Giugno di bontà
Sembra inestinguibile la tendenza di troppi docenti a valutare gli esiti dei percorsi scolastici seguendo criteri di tipo moralistico
Se potessi eliminare, con una rapida magia, un solo vizio intellettuale che strozza la vita di milioni di persone, e perciò agisce in profondità anche nella scuola, sceglierei di eliminare la confusione tra la spiegazione e la giustificazione degli atti umani. È un errore basilare dal quale deriva la fallacia di molti giudizi. Gli scrutini di giugno non fanno eccezione; anzi, essi sono sovente lo scenario in cui quei giudizi si palesano in tutta la loro perniciosità.
Sono persuaso che spesso si ricorra alla parola “buonista” del tutto a sproposito, tradendo una disumanità, un’intolleranza, una chiusura agli altri esseri umani che mettono paura; eppure – non di rado – succede che dentro l’accusa di buonismo ci sia del vero. Noi insegnanti dovremmo riconoscerlo: spesso siamo falsi buoni, perché facciamo scelte morali nocive anche per coloro che dichiariamo di voler aiutare. Talora, forse senza avvedercene (il che sarebbe un’aggravante a nostro carico), rasentiamo proprio quella disumanità di cui accusiamo coloro dai quali ci vorremmo distinguere.
Devo spiegarmi.
Per tutta la loro esistenza gli individui operano le proprie scelte anche alla luce delle esperienze che hanno vissuto, siano esse felici o tragiche. Nell’infanzia e nell’adolescenza le vicissitudini familiari, oltre che l’emergere di attitudini ed inattitudini, influenzano in modo significativo i comportamenti scolastici degli individui, nel bene e nel male. Tutti gli insuccessi, le mancanze, gli errori, i soprusi, le violenze si prestano ad una spiegazione, ovvero allo sviluppo d’un ragionamento che metta in relazione causale le storie e le condotte individuali.
Così, se uno studente manca d’impegno o insulta un insegnante, se fatica ad apprendere o a mantenere la concentrazione scontando difficoltà che non dipendono strettamente dalla propria volontà, è lecito supporre che l’ambiente familiare, sociale e culturale in cui egli è cresciuto sia parte della spiegazione di quel suo modo di pensare, di sentire, di agire: insomma, il contesto concorre alla determinazione della vita individuale che lo attraversa.
Fino a qui potremmo essere tutti d’accordo. Il mio disaccordo nasce al passo successivo, invero molto diffuso.
Mi riferisco a coloro che aspirano ad appianare le disparità che contraddistinguono le singole esistenze (c’è sempre chi è più fortunato, e chi è più sfortunato, sotto mille punti di vista) trasformando le spiegazioni relative alle carenze o alle mancanze individuali in vere e proprie giustificazioni buonistiche. Ci sono frasi che ascolto da anni, un po’ ovunque: “è vero, sa poco o nulla, ed è pure maleducato, ma la sua situazione a casa è molto difficile…”; oppure “anche se nelle prove di verifica è sempre andato male, non voglio che lui paghi per fragilità di cui non ha nessuna colpa”…
E chi ha mai detto che dare un voto negativo sanziona una colpa personale?
Molti colleghi non comprendono che, quando rileviamo l’impreparazione o la maleducazione degli scolari e degli studenti, non siamo chiamati a sanare le ingiustizie esistenziali, a raddrizzare le storture della vita modellando la valutazione a partire dalle sfortune dei singoli. Molto più semplicemente, in quel momento, noi insegnanti dobbiamo prendere a cuore la verità scolastica.
Chi non si attiene a questo principio fondamentale sembra preda d’un senso d’onnipotenza: infatti – a ben guardare – non c’è davvero nessuno che possa sapere se tizio o caio, a scuola, stiano restituendo di più o di meno di quello che hanno ricevuto in dono dalla sorte. L’importante ufficio che la collettività ha affidato agli insegnanti è quello di attestare il grado di preparazione disciplinare degli allievi, magari usando un tot di flessibilità che deriva dall’esperienza. Nessuno ci ha mai delegati a decidere chi meriti e chi non meriti il nostro riconoscimento su un piano morale, anziché su quello culturale.
Apriamo gli occhi. Non tutti i ragazzi con famiglie difficili o in difficoltà diventano violenti ed offensivi, o trascurano lo studio; non tutti coloro che hanno provato dolore diventano macchine per dispensare dolore; non tutti i figli di avari sono a loro volta avari; non tutti i figli di genitori ben istruiti mostrano interesse ed attitudine allo studio; non tutti i bravi genitori riescono ad evitare che i figli si smarriscano, in qualche misura. La vita non è decisa in partenza, e l’esistenza di una scuola aperta a tutti si fonda anche su questo assunto. Il percorso di un individuo è il prodotto di innumerevoli forze e controforze che ne rendono imprevedibile lo sviluppo. Gli esseri umani hanno sempre un margine di libertà che non dobbiamo trascurare, soprattutto se siamo educatori: l’educatore che accetti l’ineluttabilità del destino individuale non ha senso di esistere.
Al contrario, il buon educatore non pensa al bene ideale per tutti; pensa piuttosto al bene possibile per ciascuno: protegge dunque l’allievo che si prodiga con successo per sottrarsi ad un destino che parrebbe tracciato, ne riconosce i risultati niente affatto scontati; si guarda bene dal giustificare coloro che, in analoghe condizioni di fragilità o svantaggio, non raggiungono i propri obiettivi. Egli sa infatti che giustificando all’infinito le carenze, le mancanze e le lacune dei propri allievi non si limiterebbe a falsare la realtà ai loro occhi, ma li danneggerebbe per sempre: danneggerebbe sia coloro che crede di beneficare con voti e promozioni immeritate, perché essi, non ricevendo riscontri obiettivi sulla propria situazione, non avrebbero l’opportunità di correggersi e migliorarsi; sia coloro che, vedendo premiato allo stesso modo il raggiungimento di traguardi diversi, cesserebbero di applicarsi a fondo al legittimo scopo di distinguersi.
Certo, nella pratica ci sono molte possibili spiegazioni dietro lo studente che insulta l’insegnante, dietro la sua mancanza di applicazione o dietro la sua refrattarietà alle proposte didattiche, così come, in società, si possono rintracciare varie spiegazioni causali alla corruzione, all’egoismo, al razzismo, al furto, all’omicidio… Tuttavia, nel momento in cui tali spiegazioni vengono assunte come giustificazioni, finisce in frantumi ogni prospettiva educativa. L’educazione non può attendere il giorno in cui tutti gli educandi siano posti idealmente sulla medesima linea di partenza (posto che sia auspicabile, ciò è impossibile in linea di fatto e di principio); l’educazione deve invece occuparsi di questi studenti, qui ed ora, distinguendo tra chi sa e chi non sa, tra chi è educato e chi è maleducato, tra chi collabora e chi non collabora. Il resto mi paiono sillogismi difettivi destinati – sul lungo periodo – a sostituire la vita civile con l’irragionevole brutalità.
Perché? Perché fino a quando crederemo che ogni allievo è misura di tutto; fino a quando indulgeremo nella correzione e nella valutazione appellandoci al fatto che le storie individuali degli scolari e degli studenti sono tra loro incommensurabili; fino a quando stenteremo nella formulazione di giudizi obiettivi temendo di apparire crudeli e poco inclusivi, allora staremo lavorando per un mondo di solitudine assoluta, dove il confronto con l’altro pare inaccettabile, dove si spaccia per bontà umana la velleitaria negazione della differenza.