Anni di svolta
Come in ogni ambito della vita umana, il cambiamento a scuola è continuo: ma c’è stata una fase su cui bisognerebbe portare la nostra attenzione più spesso.
Vorrei portare una piccola, forse insignificante testimonianza di quanto i segni del declino, nella scuola dell’obbligo, fossero già palesi più di quarant’anni fa.
Non ricordo l’anno esatto, forse il 1978 o il 1979: io abitavo a Milano, non lontano da un edificio scolastico allora di recentissima costruzione, sito sul prolungamento di Via Melchiorre Gioia. L’edificio ospitava una Scuola Media Inferiore. Io frequentavo il Politecnico, studentessa di Ingegneria Elettronica, proveniente da un ottimo Liceo Scientifico pubblico del centro. Per guadagnare qualche soldo, mi interessai circa la possibilità di fare supplenze.
Mi rivolsi alla Presidenza di quella scuola: era ormai Gennaio, e mancava nell’organico un insegnante di Matematica e Scienze. I ragazzi di alcune classi erano continuamente rimbalzati, fin dall’anno precedente, tra un supplente e l’altro. Arrivati a gennaio, non si trovavano neppure più supplenti. Compilai i moduli, fui immediatamente arruolata.
La situazione era drammatica. I ragazzi di prima media non sapevano eseguire le più elementari operazioni. Per quelli di seconda, tutto l’insegnamento di scienze dell’anno precedente e dell’inizio dell’anno corrente era consistito nel leggere ad ogni lezione la temperatura sul termometro affisso alla parete, per riportarla su un grafico. Il programma di matematica era stato completamente ignorato. Non sapevano nulla.
Armata dello zelo della gioventù, decisi di cercare di porre rimedio. Insegnati a tappe forzate le quattro operazioni e qualche altro concetto a quelli di prima, comprese le temute tabelline, con i ragazzi che si dimostrarono prima stupiti e poi molto ricettivi, emerse la tragica realtà. Sia per loro, che per gli allievi della seconda, dovetti constatare che non erano in grado di scrivere, sotto mia dettatura, il testo dei piccoli problemi che avrebbero poi dovuto risolvere. Tranne pochissimi, che evidentemente provenivano da un buon contesto culturale familiare, gli altri non tenevano neppure il passo di una dettatura lentissima. Per costoro, scritto faticosamente il testo del problema, rileggerlo e capire cosa venisse richiesto di calcolare era al di là delle loro capacità.
Preoccupatissima, chiesi di parlare con il docente di Italiano. Il quale mi accolse, mi ascoltò e mi rispose infastidito: ‘Il dettato è una forma di coercizione. Io sto coinvolgendoli con il mimodramma’. Per riassumere: da febbraio a giugno, insegnai loro a leggere e scrivere, li riportai al passo con i programmi di matematica e scienze, riuscendo a interessarli e a divertirli, sempre, però, richiedendo da ognuno attenzione ed impegno.
Molti dei ragazzi, a casa, ripetevano ai genitori gli esperimenti – piccole cose, per carità – che avevamo fatto in classe nelle ore di scienze, spiegando ai genitori il perché avvenissero certi fenomeni. Inventavo problemi che li incuriosissero, spiegando non solo il come, ma anche il perché un certo metodo avrebbe permesso di risolverli. Capito il metodo, tutto diventava facile.
Ero indubbiamente stanca, a fine mattinata, ma continuavo con successo i miei studi di Ingegneria. L’anno successivo, arrivò l’insegnante di ruolo, che sembrò stupefatta di come i ragazzi fossero carichi ed entusiasti e di come padroneggiassero quanto appreso. Io non avevo seguito super-ultra-mega corsi di didattica, di pedagogia, di formazione alla docenza. Avevo poco più di vent’anni, ma conoscevo bene, questo sì, quello che insegnavo e mettevo passione nel trasmetterlo.
Nel frattempo, l’insegnante di Italiano mi tolse il saluto. Posso assicurare che la cosa non mi creò il benché minimo turbamento. La Preside, una simpatica signora genovese, ingegnere civile, salutandomi mi disse: ‘Lei mi deve giurare che non farà l’insegnante. Sarebbe sprecata. Ha visto, come funziona, qui?’
Ecco riassunta, in poche righe, la parabola – in senso matematico – delle mie attività di docenza nella scuola pubblica italiana.
Per anni abitai in quel quartiere e i ragazzi, incontrandomi per strada, mi salutavano e ricordavano quanto si fossero divertiti e di come la matematica fosse utile e bella.
Non credo che mal comune sia mezzo gaudio: ho esperienza diretta familiare, avendo una sorella trasferita a New York da oltre trent’anni, che negli Stati Uniti la situazione è altrettanto drammatica. Lauree triennali a livelli infimi, in materie improbabili, cosiddetti ‘laureati’ che non sanno scrivere in modo corretto neppure nella propria lingua madre. Mia sorella, esemplare insigne della razza della gauche caviar, alle mie osservazioni sulla inconsistenza della preparazione dei suo adorati pargoli, risponde che io sono affetta da razzismo culturale, che i suoi figli sono aperti, hanno l’inclusività nel DNA e che, se anche scrivono in modo scorretto, per qualche dollaro si trova sempre qualche fesso che ha studiato e potrà correggere i loro testi. Ovviamente, loro sono ricchi, per cui col denaro possono comperare tutto, come la cara genitrice di cotanti somari non manca mai di sottolineare.
Non mi si dica che tutto ciò accade per caso. L’università americana è allo sfacelo, i ricercatori fuggono. La NASA ha perso per strada tutto il know-how che aveva accumulato in anni di missioni spaziali: Elon Musk ha dimostrato di saper fare molto meglio.
Credo di avervi tediato abbastanza.