Iniezioni di felicità
Non c’è realmente modo di sostituire con profitto i molti effetti benefici dello studio disciplinare, e della curiosità per il sapere. Ogni tentativo di creare negli allievi le condizioni psicologiche ideali e propedeutiche agli apprendimenti apre nuove falle nel processo di formazione della personalità in preparazione alla vita.
L’importante sociologo inglese di origine ungherese Frank Furedi si è occupato lungamente di scuola. Nel passo che segue, tratto da Fatica sprecata. Perché la scuola oggi non funziona (Vita e Pensiero, 2012, pp. 224-228), egli ci offre una descrizione estremamente lineare del processo degenerativo che, a partire dal bisogno di coltivare a tutti i costi il benessere degli allievi, conduce fino all’ingenua e invasiva educazione alla felicità. Il brano è tratto da un capitolo in cui l’autore affronta il tema della medicalizzazione e della terapia all’interno delle scuole.
Leggiamo.
“Oggi è pressoché normale che i bambini siano considerati creature fragili ed emotivamente vulnerabili, non in grado di reggere alla pressione delle vere sfide intellettuali. È in questo spirito che nell’aprile 2007 il ministro inglese della Scuola ha sollecitato gli insegnanti a complimentarsi regolarmente con gli allievi. Secondo le linee guida governative, gli insegnanti dovrebbero elogiare gli scolari cinque volte più spesso di quanto li sanzionano per aver disturbato le lezioni. Che una raccomandazione così semplicistica sul rapporto tra elogi e sanzioni sia stata fatta circolare a scuola è un segno del clima intellettualmente e moralmente impoverito che è oggi proprio di quest’ambito. Ma l’invito a trasformare i complimenti in routine non è affatto l’unico tentativo di lusingare gli scolari; al contrario, rientra nell’idea che metterli a proprio agio sia uno degli scopi principali dell’istruzione.
Questa tendenza a infantilizzare gli scolari ha avuto conseguenze disastrose. Fare sì che si sentissero bene con loro stessi è stata una delle principali preoccupazioni delle scuole americane negli ultimi tre decenni. A sette o otto anni gli scolari americani hanno già interiorizzato il gergo psicologico di cui sono inondati e sanno esprimere l’importanza di evitare le emozioni negative e avere un’alta autostima, ma ciò non ha nessun effetto percepibile sul loro rendimento scolastico. Anche in Gran Bretagna, diversi educatori hanno sposato la causa dell’educazione emotiva. Negli scorsi decenni essi hanno adottato una quantità di espedienti per migliorare la condotta aiutando i bambini a rilassarsi. Alcune scuole ricorrono allo yoga, altre all’aromaterapia e perfino alla musica chill-out nella speranza di migliorare concentrazione e apprendimento.
L’educazione alla felicità diventa a volte la caricatura di se stessa. Un rapporto del II convegno annuale su «La felicità europea e le sue cause» dell’ottobre 2008 contiene una sezione in cui Kevin Hogston, vicedirettore della Latchmere School del Surrey, disquisisce di «metro dei sentimenti, massaggi reciproci, meditazione in classe e altre «innovazioni» per accrescere il benessere degli alunni. Altri si occupano di «spiritualità olistica», mentre «famosi esperti di psicologia della felicità» dibattono su come rallegrare le scolaresche (dichiarazione alla stampa dell’ottobre 2008). La brochure della conferenza riesce a concentrare il peggio della retorica americana dell’autoaiuto e dello snobismo buddhista in salsa occidentale.
Le trovate dell’autoaiuto sono, nel migliore dei casi, uno spreco di tempo, ma, anche se è da escludere che aiutino a elevare gli standard dell’istruzione, non è detto che abbiano un cattivo effetto sugli alunni. Non si può dire lo stesso di altre, più intrusive invenzioni che mirano a insegnare agli alunni i modi di raggiungere la felicità. Fare della felicità una materia di insegnamento finisce per consolidare il cambiamento di prospettiva dall’insegnare gli aspetti della realtà all’impicciarsi della vita affettiva degli alunni. Perfino in base ai bassi standard dell’attuale politica dell’istruzione, una prospettiva simile non può non apparire strampalata. La felicità non si può insegnare. La inseguiamo da sempre, ma prima d’ora non era mai stata considerata come se esistesse in se stessa e potesse essere cercata in quanto tale. Gli insegnanti hanno sempre sperato che imparare potesse rendere felici almeno alcuni dei loro allievi, ma in generale non hanno pensato che si potesse imparare a essere felici a comando. Perversamente, più cerchiamo di far stare bene con se stessi gli scolari, più li distraiamo dall’impegnarsi in cose da cui potrebbero ricavare un senso di soddisfazione. Questi programmi alimentano una visione della scuola distorta da un’ottica troppo emotiva. L’aumento delle risorse scolastiche dedicate alla gestione delle emozioni degli alunni con buona probabilità li spingerà a diventare più introversi e meno capaci di affrontare le sfide che li aspettano.
Promuovere il narcisismo in classe è come incoraggiare gli alunni a sentire di avere un problema psicologico.
Promuovere l’istruzione terapeutica in quanto progetto di educazione delle emozioni dà l’impressione che i nuovi metodi di gestione del comportamento abbiano un valore educativo che in realtà non hanno. Ora come ora non sono le esigenze didattiche a modellare i programmi dell’insegnamento terapeutico, ma la confusione morale degli adulti. È probabile che il motore principale del movimento pro-felicità sia il disorientamento morale che prevale nelle società occidentali. Si ha difficoltà a dare un senso all’esperienza di ogni giorno tramite un linguaggio che indichi cosa è buono o cattivo, giusto o sbagliato, e il disorientamento crea una continua domanda di significato. I seguaci del movimento pro-felicità lo hanno capito, e questo è il motivo per cui presentano spesso la loro crociata come se fosse una riforma morale. Più che di moralità, però, si dovrebbe parlare di moralismo: se il movimento avrà successo, non sarà perché fa maturare una consapevolezza morale, ma perché sa trarre profitto dalle tecniche di gestione del comportamento. Per il raggiungimento della felicità, si conta sull’istituzionalizzazione delle terapie cognitive e comportamentali, non sul chiarimento delle sfide morali che abbiamo di fronte. La crociata pro-felicità mira a rendere normale quella che era sempre stata un’esperienza rara e fugace: la felicità è uno stato mentale che sopraggiunge attraverso esperienze che ci lasciano una sensazione speciale di realizzazione o danno un senso alla nostra vita. Nessuno può aiutarci a essere felici, ed è per questo che le politiche basate sulle tecniche terapeutiche hanno molte più probabilità di spingerci al conformismo verso forme ufficialmente approvate di comportamento emotivo. Insegnare la felicità agli alunni – o agli adulti, se è per questo è discutibile anche sul piano morale. È senz’altro lecito che un insegnante dica a un alunno cosa fare e cosa non fare, ma è suo compito anche istruirlo su come si deve sentire? Voler gestire la vita interiore del bambino è un’impresa altamente intrusiva, con implicazioni potenzialmente autoritarie. Come ci sentiamo e come gestiamo le nostre emozioni non dovrebbe essere di competenza di sedicenti esperti autorizzati da funzionari dalle idee confuse.
È stato Immanuel Kant a far notare che rendere un uomo felice è tutt’altra cosa da renderlo buono, e la storia ci ha insegnato che una vita ben vissuta non necessariamente è anche una vita allegra. Inoltre, le persone hanno spesso ottime ragioni per non essere entusiaste di quello che accade a loro e intorno a loro. L’insoddisfazione e l’indignazione sono state molle importanti per spingere l’umanità ad affrontare e superare le sfide della storia. Ecco perché i Coordinatori ne Il mondo nuovo (di Aldous Huxley) badano invece che le persone siano appagate da una dieta di sensazioni tattili e olfattive: un’appropriata metafora del perché dovremmo diffidare di una crociata il cui successo dipende dalla colonizzazione della nostra vita interiore.
È importante capire che l’istituzionalizzazione dell’insegnamento della felicità è fondamentalmente anti-educativa. Come in altre forme di insegnamento terapeutico, anche qui privilegiare sentimenti ed emozioni mina la tensione critica alla conoscenza e alle idee. «Quando in una lezione si pone enfasi sulle emozioni, è difficile per gli scolari imparare a pensare in modo obiettivo», scrive Kerlinger. Eppure i bambini devono acquistare il pensiero obiettivo se vogliamo che abbiano l’indipendenza intellettuale di cui hanno bisogno per farsi strada nel mondo. Inoltre l’educazione emotiva incoraggia una focalizzazione unilaterale sul sé, con un conseguente scompiglio nell’ambito dei rapporti tra alunni. «La preoccupazione per i sentimenti propri e altrui è una base infida per imparare a ragionare in modo obiettivo e critico su problemi e questioni, poiché l’affettività interpersonale colora e probabilmente distorce tutto il pensiero individuale», conclude Kerlinger (1).
I sentimenti dei bambini sono talmente influenzati dalla situazione familiare, dai rapporti con gli altri e dai sistemi di valori prevalenti, che la scuola può fare relativamente poco per aiutarli a sentirsi bene con se stessi. Potrebbe invece fare molto per aiutarli a sentirsi bene con la vita. L’istruzione può sviluppare l’immaginazione e aiutare le nuove generazioni ad aprire gli occhi sull’importanza della conoscenza e delle idee. L’istruzione rivela ai giovani la ricchezza della cultura umana e li incoraggia a pensare che la vita è qualcosa che possono davvero capire. La ricchezza del sapere umano è la risorsa più importante che abbiamo per invogliare i giovani a capire se stessi in quanto individui e membri di una comunità più ampia. Ed è attraverso lo studio della storia, della letteratura e delle scienze che i giovani scoprono la straordinaria complessità emotiva dell’esperienza umana e imparano a coltivare i loro sentimenti. «Le arti» scrive Bantock, «sono gli strumenti con cui i sentimenti possono venire affinati, resi coscienti, espressi e precisati». Ma le scienze non sono meno importanti a questo riguardo, perché «rappresentano modi in cui un impulso iniziale che nasce dal coinvolgimento emotivo può essere trasceso sotto la disciplinata realtà del comportamento». La psicologia del bambino tende a essere attiva e creativa; sta agli educatori stimolarla con la conoscenza invece di renderla passiva con la terapia”.
(1) queste osservazioni di Fred Kerlinger risalgono al 1960, in The implications of the permissiveness doctrine in American education, Educational Theory, 10.