Previsioni per il futuro: saremo molto attivi ma immobili
La voglia di stravolgere la scuola e la sua storia, frutto di lunghe esperienze passate, non sembra essere il risultato di un ragionamento
Non ho alcuna voglia di mettere sotto processo il mondo intero, come alcuni amano fare senza riuscire a portare una sola critica costruttiva. Qui mi limiterò a denunciare un aspetto di quel che succede nella scuola italiana e che troppi teorici della rivoluzione didattica e pedagogica, sazi di paroloni roboanti di nessuna presa su di me, non sembrano in grado di cogliere: parlo della incoerenza sistemica. Il mio sfogo personale dovrà pur avere qualche valore, in questa società che dà tanto valore alle emozioni di molti studenti e genitori perpetuamente offesi: ecco, questa volta l’offeso sono io.
Mi offende che i peggiori nemici della scuola di vecchio stampo, cioè quella che insiste tenacemente sul processo di trasmissione delle conoscenze, siano usciti proprio da quella scuola che rifonderebbero ex novo. Riflettiamo: quanto può aver loro culturalmente nuociuto, la vecchia scuola? Se non ha loro nuociuto non si capisce perché dovrebbe nuocere alle giovani generazioni; se invece ha loro nuociuto forse è il caso di non dare troppo credito alle loro teorie. Mi si dirà: “tu non sei d’accordo con le loro idee, eppure hai frequentato la loro stessa vecchia scuola. Forse essa ha nuociuto a tutti, ma solo alcuni se ne rendono conto: e tu non sei tra costoro”. Bene. Questa mi parrebbe un’ottima dimostrazione di come sia fasullo il pregiudizio secondo cui da quell’istituzione passatista uscivano solo cloni frustrati dei loro vecchi insegnanti frustrati, che riempivano in serie le teste dei loro allievi, come fossero vasi da standardizzare. Non è – forse – che gli allievi che uscivano dalla vecchia scuola erano capaci di giudicare in autonomia, secondo criteri scelti liberamente? Non è – forse – che quella vecchia scuola favoriva un pluralismo delle opinioni che era bene esistesse, e che oggi invece si vuole stroncare?
Mi si dirà ancora: “la vecchia scuola poteva forse funzionare ai tuoi tempi. Tuttavia i tempi cambiano, ed anche la scuola deve cambiare”. Questa mi pare una conclusione illogica. La società cambia, sì. Ma come non è sensato pensare che cambi il bisogno delle persone di alimentarsi, non cambia il loro bisogno di istruzione; anzi, di un certo tipo di istruzione. La scuola non può snaturarsi ogni pochi lustri sulla base di fragili supposizioni (e proiezioni psicanalitiche) circa gli imprevedibili bisogni futuri dei bambini e dei giovani ora seduti nelle aule, se non pagandone i costi altissimi. Quelle previsioni sono avanzate da individui che sembrano odiare i beni (certamente parziali ed imperfetti) che hanno ricevuto durante la propria gioventù, e dunque anelano a distruggerli spacciandoli per falsi beni.
La scuola deve pensare a soddisfare i bisogni che sono certi adesso, svolgendo anche una vitale funzione di raccordo: i più giovani hanno un profondo bisogno di comprendere il mondo (e la storia) che stanno vivendo, la realtà attorno a loro, proprio per prepararsi a criticarla, a correggerla come riterranno necessario; non hanno invece alcun bisogno di prepararsi ad un futuro immaginario che sedicenti esperti possono solo ipotizzare. Gli adulti, d’altra parte, hanno bisogno di sapere che le conoscenze, i principi e i valori che hanno loro consentito di muovere qualche passo in avanti non sono tutti beni provvisori, scaduti, decomposti. Hanno bisogno di sapere che quel patrimonio culturale che stanno per consegnare ai figli non è un cumulo di ciarpe ch’essi hanno passivamente introiettato in forza dell’azione sadica dei loro vecchi insegnanti. Quel patrimonio ha qualcosa di intrinsecamente prezioso, e gli adulti devono poter essere orgogliosi di trasmetterlo (magari dopo averlo in parte ritoccato) alle giovani generazioni, pure grazie alla scuola: ne va della salute mentale collettiva.
È necessario guardare con molta diffidenza al progetto di colui il quale, con un percepibile disprezzo del presente, aspiri ad abbatterne le istituzioni funzionanti, ancorché imperfette, allo scopo d’edificare un mondo migliore dove però dovranno vivere altri, e non lui; ciò vale soprattutto se, col proposito dichiarato di far loro del bene, egli comincia col privarli degli strumenti intellettuali che a lui consentirono di vivere, e pensare il miglioramento. Do la parola ad Hanna Arendt, che lo dice meglio di me:
« Caratteristica dell’uomo è che le nuove generazioni crescano in un mondo vecchio; e dunque, preparare una generazione nuova per un mondo nuovo indica solo il desiderio di strappare dalle mani dei nuovi arrivati l’occasione di farsi un proprio nuovo mondo. » [tratto da: Hanna Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano, 1991, p. 232]
Lo strabismo dei novatori, che credono di poter prevedere il futuro ma paiono orbi e distruttivi nel presente, produce mille contraddizioni mai abbastanza indagate. Ne porto un solo esempio. Da una parte i novatori invocano a gran voce la didattica “del fare”, le competenze degli allievi, la loro partecipazione concreta ed esperienziale, che parrebbero le uniche vie per un apprendimento imperniato su “compiti di realtà”, sull’operatività, sull'”attivismo”, qualsiasi cosa esso significhi; dall’altra i novatori tacciono da almeno vent’anni sull’immobilità, sulla progressiva paralisi fisica cui sono via via ridotti i ragazzini di oggi, soprattutto nella scuola primaria e secondaria: durante l’intervallo non possono correre, non possono fare “giochi pericolosi” a salvaguardia della propria incolumità fisica; non possono toccarsi, spingersi, sbracciare, saltare e lottare; non possono cioè fare tutte quelle “attività”, quelle “esplorazioni”, quelle primordiali “ricerche-azione” che tanto servono per prendere consapevolezza degli spazi e dei corpi attorno a loro, per conoscersi, per socializzare le proprie emozioni, per trovare il proprio ruolo all’interno del gruppo… A me questi divieti un po’ spiacciono, anche se non mi sconvolgono. Tuttavia, dopo aver letto le serrate lamentele di alcuni genitori, mi sarei aspettato anche qualche indignato ed iperbolico pronunciamento da parte dei nostri teorici dell’attivismo, in difesa di quell’unica attività per la quale alcune delle loro più ricorrenti parole d’ordine possono trovare un’applicazione sensata ed inequivoca. Invece niente. Zero. Nada. In nessuna sede.
Vorrà pur dire qualcosa.