Censis dixit
Quanto apprendono gli allievi da quando le nostre scuole hanno iniziato ad aprirsi al ‘nuovo’?
Pochi giorni fa l’istituto Censis ha pubblicato il suo rapporto annuale sul Paese. Il mio occhio non poteva non cadere subito su alcuni dati:
- alla fine della scuola primaria il 24,5% degli allievi non ha raggiunto i traguardi di apprendimento in italiano, mentre il 31,8% non ha raggiunto quelli in matematica;
- alla fine della scuola media il 39,9% degli allievi non ha raggiunto i traguardi di apprendimento di italiano, mentre il 44% non ha raggiunto quelli in matematica;
- alla fine della scuola secondaria di secondo grado (“superiore” è fuor di dubbio espressione troppo ambiziosa) il 43,5% degli allievi non ha raggiunto i traguardi di apprendimento di italiano, mentre il 47,5% non ha raggiunto quelli in matematica;
- le scuole professionali fanno eccezione in negativo: alla fine del percorso l’80% degli allievi non ha raggiunto i traguardi in italiano, mentre l’81% non ha raggiunto quelli in matematica.
I dati sono impietosi; per gli insegnanti con un po’ di coscienza sono mortificanti.
Non la voglio fare troppo lunga: secondo voi la serie storica relativa a questi dati registra un miglioramento o un peggioramento? C’è qualche rapporto tra questi dati e il tipo di scuola praticato? La situazione va migliorando mano a mano che si diffondono le nuove metodologie didattiche, i progetti, l’uso delle nuove tecnologie nelle aule? Oppure è l’esatto contrario?
So con certezza che molti lettori arguiscono in cuor loro che il disastro formativo fotografato dal Censis nasce dal fatto che le nostre scuole non sono cambiate abbastanza, che i tempi corrono e noi siamo rimasti indietro pagando lo scotto del nostro conservatorismo (per non dire peggio). È un argomento che conosco bene, soprattutto perché ricorda gli argomenti utilizzati quando, a chi rilevasse il disastro sociale ed economico in cui precipitarono i paesi dove gli agguerriti creatori dell’uomo nuovo avevano cercato di portare il paradiso in terra, tanti rispondevano che là le cose erano andate male proprio perché non s’era fatto abbastanza: bisognava applicare con più zelo e sollecitudine i nuovi metodi.
So con uguale certezza che la scuola degli Stati Uniti, la quale versa in condizioni miserevoli, è il risultato lampante dell’applicazione protratta ed indefessa dei ‘nuovi’ (per così dire) metodi didattici che molti promuovono in Italia con entusiasmo.
Vogliamo proprio arrivare… sul fondo? A nessuno viene il dubbio che i cambiamenti che non producono i miglioramenti attesi siano semplicemente cambiamenti sbagliati?