». La stessa cosa vale per la professione docente rispetto all’attuale fase del capitalismo. Sempre Laval e Vergne affermano che l’insegnamento è in sé un atto militante anti capitalista, ma non nel senso che hanno inteso alcuni -senza capire nulla di quel testo- per cui l’insegnante dovrebbe fare politica in classe schierandosi secondo criteri ideologici o partitici. Massimo rispetto per i miei alunni che il capitalismo lo apprezzano e ritengono valido il modello politico, culturale ed economico che sostiene. Il mio intento non è screditarli, magari approfittando di una mia maggiore capacità dialettica. Il senso è un altro: nel momento in cui io valorizzo le discipline, i contenuti di cultura, una modalità disinteressata di accostarsi al sapere (e mostro loro quanto sia quel sapere decisivo per una corretta ermeneutica dei processi reali in corso) io vado contro lo Zeitgeist neoliberista -per citare Germinario- persino se lo approvassi in teoria. Perché farei resistenza a quel tentativo (palese, p.es., nelle nuove Linee Guida di Educazione Civica; ma pensiamo al libro appena uscito A scuola di declino. La mentalità anticapitalista nei manuali scolastici, di Andrea Atzeni, Luigi Marco Bassani e Carlo Lottieri, da pochi giorni recensito su “Il Foglio”, in cui proprio si auspica una scuola in cui -cito- «diffondere l’idea della legittimità morale, prima ancora che politica, del mercato. Proprio quello che manca in Italia.»)

Il libro di Hirsch jr. certo ricostruisce in maniera mirabile la storia della Tecnopedagogia, ne ricerca le radici culturali. Ma la sua assunzione nell’Europa del dopo guerra fredda deve essere spiegata anche alla luce delle intenzioni reali del personale politico che ha preso tale decisione. E il riferimento costante a Gramsci dello studioso americano mi conforta nel ritenere legittima la mia posizione; anche perché, seppure in modo sfumato, l’idea che tale impostazione serva proprio a produrre processi di soggettivazione mi sembra la esprima anche il nostro autore.

Giovanni Carosotti

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