A proposito del mutuo insegnamento

La pedagogia raccomanda il mutuo insegnamento perché vuole l’uguaglianza dei risultati e non tollera l’autorità magistrale

Proporre oggi il mutuo insegnamento, o ‘cooperative learning’, o ‘peer education’, ha qualcosa di intempestivo. Si tratta infatti di un metodo che risale a molto lontano e consiste nell’istruire gli alunni più capaci, che a loro volta istruiranno gli altri. Se dopo molti secoli non si è ancora imposto come metodo didattico principale, se ne dovrebbe dedurre non, come fa la pedagogia, l’inettitudine ostinata degli insegnanti, ma che esso comporta gravi difficoltà di applicazione e risultati così deludenti da indurre all’abbandono anche gli intrepidi che si ostinano a volere spezzare le reni alla realtà.
Osservato da vicino, il mutuo insegnamento appare soprattutto un espediente per superare le difficoltà delle classi molto numerose. Come tale, non esclude affatto il ruolo tradizionale del maestro, la sua autorità sugli alunni, anzi pone gli stessi alunni in un rapporto gerarchico: i più capaci o i più grandi diventavano maestri dei meno capaci o più piccoli.
La passione della pedagogia attiva per il mutuo insegnamento non ha però origine dalla considerazione pratica di come superare la carenza di insegnanti tipica delle società povere, ma, in primo luogo, dal desiderio, dettato dall’ugualitarismo ideologico, di esautorare l’insegnante. Poiché non tollerano l’insegnante che trasmette verbalmente dalla cattedra conoscenze e abilità agli alunni, i pedagogisti prima escludono la conoscenza discorsiva dagli obiettivi didattici e poi rimettono agli alunni la didattica residua, di tipo pratico-manuale. E affinché il verbalismo sparisca insieme all’insegnante, alcuni non si vergognano di raccomandare loro perfino l’imitazione, come se si potesse basare la scuola su un ripetere senza consapevolezza il comportamento altrui.
Negli Stati Uniti, a quanto scrive Hirsch, il ‘cooperative learning’ è praticato con la divisione di una classe in gruppi di circa cinque alunni che collaborano a un compito o a un progetto comune. Ma il coordinamento tra le attività di parecchi gruppi in una classe è tutt’altro che facile: gli alunni non possono essere abbandonati a sé stessi, il maestro deve esercitare un controllo attento, deve fissare obiettivi chiari e incentivi definiti. Per avere speranza di non degenerare nel pandemonio, l’apprendimento collaborativo non deve dunque essere pensato come un metodo centrato sull’alunno, alternativo a quelli centrati sulla trasmissione della conoscenza; lo si può usare con profitto solo in connessione con questi ultimi, per esempio affinché gli alunni più avanzati aiutino gli alunni più indietro, in modo che quelli consolidino le loro conoscenze e abilità e questi raggiungano il livello di competenze medio della classe. Ma anche qui c’è un limite: il dislivello tra gli alunni più avanzati e quelli più indietro deve essere minimo; in caso contrario l’eccellenza dei primi sarebbe sacrificata a fronteggiare le difficoltà di quelli più indietro, per un compito che spetterebbe all’insegnante.
L’idea di sacrificare l’eccellenza alle difficoltà cognitive per uguagliare il genere umano è tutt’altro che estranea alla pedagogia progressista. Essa ama il ‘cooperative learning’ non solo come mezzo per esautorare l’insegnante, ma anche come antidoto alla competizione e al successo individuale, dunque come strumento per realizzare l’utopia ugualitaria a scapito dell’eccellenza. Gli americani stessi lo hanno avvertito: come racconta Hirsch, «i genitori lamentano che i bambini capaci, che vogliono lavorare di più e meglio, sono a volte scoraggiati a farlo con l’accusa di non essere collaborativi con il gruppo».
In definitiva, qualora volesse servirsi dell’apprendimento cooperativo, l’insegnante dovrebbe farlo non in antitesi e in sostituzione della didattica tradizionale, ma solo occasionalmente e in congiunzione con questa. Usare il mutuo insegnamento non nasce da sano realismo, ma dall’invidia contro l’eccellenza e dal pregiudizio contro gli adulti, dal dimenticare che questi non solo hanno incomparabilmente più risorse dei bambini, ma li amano molto più di quanto i bambini si amino tra loro e che diventando adulti non perdono la memoria della loro infanzia e sono dunque in grado di capire i bambini meglio dei bambini stessi. È un fatto che la didattica di gran lunga più efficace non è tra bambini, ma quella di un singolo precettore adulto per ogni bambino. Il mutuo insegnamento porta su di sé le stimmate della miseria; la ricchezza si è sempre orientata verso il suo opposto.

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