Il Raimo che sfugge

Indottrinare è indottrinare, sia nel bene che nel male; mentre la cultura è il più prezioso antidoto all’indottrinamento


Non ho alcuna intenzione di difendere per la prima volta in vita mia un ministro dell’istruzione, che può di certo difendersi da sé; e non ho alcuna intenzione di ricostruire una vicenda di richiami e sanzioni a carico di Christian Raimo, su cui è già stato detto e scritto molto e che ciascuno può indagare da sé.

Approfitterei invece dell’attuale clamore mediatico per tornare su una sua dichiarazione che non ho mai digerito, a causa dell’idea di istruzione che sottende, e dista anni luce dalla mia. Quella dichiarazione di Raimo risale a qualche mese fa, e recita così:

“io insegno a scuola, come dire… beh, picchiare i neonazisti penso che sia giusto”

Messo spalle al muro dal conduttore della trasmissione televisiva che lo ospitava, Raimo ritrattò parzialmente, ma senza perdere la propria sicurezza.
Ora, forse non è inutile precisare che non voglio difendere nemmeno i neonazisti; voglio invece contestare apertamente l’idea (che forse è sfuggita ai più) che un insegnante dica ai propri studenti come devono agire quando non sono a scuola. Con quest’idea – che spesso è invece evocata dalle famiglie che delegano alla scuola l’intera formazione della personalità dei figli – non sono affatto d’accordo, poiché credo in una scuola laica, cioè che non indottrini.

Come ho spiegato in modo più approfondito in un altro articolo, credo che la scuola sia un’istituzione che ha il fine precipuo di istruire, e che quest’istruzione promuova ineluttabilmente anche l’educazione degli scolari in almeno due modi:

1) proprio perché istruisce, la scuola educa a principi e valori l’intelletto degli scolari, attraverso lo studio delle diverse discipline (che di quei valori e di quei principi sono i collettori più straordinari ed imparziali che ci possiamo permettere);

2) proprio mentre istruisce, la scuola educa ad alcune regole e principi a cui sono tenuti tutti coloro che la frequentano in quanto comunità.

La prima tra queste educazioni non può essere pratica; la seconda sì, ma afferisce solo a quei comportamenti che uno scolaro deve mettere in atto quando si trova tra le mura della scuola (portare rispetto verso le persone, i ruoli e le cose; riconoscere e tollerare la diversità delle opinioni, dei modi di essere e di pensare altrui; coltivare la gentilezza nei modi e la razionalità nel pensiero…) al preciso scopo di consentire che la scuola sopravviva come istituzione ed espleti le proprie funzioni.

Ci sono certamente centinaia di dilemmi morali e civili su cui gli insegnanti, in quanto adulti, potrebbero avere qualcosa da dire, anche con qualche ragione; ma il loro compito (come avevano ben colto Condorcet e Arendt) non può essere quello di trasmettere alle nuove generazioni le idee ch’essi hanno maturato personalmente per chieder loro di applicarle; il loro compito è diverso: trasmettere il maggior numero possibile di conoscenze (storiche, scientifiche, geografiche, artistiche) sulla base delle quali si è imposto il complesso reticolo valoriale di cui è portatrice la nostra civiltà. Non è affatto bene che ai giovani sia chiesto di aderire sulla fiducia ai principi che consegniamo loro; è invece bene che i giovani trovino da sé la propria strada, seppur ciò significasse la ferma contestazione di quello che a noi sembra incontestabile, ma solo dopo che li abbiamo messi nella condizione (costosa, proprio com’è il percorso di studi) di comprendere (e per comprendere bisogna conoscere) come siamo arrivati a credere ciò in cui noi adulti crediamo.

Raimo non ha dunque sbagliato nel chiedere – io penso possa averlo davvero fatto – ai propri studenti di ricorrere alla violenza. Raimo ha sbagliato un passo prima, quando ha pensato di dire ai propri studenti che cosa avrebbero dovuto fare: qualsiasi cosa si trattasse di fare fuori dalla scuola (a parte i compiti).

P. S. è senz’altro valida l’obiezione secondo cui l’insegnante è pur sempre una persona che si deve mettere in una relazione significativa con i propri allievi, ed è quasi impossibile ch’egli s’esima dal rappresentare – anche con l’esemplarità vivente delle proprie condotte individuali, pure fuori dalla scuola – un’etica e una pratica con cui essi finiscono col confrontarsi. Ma c’è una grande differenza tra il porre i problemi e magari fornire soluzioni esistenziali ricorrendo alla forza della cultura, magari a coronamento di una bella lezione, attraverso le ragioni logiche e storiche che sempre la innervano, e il mettere in campo inviti sulla scorta del proprio credo.
Farò un solo esempio: un conto è illustrare ai propri allievi il senso del virtuoso equilibrio tra prodigalità e avarizia facendo una lezione sull’Inferno dantesco o sull’Etica a Nicomaco di Aristotele; un altro conto è invitare gli allievi – di punto in bianco – a divertirsi nel fine settimana, ma senza spendere troppo. Nel primo caso si tratta di un insegnamento profondo, argomentato; nel secondo caso di un invito superficiale e non richiesto, per quanto ragionevole, e al quale potrebbero fare seguito anche inviti irragionevoli, sgradevoli o del tutto parziali come quello di Raimo.

C’è un’alternativa interessante: che Raimo formuli certi inviti ai propri studenti sulla scorta di qualche lezione di filosofia della violenza, appoggiandosi a Nietzsche, Marinetti o Evola.


Foto di copertina da: https://www.facebook.com/christianraimo.raimo




Un commento

  1. Riprendo uno slogan vecchio e brutto (ma adatto secondo me al nostro caso): ” Né con Raimo né con Valditara”. Il primo è un pasdaran di una scuola sedicente progressista tutta ispirata al pedagogismo e forse (visto che è anche scrittore) ha più da guadagnare da questa discutibile sanzione in termini di notorietà mediatica che da perdere in termini di credibilità professionale. Il secondo per parte sua ha comminato la sanzione ben sapendo che non andava a colpire un prof pinco pallino ma uno discretamente noto e chiaramente schierato sulla sponda politica opposta alla sua. Con la scuola i ministri dell’istruzione fanno più che altro propaganda (oltre che danni), e Valditara non è certo una eccezione. Concordo ovviamente con l’autore del post che un insegnante non debba mai indottrinare nessuno, anzi insegnare in primis ai ragazzi a difendersi – argomentando e discutendo qualsiasi affermazione – da ogni indottrinamento, compreso quello che può, anche involontariamente, provenire dal proprio insegnante. Compito non facile, ma primario del nostro mestiere.

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