Scuola di fuffa
Testimone minoritario, sopravvissuto d’altri tempi nella scuola italiana, Monello parla del marasma della scuola attuale con una penna satirica impietosa, distruggendo la maschera dietro la quale la demolizione sistematica dell’istruzione pubblica è stata dissimulata: quella della retorica ministeriale.
Ho letto d’un fiato La Fuffoscuola di Gigi Monello (edito nel 2019 da Scepsi&Mattana Editori) e non poteva essere altrimenti. Per la vivacità intrigante, spericolata e funambolica del linguaggio, certo. Ma anche e soprattutto per la congenialità profonda, totale, fraterna che ho immediatamente avvertito con lo spirito di questo pamphlet. Una fratellanza intellettuale (ma anche etica e professionale) che mi impedisce, lo confesso, di scriverne in maniera oggettiva. Senza esserci mai conosciuti, io e Gigi Monello siamo affratellati infatti dalla comune appartenenza alla piccola famiglia di quei prof (ormai ex) i quali, con una rispettabile formazione culturale acquisita negli anni settanta, hanno insegnato nella scuola superiore dai primi anni ottanta fino a ieri, cioè proprio nel quarantennio in cui la scuola, il costume e la società italiani hanno vissuto la metamorfosi più profonda degli ultimi duecento anni almeno. Una sfortuna pazzesca…
In questo quarantennio la nostra scuola superiore è passata da un solido impianto proto-novecentesco (sopravvissuto, nella sua ossatura almeno, quasi fino agli inizi degli anni novanta) alla struttura liquida e tendenzialmente aeriforme di oggi. Questa mutazione è stata accelerata da una batteria etimologicamente formidabile di riforme e di riformine sparate dai vari governi ad un ritmo impressionante (quasi annuale) da venticinque anni a questa parte. Ma non tutte le trasformazioni vengono per giovare. Quelle che hanno investito la scuola sono venute, praticamente tutte, soprattutto per nuocerle. E del male che queste riforme hanno prodotto sul piano culturale ed educativo parlano ad abundantiam le cronache dei giornali e le statistiche della preparazione media dei nostri studenti.
Il libro di Monello tratta, certo, di tutto questo, ma è interessante soprattutto perché fotografa la realtà scolastica dal punto di vista inedito ed inaudito di quell’insegnante cólto e sfortunato di cui sopra. Un testimone minoritario, un sopravvissuto d’altri tempi (e forse perciò apocalittico) che è ormai residuale, non solo per ragioni anagrafiche, nella scuola italiana. Il libro di Monello parla del marasma della scuola attuale con una penna satirica impietosa. E siccome la satira è l’arte dello smascheramento, Monello impegna tutto se stesso a distruggere la maschera dietro la quale la demolizione sistematica dell’istruzione pubblica è stata dissimulata: quella della retorica ministeriale. Retorica modernistica trionfante, simil-tecnocratica e pseudo-pedagogica. Retorica pervasiva, debordante, infestante. Le fanfare della forma sopra il nulla della sostanza. Il trionfo della fuffa, appunto.
Non per caso Monello intitola il suo libro La Fuffoscuola: perché fuffa esprime, meglio di molti altri suoi sinonimi – con un frusciante, secco ghiribizzo sonoro – il micidiale coniugio di apparenza ingannevole e di nullità sostanziale. Fuffa, ovvero: «fanfaluca, fanfaronata, chincaglieria, ciacola, paccottiglia, balla, sparata, bomba, cavolata […]» (p. 46). Il gioco verbale, la fantasia mistilingue e plurilingue (con largo spazio ai dialetti) sono l’ingrediente più godibile di questo libello. Monello si sbizzarrisce talvolta in lunghi ed estrosi elenchi o cataloghi di parole, vuoi per parodiare il linguaggio pretenzioso e vacuo della prosa ministeriale, vuoi per evocare al meglio (cioè nel modo più grottesco e straniante) il caos che regna nel mondo della scuola attuale, con le sue mode assurde e il suo attivismo folle e scriteriato.
Citerei, una per tutte, la sequenza che descrive le infinite attività che devastano il tempo della lezione ordinaria: «giornate, progetti, giretti, teatri, escursioni, visite, cinematografi, concertini, mostrarelle, incontri, seminarietti, orientamenti, olimpiadi, quiz a squadre, certami, carabinieri, bancari, scrittori, suore che ballano […] marinai, polizie e avieri. E per finire […] la cruciale, indispensabile Alternanza». (p. 113).
Ho tagliato qualcosa in questa catena tendenzialmente infinita, nobilitata da un certo grado di elaborazione stilistica (allitterazioni, rime, assonanze, diminutivi). L’effetto di lettura è brillante, comico, vagamente plautino. La realtà sostanziale, invece, è desolante. In questo corto circuito continuo tra forma e sostanza si tocca il pregio e il limite di questo libello esilarante e distruttivo. Che è stato di sicuro un esercizio gratificante e catartico per chi lo ha scritto, così come lo sarà per i lettori sintonizzati sulla lunghezza d’onda dell’autore.
Già: ma quanti saranno i lettori in sintonia con lo spirito di questo pamphlet? Potranno esserlo i genitori, gli studenti, o addirittura i quadri dirigenziali della scuola? E soprattutto: potranno esserlo i nostri (ex) colleghi insegnanti? Temo che la domanda sia retorica. Non riesco infatti ad immaginare un grande interesse – e tanto meno un grande feeling – di gran parte di queste categorie verso un libello informato e spietato come questo. Non potrà forse esserci soprattutto perché molti ignorano (genitori, studenti e lettori estranei al mondo scolastico) la realtà che questo pamphlet svillaneggia con tanta piacevolezza e con tanta cognizione di causa. Ma non potrà esserci anche perché – temo – il target elettivo di un libro di denuncia come questo (insegnanti e dirigenti della scuola) oramai non condivide più, in gran parte, il punto di vista dell’autore: convertiti come sono, per convinzione o per quieto vivere, al catechismo ministeriale, prèsidi e colleghi della nuova leva potrebbero – del tutto a torto – liquidare questo libretto come l’ennesimo sfogo anacronistico e revanscista di un prof frustrato e superato dai ‘tempi nuovi’. Auguro vivamente all’autore che questo non succeda.
Paolo Mazzocchini è curatore del blog SATURALANX – ScritturaMista.