Emotivismo
Siamo davvero convinti della necessaria priorità delle emozioni?
Anche nella scuola, come nel resto della società, durante gli ultimi decenni è cresciuta la convinzione che le emozioni rappresentino sempre una forma di comprensione della realtà da assecondare e valorizzare. Meno persone sembrano consapevoli del fatto che le emozioni, in quanto molecolarizzazioni delle idee individuali, possono dipendere da credenze, aspettative, desideri (consci ed inconsci) profondamente irragionevoli: ci si può eccitare perversamente nel compiere una crudeltà; si può trarre piacere dal dire cose cattive; si può provare il piacere del proibito, dell’illegalità; si può godere dell’altrui sventura, dell’altrui umiliazione o dell’altrui imbarazzo. Ciò naturalmente non significa affatto che le emozioni non esistano, o siano fisiologicamente inspiegabili; significa semmai che esse hanno una causa profonda e non razionale, che talvolta andrebbe analizzata e sanata: cosa che richiede un grande investimento di tempo ed energie, senza alcuna certezza degli esiti.
Ora, mentre l’opinione comune resta severa quando si tratti di giudicare il comportamento umano allorché i suoi effetti siano palesemente distruttivi, le cose sembrano essere un po’ cambiate quando si tratti di giudicare le reazioni, i vissuti emotivi. Ad essi infatti è riconosciuto uno statuto speciale che, sulla scorta di una specie di soggettivismo assoluto, sembra confondere ciò che è psicologicamente possibile con ciò che è moralmente legittimo. Ecco, credo che tale confusione possa costarci molto, e condurre ad una grande solitudine generalizzata. Quando un individuo è nutrito di convinzioni erronee fin dalla più tenera età (“sono il più bello… sono sempre una vittima… sono il centro del mondo… non valgo nulla… nessuno mi può dire di no”) ogni eccesso di tolleranza verso gli effetti emotivi di quelle convinzioni erronee è una spinta ad allontanare quell’individuo dalla collettività, quantomeno dalle relazioni più autentiche, oltre che una possibile apertura a manifestazioni di natura più concreta, magari aggressive e violente.
Secondo quello che ho chiamato il soggettivismo assoluto, quand’anche provi emozioni che siano il frutto di una sensibilità morbosa, patologica, distorta, una persona va comunque riconosciuta, rispettata ed accettata per quello che è, persino nelle sue manifestazioni più incongrue: le sue emozioni sono involontarie rappresentazioni di un modo d’essere che non sta a noi giudicare. In quest’ottica cade ogni distinzione tra le condotte personali disturbate e quelle ordinarie, venendo meno la possibilità di interpretarle secondo una moralità condivisa, in quanto armoniche e funzionali alla vita di relazione; tutte le condotte vanno piuttosto ricondotte a stati d’animo individuali, unici, incommensurabili: quella persona si sente in un certo modo e perciò va capita, a prescindere dai motivi per cui si sente così… anzi, forse è persino bene empatizzare con lei.
Ritengo che questo sia un approccio relazionale pericoloso, che sposta di non poco la soglia della suscettibilità nello scambio tra esseri umani, distorcendo prima di tutto gli esiti del dialogo e della libera discussione, all’interno dei quali – secondo questo approccio – ogni misura ed ogni regola non possono che smarrirsi.
Sempre più spesso i mass-media ospitano contraddittori che degenerano, che vengono interrotti a causa dell’iper-suscettibilità che tronca il flusso razionale di qualsiasi ragionamento. Sovente qualcuno commenta così: “se quella persona si è offesa, allora tu l’hai ferita; dunque ti devi scusare anche se non intendevi farlo”, poco importa che non ci sia stata alcuna offesa, e magari il problema sia nato proprio perché il dialogo ha fatto emergere verità che qualcuno non sopporta. Le discussioni sui social sono il primo evidenziatore della facilità con cui milioni di utenti, apparentemente incapaci di ascoltare e parlare affidandosi alle parole ed alla logica, precipitano nell’acqua marcia della misinterpretazione, del sospetto, dell’indignazione e dell’attacco personale.
Anche nelle classi, che dovrebbero essere il luogo in cui è la cultura a suggerire il nome e la forma più compiuta alle emozioni, insegnando ai bambini ed ai giovani a distinguerle, a tenere a bada quelle meno degne di ascolto, sta poco a poco prendendo piede la logica di una cura psico-affettiva per cui gli insegnanti non possono essere preparati, e che non dovrebbe competere alla scuola, pena lo sconvolgimento delle sue finalità dichiarate. Un solo esempio: una studentessa è preda di una crisi d’ansia in vista di una prova di verifica disciplinare? Ecco che bisogna darle modo di esprimere quel disagio; bisogna accettarlo, accoglierlo, dare consolazione, non giudicare, evitare di fare prediche sulla mancanza di misura emotiva, evitare di esortare al contenimento (ché sarebbe insensibilità); al contrario, bisogna interpellare la famiglia, spostare la verifica ad altra occasione, esonerare temporaneamente fino al ripristino della stabilità emotiva etc. .. Sembriamo non renderci conto che le diverse esternazioni emotive degli esseri umani si strutturano a partire dalle risposte ambientali, e dunque sono fenomeni storici modellati anche dalle abitudini familiari e sociali.
Che cosa vogliamo fare, allora, di queste emozioni eccessive, esorbitanti? Vogliamo diventare il popolo più ipersensibile e instabile della storia, oppure vogliamo proteggere la stabilità delle condizioni propedeutiche all’apprendimento nelle scuole?
Nelle classi possiamo presto ritrovarci a gestire (se non ci siamo già arrivati) il disagio individuale quando esso si esprima senza alcun freno, con l’alibi che il vissuto emotivo è di per sé sempre degno di ascolto; oppure possiamo decidere che la ragione critica su cui poggia l’istruzione esige un ordine dicibile, ovvero un alfabeto, una grammatica e un calcolo relativi alla vita interiore, la quale non deve eruttare liberamente rispondendo solo a se stessa, fuori da ogni possibilità di giudizio condiviso. Possiamo ancora scegliere, ragionandoci su.
Secondo Haidt, la salute mentale dei nostri giovani è crollata per due ragioni: anzitutto l’iperprotezione di un mondo adulto che ha cessato di essere guida dei bambini, ma in compenso non li lascia mai soli, trasmettendo loro la propria insicurezza; in secondo luogo l’abbandono dei bambini nel mondo virtuale. Naturalmente, invece di reagire in modo appropriato, cioè restituendo ai bambini il gioco libero e la disciplina scolastica e tenendoli lontani dal mondo virtuale almeno fino a 16 anni, aggraviamo le loro situazione trasformando la scuola in un ambiente di gioco protetto (basta voti!) che li invita a immergersi ancora più nelle esperienze immersive del virtuale (Scuola 4.0). L’esaltazione dell’emotività è la maschera ipocrita di chi non vuole reagire.
Almeno da Socrate-Platone-Aristotele, la premessa indispensabile dell’istruzione è l’ educazione intesa come formazione del carattere, la quale deve condurre l’individuo al dominio di sé, al controllo di brame, impulsi, affetti e sentimenti, ossia a stabilire una misura razionale per la propria condotta. La concezione individualista cui fa riferimento l’articolo mi pare “formi” persone fragili e incapaci di fronteggiare le avversità della vita, incoraggiando altresì una generale deriva anomica della società.
Mi pare esattamente così, con enormi costi individuali e collettivi, purtroppo. Fa specie che spesso questo tipo di sensibilità morbosa sia promossa (anche in altri campi) da una parte politica che per tradizione affida giustamente le sorti del singolo alla sua educabilitá.