Castità
Dietro le scempiaggini scritte o dette dagli studenti si cela un mondo caratterizzato dall’ignoranza e dall’arroganza di un popolo che sta perdendo la propria stessa cultura riuscendo sempre meno a trasmetterla alle future generazioni.
“Il primo gradino dell’ascesi è la castità perfetta: dà l’impulso alla generazione e alla propagazione della specie.”
Com’è possibile che una ragazza di diciotto anni che frequenta il Liceo possa scrivere una scempiaggine così sesquipedale? La ragazza è madrelingua italiana, non è BES, non ha alcun tipo di handicap né fisico né psichico, non è dislessica e nemmeno disgrafica e udite, udite, va bene a scuola con quasi la media dell’otto nel primo quadrimestre.
Analizziamo il libro di testo da cui la studentessa ha tratto la frase in questione:
“Il primo gradino dell’ascesi è costituito dalla «castità perfetta», che libera dalla prima e fondamentale manifestazione della volontà di vivere, cioè dall’impulso alla generazione e, quindi, alla perpetuazione della specie.”
Il primo passo compiuto inavvertitamente dalla ragazza è stato quello di eliminare l’inciso:
“Il primo gradino dell’ascesi è costituito dalla «castità perfetta», che libera dalla prima e fondamentale manifestazione della volontà di vivere, (cioè) dall’impulso alla generazione e, quindi, alla perpetuazione della specie.”
Dopodiché è stato rimosso l’avverbio “cioè”, forse perché in passato si sono spesso rimproverati i ragazzi per l’uso insistito e inutile di questo termine, e la preposizione “dall’” diventa il verbo dare: “dà l’” (d’altronde suona circa uguale) e ed ecco che il gioco è fatto.
Da notare che poche pagine prima il libro riporta espressamente la concezione di Schopenhauer dell’amore sessuale che viene considerato un “delitto” perché porta alla perpetuazione della specie e quindi del dolore universale, proprio in aperto contrasto con quanto asserito dalla studentessa.
Cosa mi dice questo fatterello, assieme a tanti altri del tutto simili? Molte cose, e tutte abbastanza preoccupanti.
La ragazza non conosce la parola castità, cosa assolutamente non grave in sé. Grave, invece, è non rendersene conto e non avere l’umiltà e la ragionevolezza di andare a guardarsela in una delle decine di modalità possibili. (Una volta bisognava portarsi appresso parecchi chili di dizionari vari, adesso no).
Un’altra ipotesi è che la ragazza conosce la parola ma non si cura affatto della sua congruenza con la frase che sta scrivendo e in un’ultima analisi non si cura affatto del significato di ciò che dice. E men che meno si preoccupa del fatto che ciò che ha studiato in una paginetta e che sta tentando meccanicamente di riportare dovrà pur avere una qualche relazione con ciò che ha studiato poche pagine prima.
La scuola è un universo totalmente alieno e “altro” dalla vita quotidiana, dalla vita “vera”: qualsiasi castroneria, qualsiasi insensatezza, qualsiasi sequenza di nozioni accumulate paratatticamente senza alcuna elaborazione, relazione, significato, imparata passivamente (e malamente) a memoria va bene purché serva a superare la verifica, l’esame, ecc. Essere bravi studenti significa essere bravi pappagalli o brave scimmiette che ripetono meccanicamente un mucchio di nozioncine totalmente inutili e slegate tra di loro: se si sa fare questo si prendono anche bei voti.
Questa convinzione intima di molti, moltissimi, ragazzi non può nascere da sé in quinta Liceo, ma è chiaramente frutto del sistema scolastico.
A questi ragazzi non è mai stato chiesto nessuno sforzo di comprensione effettiva di ciò che studiano, non è mai stato proposto niente di “difficile”, non è mai stato istillato il gusto per il cimento intellettuale, non è mai stato spiegato che è vero che a scuola si studiano molte cose di cui è difficile comprendere nell’immediato l’utilità ma che c’è pur sempre un senso e un’importanza nello studiare che verranno a galla col tempo. La scuola è pura socialità: un bel parcheggione dove tenere i giovani nell’attesa che divengano la nuova “carne da cannone”; fuor di metafora i nuovi frequentatori dei megacentri commerciali.
Che sia chiaro: il problema qui sollevato non è quello relativo ad un’astratta “etichetta” linguistica; non stiamo cavillando sul congiuntivo o sull’aoristo; ovviamente quando leggo in un compito “le branchie del sapere” mi viene da ridere ma sono il primo a dire che è un errore veniale; il problema vero, però, è che i ragazzi non capiscono quello che leggono, e non di rado quello che scrivono: credono di dire/scrivere una cosa e spesso in realtà dicono una cosa diversa e a volte opposta. Non sanno fare un banalissimo riassunto, hanno una conoscenza lessicale miserevole e desolante e spesso anche se conoscono una parola la conoscono in modo piatto e unidimensionale.
La lingua è strettamente connessa a tutta la cultura e la storia di un popolo, se perdiamo la nostra lingua perdiamo noi stessi e non guadagneremo certo l’inglese: che poi, a ben vedere, la stragrande maggioranza dei ragazzi in inglese non eccelle.
“Il linguaggio è la casa dell’essere“.
“Le parole sono importanti, chi parla male pensa male“.
“I limiti del tuo linguaggio sono i limiti del tuo mondo”.
A me sembra che gli alunni studiosi (per quelli non studiosi non si pone neanche il problema) siano fuorviati da un modo di studiare che mira al risparmio. L’ossessione di studiare di più in meno tempo porta a sottolineare in prima lettura, per dimezzare il numero delle frasi, quando il significato del testo non è ancora stato compreso. Ipotizzo che la frase in questione risulti da una sottolineatura avventata.
Penso che i libri di testo, giganteschi nella mole come nel prezzo (cinquecento, seicento pagine, magari per due ore di lezione settimanale), invitino a tagliare prima di capire.