Nuova risposta al prof. Carosotti

La causa della decadenza della scuola: neoliberismo o pedagogia?

Gent. Carosotti,

le nostre differenze di valutazione sono di natura politica e questo ci rende forse difficile l’accordo, ma di sicuro ci lascia uno spazio di conversazione; il progressismo in cui ti riconosci è infatti parte importante del mio passato.

Tu attribuisci la decadenza della scuola al ‘neoliberismo’, che un consenso molto diffuso invoca per spiegare molti dei mali del mondo attuale; io invece trovo questo termine di difficile applicazione al presente: se il problema fosse il cosiddetto totalitarismo neoliberista, come spiegare l’egemonia culturale che il progressismo esercita nel mondo anglosassone e, di conseguenza, in quello occidentale? Come spiegare il controllo che esercita sulla scuola, divenuta un istituto assistenziale in nome dell’inclusività e centro di propaganda per ogni transizione, possibile e impossibile, programmata dalle burocrazie sovranazionali? Oppure la sua influenza sull’università occidentale sempre più incline all’odio della cultura occidentale spacciata come razzista e patriarcale? O sulla stampa dominata dalla fobia di un fascismo sempre meno conosciuto? Certo, si potrebbe dire che il progressismo stesso sia espressione del neoliberismo; ma così il termine esprimerebbe sé stesso e il suo contrario, e cadrebbe nell’indeterminatezza, cioè si annullerebbe. La mia opinione è che «neoliberismo» sia troppo vago e troppo appesantito da associazioni psicologiche per essere utile come categoria storica.

Il termine acquisisce il favore di cui gode sull’onda di una precisa esperienza. Per quelli che sono stati di sinistra, anche se diffidenti del socialismo reale, il crollo dell’URSS e dei regimi satelliti è stato non una liberazione, ma un trauma. Abbiamo insistito per decenni nell’illusione che il comunismo fosse comunque un modello più promettente, più carico di futuro, di un capitalismo pensato come moribondo sotto il peso delle sue «contraddizioni»; poi sono arrivati l’intuizione reaganiana che l’URSS era allo stremo, la corsa americana agli armamenti che rendeva definitivamente obsoleti quelli sovietici, Gorbaciov e la fine del blocco comunista. Avvenimenti di enorme portata, non solo storica ma anche filosofica, su cui a sinistra non c’è ancora stata vera riflessione.

Dove la consapevolezza non ha la forza di addentrarsi si insinuano l’inconscio e le sue associazioni. Abbiamo odiato gli statisti che negli anni Ottanta, insieme a Giovanni Paolo II, scossero dall’esterno il comunismo. Lo fecero esaltando una politica economica dalla parte dell’offerta e l’idea del mercato come unico regolatore dell’economia e della società. Era una impostazione che, certo, mirava all’indebolimento dei sindacati e del potere contrattuale dei lavoratori, ma rientrava comunque nel normale contrasto di interessi tra capitale e lavoro e difendeva l’individualismo della società civile contro l’invadenza del controllo burocratico. Il fatto che la si attuò nello stesso contesto dell’attacco vittorioso al totalitarismo del blocco orientale spinse tuttavia la parte più tenace del mondo progressista a dimenticare la natura individualista del neoliberismo e a sfruttare la sua esaltazione del mercato per ritorcergli contro la qualifica di «totalitarismo».

Ma infine occorrerà assumere un atteggiamento spassionato rispetto ai terribili avvenimenti del Novecento. Quando scrivi «nell’essenza del comunismo, continuo a individuare un’istanza emancipatrice, pure umiliata dalle vicende novecentesche», esprimi una convinzione che non posso più condividere. Essa equivale all’interpretazione che Chruščëv ha proposto della rivoluzione russa: Lenin avrebbe creato una società essenzialmente libera ed egualitaria, Stalin, con il suo culto della personalità, ne avrebbe rovinato l’opera creando lo Stato totalitario sterminatore. Ritengo che questa ricostruzione sia insostenibile: il totalitarismo sterminatore è invenzione di Lenin. A partire dal novembre del 1917 egli rende onnipotente il partito bolscevico con il controllo totale dello Stato e della società e con il terrore della Ceka e dell’Armata rossa, e scatena il massimo disordine sociale (la guerra civile) per rifare la Russia (e il mondo) da capo. A mio parere, solo questo intento di distruggere la realtà (anche con un’orgia di sangue) e di rifarla da capo con qualunque mezzo (anche con la coercizione burocratica capillare) può essere definito ‘totalitario’. In altri termini, totalitarismo nasce dall’odio sconfinato contro la realtà esistente ed è il progetto di annientarla per rifare l’uomo da capo. Il suo precursore è stato Rousseau, per quanto l’avere spostato l’utopia nel passato gli abbia consentito di ostentare un moderatismo apparente nel «Contratto sociale».

Se è plausibile questa definizione, la borghesia capitalista non può essere totalitaria, non solo perché la sua egemonia inizia con la «Glorious Revolution» del XVII secolo che ha respinto progetti di rinnovamento radicale e si è limitata a rivendicare l’indipendenza della società civile dallo Stato, ma soprattutto perché, come classe egemone, essa non può odiare la realtà esistente su cui esercita già la sua egemonia, né volerne il rinnovamento totale. Meno che mai può essere totalitario il neoliberismo, che consiste anzi in una rivendicazione dell’indipendenza della società civile contro l’invadenza dello Stato. Imputo i tratti totalitari attuali (quelli che emergono nella scuola, nella sanità, nella cultura, nel costume) all’influenza esercitata dal ceto politico progressista sugli organismi burocratici, in particolare quelli sovranazionali, alla sua abitudine di trasfigurare in palingenesi le novità, perfino quelle procurate da interessi economici ben determinati.

Scrivi che «la libertà contrattuale di mercato è solo la sua “apparenza” ideologica, che maschera fondamentalmente la disuguaglianza radicale nei rapporti di classe». Ma la disuguaglianza non ha affatto bisogno di mascherarsi; essa è la condizione normale della realtà e non comporta, in sé, la violenza o l’intimidazione, anche nel caso del rapporto tra chi comanda e chi obbedisce; infatti l’obbedienza è un atto voluto non meno del comando. Certo, poiché la disuguaglianza è una determinazione riflessiva (vi è posta esplicitamente la sua relazione ad altro), l’individuo è libero solo se nella sua disuguaglianza è anche uguale, e questa sua uguaglianza è la «persona» in senso giuridico, vale a dire l’insieme dei diritti essenziali dell’individuo. L’essere uguali come persone non elimina tuttavia la disuguaglianza naturale, ma la completa. Poiché in genere non si riconosce che uguaglianza e disuguaglianza non sono incompatibili ma si completano, «uguaglianza» è termine ambiguo: può essere riferita alla personalità giuridica che completa la disuguaglianza naturale oppure a uno stato utopico dell’umanità che sopprime quest’ultima; mentre l’uguaglianza della personalità giuridica si traduce in uguaglianza delle opportunità, che equivale alla possibilità di competere sullo stesso piano con gli altri per la realizzazione di sé, l’uguaglianza utopica equivale al livellamento dei risultati e si traduce nel disprezzo invidioso dell’eccellenza e nell’ingiustizia di trattare come uguali i disuguali.

Poiché l’uguaglianza di opportunità, la sola che abbia un preciso riferimento alla giustizia, non solo è compatibile, ma può approfondire la disuguaglianza dei risultati, l’esistenza della disuguaglianza non fa del contratto una menzogna. Tu stesso ammetti, in riferimento alla politica economica keynesiana, che esso non sia semplice apparenza. Io aggiungerei che il rifiuto del contratto ha implicazioni catastrofiche: colpisce non solo la proprietà, che con esso si scambia, ma ha ripercussioni sulla persona. Per questo è accaduto che il comunismo, essendo negazione della proprietà privata, ha negato anche la persona; infatti il corpo dell’uomo è il primo dei mezzi di produzione; la loro socializzazione investe dunque anche i corpi viventi sottraendoli alla sovranità dell’io. È così che Trotsky militarizzò gli operai russi e Bucharin sostenne che il corpo degli individui è proprietà dello Stato. Insomma, il rifiuto del contratto e della proprietà privata si è tradotto nella schiavitù generale, che negli Stati comunisti conosce solo gradazioni: attenuata nella società, totale nei lager, nei quali si viene rinchiusi non tanto in base a reati o a sospetti, quanto a partire dal bisogno statale di lavoro coatto.

Giusto è il tuo rilievo: «… colgo in te la preoccupazione di addossare al fronte “progressista” la totale responsabilità della deriva antidisciplinare della scuola», e ti ringrazio non solo della precisione della lettura, ma anche del tono pacato con cui ti esprimi. Questa è in effetti la mia ermeneutica dell’attuale decadenza della scuola occidentale. A me sembra che la pedagogia progressista sia definita non solo dall’errore di impedire l’insegnamento dell’insegnabile e di raccomandare l’insegnamento del non insegnabile, ma anche da una contraddizione tra fine ugualitario e strumento differenziante. Essa ripete l’errore di Rousseau, che attribuisce alla natura l’uguaglianza e alla civiltà la differenza, laddove la verità è l’esatto contrario: mentre la natura è la sfera della disuguaglianza, l’uguaglianza è l’idea di persona, sviluppatasi soltanto nel diritto occidentale sulla base del cristianesimo («Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù»). Avendo falsamente attribuito l’uguaglianza alla natura, la pedagogia impone alla scuola l’educazione indiretta, quella che si limita a offrire un ambiente allo sviluppo naturale dell’alunno, perché si illude di avervi un avviamento della costruzione della società egualitaria. Ma i bambini non hanno interesse per l’astrazione, cioè per la lettura-scrittura e per le materie disciplinari, che tuttavia sono condizioni imprescindibili per entrare nella vita economica e in quella politica. Solo quelli che hanno ricevuto un’istruzione astratta in famiglia possono acquisire qualcosa (molto poco) delle discipline astratte con metodi scolastici indiretti, solo costoro avranno gli strumenti di partecipazione all’economia e alla politica, così che la società non diventerà più ugualitaria, ma si irrigidirà in un insieme di caste impermeabili. Come Hirsch non si stanca di ripetere sulla scorta di Gramsci, l’abbandono della scuola al dominio della natura infantile, oltre a trascurare il compito prioritario dell’avviamento alla conoscenza astratta, va nella direzione esattamente opposta all’uguaglianza di opportunità.

Ma la pedagogia progressista ha una natura palingenetica; essa è fede nell’uguaglianza di risultato. Nella scuola delle conoscenze astratte sente una impostazione incompatibile con l’utopia; dunque la accusa di classismo, la smantella e la sostituisce con la scuola delle operazioni concrete, del lavoro manuale, sostenendo in modo del tutto infondato che le scienze astratte siano state emanate dal lavoro degli umili. Poiché vede che il lavoro manuale è accessibile a tutti e che il lavoro intellettuale incontra in tutti una resistenza più o meno tenace, vuole una scuola basata sulla manualità e che non abbia come compito prioritario l’accesso di tutti alle capacità intellettuali, ma lo consideri, al massimo, un sovrappiù acquisibile nello svolgimento delle attività «concrete». La pedagogia progressista più moderata indica dunque nel gioco e nel lavoro manuale la via di accesso all’acquisizione intellettuale. Scrive Dewey (il testo da cui cito è una vecchia antologia curata da Lamberto Borghi e edita da La Nuova Italia con il titolo «Il mio credo pedagogico»): «Il fatto si è che nella grande maggioranza degli esseri umani il puro e semplice interesse intellettuale non è quello che domina. In essi dominano quelli che si sogliono chiamare impulsi e disposizioni pratiche… Se noi avessimo dello scopo e della meta dell’educazione un’idea meno esclusiva, se noi introducessimo nei processi educativi le attività che si indirizzano a coloro in cui predomina l’interesse per il fare e per il costruire, ci accorgeremmo che la scuola eserciterebbe sui suoi membri un’azione molto più vitale, più prolungata, più effettivamente culturale di quel che non accada oggi» (p. 56). La pedagogia di Dewey consiste nell’esigere dagli insegnanti che i loro alunni acquisiscano le discipline astratte e l’astrazione propria dell’atteggiamento scientifico non in forma astratta, ma in forma manuale. L’abolizione della separatezza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale soddisfa l’esigenza ugualitaria: «Le occupazioni, il così detto lavoro manuale o costruttivo nella scuola, non soltanto devono offrire l’opportunità di far posto alla scienza che li illumini e che, da meri spedienti della mano e dell’occhio, li trasformi in materiale carico di significato; l’abito scientifico così conseguito deve diventare piuttosto un indispensabile strumento di libera e attiva partecipazione alla vita sociale moderna» (p. 50).

La via percorsa dalla scuola tradizionale è invece quella ovvia di diffondere a tutti le conoscenze astratte e la capacità di astrazione. Essa respinge la valutazione di Dewey che l’interesse intellettuale sia di pochi, e riconosce, anzi, che gli inizi dell’interesse intellettuale non sono proprio di nessuno, che nessun bambino imparerebbe per impulso naturale la lettura-scrittura e l’aritmetica. Essa si impegna dunque a insegnare con metodi diretti gli inizi della conoscenza astratta a tutti i bambini e la conoscenza astratta stessa a tutti i giovani che vogliono affrontarne le difficoltà. La sua strada è la generalizzazione dell’interesse intellettuale ed essa la percorre con successo, sconfiggendo l’analfabetismo e permettendo una preparazione teorica a tutti quelli che si impegnano per ottenerla.

Invece la via indicata da Dewey si dimostra impraticabile. La continuità tra manuale e intellettuale comporta la valutazione (divenuta uno dei dogmi fondamentali di ogni pedagogista) che l’intellettuale sia facile. È un passo molto ardito. Dewey lo compie in modo spericolato quando afferma che la rivoluzione industriale avrebbe messo in circolazione, non le chiacchiere idiote dei giornali, ma addirittura la cultura: «La conoscenza non è più un solido immobile: è stata liquefatta. Essa circola attivamente in tutte le correnti della società stessa… Stimoli di natura intellettuale si rovesciano su di noi per le vie più diverse» (p. 54). Sembra a Dewey che le pubblicazioni scientifiche, con i loro festoni di integrali, si trovino ovunque, anche dal barbiere, che tutti siano dunque in grado di comprenderle senza sforzo; dopo aver offerto questa curiosa versione epistemologica del sacerdozio universale, egli può concludere che «la vita meramente intellettuale, l’imparare e lo studiare scolastico, hanno perduto molto del loro valore. Accademico e scolastico non sono più titoli d’onore, sono diventati termini di riprovazione» (p. 54), finisce cioè nel più volgare disprezzo dell’atteggiamento teoretico.

Le discipline teoriche non sono però affatto facili e meno che mai nascono dalla manualità. Lo stesso Dewey, in fondo, ne è consapevole; prima della rivoluzione industriale, dice, «solo una lunga e accurata preparazione poteva mettere in grado di scoprire quello che essi [i manoscritti in cui erano raccolte e celate le sorgenti intellettuali del sapere] contenevano. Ne conseguiva inevitabilmente che i tesori della verità erano custoditi da una casta sacerdotale del sapere, che li distribuiva alle masse con rigide restrizioni» (p. 53). Egli trascura come inutile nozione il fatto storico che in una Admonitio generalis del 789 Carlo Magno ordinò che in ogni vescovado ci fossero scuole in cui il clero insegnasse ai bambini la lettura, la grammatica, i numeri, il calcolo, le note musicali e il canto. Così può imputare la lunghezza e l’accuratezza della preparazione teorica non alle difficoltà proprie dell’astrazione, ma alla scarsa diffusione dei manoscritti: «Non esistevano mezzi per rendere accessibili alla moltitudine le sorgenti intellettuali» (p. 53). La possibilità tecnica di stampare libri a milioni permette di evitare la preparazione teorica necessaria per leggerli! Succede insomma a Dewey di affermare nello stesso scritto che «nella grande maggioranza degli esseri umani il puro e semplice interesse intellettuale non è quello che domina», ma anche il contrario, cioè che le masse hanno fame di verità astratte e denti per divorarle e che non possono saziarsi per colpa della casta sacerdotale gelosa del suo monopolio del sapere («Ne conseguiva inevitabilmente che i tesori della verità erano custoditi da una casta sacerdotale del sapere, che li distribuiva alle masse con rigide restrizioni»). In queste miserevoli contraddizioni consiste il «pensiero» dell’eroe della pedagogia progressista.

La manualità non può avviare alla teoria astratta né sostituirla, ma diventa efficace solo in quanto ne è l’applicazione: la produttività dell’operaio dipende dagli studi dell’ingegnere. Per il suo carattere consapevole (per dirla con Kant: «universale e necessario»), l’acquisizione teorica, benché a volte possa servirsi di attività concrete, deve essere perseguita per sé stessa con un lavoro intensivo sull’astrazione logica e matematica, secondo le raccomandazioni dell’Admonitio generalis di Carlo Magno. Dewey, però, lo esclude e considera un segno di progresso «la relegazione in secondo piano dell’elemento puramente simbolico e formale» (p. 57). Dewey ha dunque posto agli insegnanti un compito non difficile, ma impossibile: quello di sviluppare negli alunni la competenza intellettuale per via manuale. A causa di questa impossibilità era inevitabile che la sua proposta si degradasse nei suoi seguaci, che essi realizzassero l’utopia del superamento della separazione tra manualità e teoria nel senso di una scuola grettamente professionalizzante, quella che Prosser esalta affermando che (cito da Hirsch, p. 120) «l’aritmetica commerciale è superiore alla geometria piana o solida; imparare i modi per mantenersi fisicamente in forma lo è allo studio del francese; imparare la tecnica per scegliere un’occupazione, allo studio dell’algebra; la semplice scienza di ogni giorno, alla geologia; il semplice inglese commerciale, ai classici elisabettiani».

Il passaggio dalla ottusa supponenza di Dewey nei confronti della teoria pura al folle abbandono di questa nella scuola avviene per opera della pedagogia progressista. La scuola borghese non si è mai posta in polemica con le discipline teoriche; unica sua colpa è quella che a maggior ragione si può rinfacciare alla pedagogia progressista: la negligenza nel diffonderle universalmente. Alla scuola progressista, che deve realizzare l’utopia egualitaria, che dunque prima nasconde con Dewey il lavoro intellettuale nel lavoro manuale, come se fosse una vergogna, e poi abolisce, con i suoi seguaci, l’obiettivo intellettuale perché eccedente il lavoro manuale, Hirsch oppone l’idea di scuola come strumento per l’uguaglianza delle opportunità. Egli contesta l’antropologia rousseauiana: gli uomini non sono uguali per natura, i bambini non sono tutti geniali, nessuno di loro acquisirebbe spontaneamente gli inizi della conoscenza astratta, ma a tutti devono essere date le opportunità di acquisire la conoscenza astratta, dunque gli strumenti teorici per farlo; non si può attendere che la natura faccia il suo corso, come fa la scuola americana (ed europea) attuale, perché il corso della natura non conduce alla conoscenza astratta. L’uguaglianza delle opportunità implica invece che la scuola istituisca una disciplina di apprendimento diretto, tanto più intensa quanto più i bambini provengono da un ambiente sociale svantaggiato; solo così avranno gli strumenti per trovare la loro strada nella società.

Alla luce di tutto ciò, penso di poter essere compreso quando imputo allo schieramento progressista il degrado della scuola e suggerisco di dirigere le critiche contro la pedagogia. Tu chiedi: «Perché quelle riforme sono state invece perseguite con determinazione e costanza, nonostante un’evidenza contro fattuale tanto palese (e altre continuano ad emergere, venendo sistematicamente ignorate)?». La mia risposta poggia sulla natura utopistica, non tecnica, della pedagogia, che le impedisce di assumere un atteggiamento sperimentale e di abbandonare la teoria smentita dall’esperienza. La tua risposta è invece che le riforme vanno avanti perché la sinistra riformista, che le ha imposte, «ha sposato interamente la logica dell’economia di mercato nella sua declinazione più radicale». A me risulta però che le riforme sono state imposte da una sinistra, quella di Berlinguer, di De Mauro, di Maragliano, che non è affatto assimilabile alla sinistra riformista, ma è sinistra radicale della più bell’acqua: sinistra che, perseguendo consapevolmente l’obiettivo dell’uguaglianza in generale, voleva che (cito dalle «Tesi sulla scuola» pubblicate sul «Manifesto» del febbraio 1970 da Berlinguer insieme a Cini e alla Rossanda) la scolarità di base fosse «svolta dalla comunità come corpo indiviso, invece che dalla scuola, luogo separato» – evidentemente sulla base della fede di Dewey nella diffusione universale della cultura e nella facilità della sua acquisizione. E, inabissandosi nelle menzogne più ripugnanti, il futuro ministro proseguiva: «Che in quanto tale [la comunità indivisa] diventi educatrice si vede, ad esempio, in Cina, dove non solo si possono chiudere temporaneamente le scuole [aggiungerei: e si possono umiliare e torturare a morte gli insegnanti] ma si sconta l’impossibilità materiale di fornire scuole a tutti, senza un rallentamento, ma anzi con una ‘crescita di conoscenze’». Al futuro ministro e ai suoi compagni non mancavano idee brillanti anche per rivoluzionare la formazione superiore: «Ci sembra… che la distruzione della scuola e il suo intero riassorbimento nel collettivo sociale debba verificarsi nella prima fase, cioè nel momento educativo; risolto questo, lo studio successivo non solo si effettuerebbe su un corpo coeso e atteggiato a una forte circolarità di idee e relazioni; non solo sarebbe una forma di lavoro e connesso al lavoro, facendo scomparire tendenzialmente la figura sociale dello studente in quello del lavoratore che anche studia; ma lo stesso rapporto di insegnamento-apprendimento acquisterebbe, sciolto da ogni carattere autoritario, il significato di uno scambio fra vari livelli di esperienza». In questa trasposizione di Dewey nella retorica del teppismo sessantottino è facile riconoscere l’attuale scuola dissolta nella società e finalizzata al lavoro.

Chiudo la mia replica insopportabilmente lunga. Scrivi: «Che la didattica pedagogistica o “per competenze” avesse la sua origine nella “didattica democratica” delle sperimentazioni degli anni precedenti, Ferroni già lo chiariva in modo esemplare». E tuttavia aggiungi «che quel bagaglio di esperienza si ripresentava… inserito in una cornice tecnocratica, perfettamente coerente con l’egemonia economicistica che da allora si sarebbe imposta in Occidente. Rimaneva ben poco di “progressista” o di “innovativo”, poiché da quel momento le due espressioni (ma molte altre) iniziarono a essere usate per stravolgerne l’autentico riferimento semantico». Se ben capisco, tu scrivi che la didattica pedagogistica ha origine progressista, che in seguito essa viene inserita nella cornice tecnocratica e che questo inserimento ne stravolge la natura. Sbaglio se traggo la conclusione che per te lo stesso pedagogismo può essere ora progressista e innovativo nel quadro della didattica democratica e ora deplorevole entro la cornice tecnocratica? Se così fosse, il risultato pragmatico potrebbe essere un’opposizione non al pedagogismo come tale, a motivo della sua assurdità tecnica, ma soltanto alla sua cornice tecnocratica, a motivo del suo riferimento politico. Sarebbe una conclusione molto triste: si continuerebbe a contestare l’operato dei ministri di destra e si lascerebbe che il pedagogismo continui a essere diffuso dai ministri di sinistra con l’appoggio sindacale. Sarebbe certamente una disgrazia per la scuola e per la nostra civiltà.

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