“Gli insegnanti vogliono insegnare, gli alunni vogliono apprendere”

Riportiamo qui il testo di un intervento di Chistophe Duval, rappresentante del “Manifeste pour la reconquete d’une école qui instruise” che in Francia raccoglie migliaia di adesioni


Il testo che segue è la trascrizione dell’intervento tenutosi all’interno della “Conferenza nazionale per l’abrogazione della legge 107 e la riconquista di una scuola che istruisce”, tenutasi a Torino il 19 maggio 2018, così come riportato in AA. VV., Lettere dalla scuola. Corrispondenza in difesa della scuola pubblica statale promossa dal comitato di collegamento per la riconquista di una scuola che istruisce, StreetLib Write, n. 1 settembre 2018, pp. 51-55:

“Vorrei parlare della situazione della scuola in Francia nel quadro del Manifesto per una scuola che istruisce. La prima cosa che noto, quando vado nelle classi, è effettivamente una grande richiesta di istruzione. La cosa che colpisce di più quando si va in una scuola media e si entra in contatto con ragazzi tra gli 11 e i 15 anni è la povertà di linguaggio: i ragazzi di questa età usano tra le 30 e le 80 parole, il loro linguaggio non ha alcuna sottigliezza, sfumatura, nessuna proprietà. Benché la mia materia sia la matematica, devo dire che si può anche vivere senza conoscere benissimo la matematica, ma senza linguaggio viene a mancare veramente qualcosa di fondamentale per la comunicazione, per la vita.

La domanda è allora quella di istruire: ma chi è che istruisce? Evidentemente sono gli insegnanti. In questi anni ci sono stati ingenti tagli di posti, ma ci sono ancora moltissimi insegnanti in Francia, c’è la voglia di essere istruiti e c’è la disponibilità ad insegnare. E allora da dove arriva il problema? lo parlo con moltissimi insegnanti e vedo che c’è una grande volontà di insegnare e di trasmettere conoscenze. Spesso gli insegnanti giovani fanno riferimento a qualcuno che li ha formati, ad un insegnante che hanno avuto da studenti e che ha lasciato un segno. Vorrebbero ripercorrere quel cammino e in un certo senso vogliono trasmettere il sapere che da 2.500 anni viene trasmesso, ad esempio il teorema di Pitagora, la storia.

Insegnare è di per sé molto semplice: si tratta di sapere qualche cosa e di “consegnarla” a qualcuno che non ce l’ha. I giovani non hanno queste conoscenze, questo sapere. È un principio semplice da dire, ma nella realtà è molto difficile. Insegnare vuol dire mettersi al posto di chi non sa, di chi non comprende, mettersi dalla parte dell’altro. Naturalmente per fare questo non c’è un metodo unico. Dipende dall’insegnante, dalla sua storia, dalla sua sensibilità, ma anche dall’allievo, dal suo livello. Sono da considerare anche i fattori esterni: non si insegnano le stesse cose il lunedi mattina o il venerdi dopo pranzo. Per tutte queste ragioni sarebbe assurdo pensare ad un insegnante “normato”, semplice esecutore di un unico metodo. Quindi non può esserci insegnamento senza libertá pedagogica. Questa è la prima condizione. La seconda è che per insegnare l’insegnante deve essere sostenuto. Infatti insegnare vuol dire andare contro una tendenza naturale del bambino: quando si é bambini e quando si è ragazzi si vedono le cose semplici e lineari, ma insegnare ed imparare significa anche andare incontro a cose che non sono sempre semplici, lineari e divertenti. In questo senso gli insegnanti devono essere sostenuti nella loro missione. Oggi evidentemente gli insegnanti non sono sostenuti: sono abbandonati, sono affossati, attaccati. Ogni insegnante sa che, al minimo litigio che ci sarà con un allievo, gli verrà dato torto, dunque cerca di farsi apprezzare, di piacere, ma se ci si mette su questo piano non può esserci educazione e istruzione.

Il ministero spinge gli insegnanti a dare buoni voti, ad avere un atteggiamento di benevolenza nei confronti degli alunni, per accattivarsi ragazzi e famiglie. In questo modo però si ingannano gli allievi, li si ritiene indegni di avere un’istruzione. Per me non è benevolenza, ma disprezzo, cattiveria.

Oggi la libertà pedagogica è sottomessa alle competenze. Ogni insegnante deve conoscere a memoria tutte le competenze e le sottocompetenze trasversali che l’allievo deve acquisire. Ogni materia ha le sue competenze e le sue sottocompetenze. Queste competenze in generale sono dei verbi all’infinito: osservare, argomentare, dare prova di empatia nei confronti del prossimo. E l’insegnante deve giudicare gli allievi in base a queste, utilizzando griglie predisposte. Ho visto ispettori che andavano dagli allievi chiedendo che cosa avessero appreso, quale competenza. Un insegnante “normale”, dico io, risponderebbe di aver insegnato il triangolo, i numeri decimali, ad esempio. Ma questa non é una risposta da dare agli ispettori. Un insegnante oggi deve rispondere di aver insegnato rispetto ad una certa griglia di competenze e di sotto competenze. Dunque gli insegnanti sono messi in una condizione di insicurezza, perché non sanno più come e cosa insegnare. In qualche modo si chiede loro di atomizzare il loro sapere e questo snatura completamente la cultura, perché, se si guardano gli atomi, si perde il senso globale. Tutto ciò porta a fare un insegnamento senza senso, gli allievi vengono considerati stupidi.

Questa è una tendenza di tipo totalitario: si pensa che un allievo possa essere assimilato ad un robot e la trasmissione del sapere non è più considerata un obiettivo, l’obiettivo è che non ci sia trasmissione di conoscenze. In occasione dell’ultima riforma della scuola media ci sono state delle inchieste per verificare che nella scuola media non vengano più insegnati il latino e certi argomenti di matematica. Recentemente ho visto rimproverare un insegnante che chiedeva le tabelline agli allievi. Sembra di essere in guerra, si assiste ad un “coprifuoco” del sapere e chi insegna deve farlo di nascosto.

Quello che ho appena descritto però non riguarda tutti gli alunni, di tutti i livelli sociali. Per esempio il nostro Presidente della Repubblica e il nostro ministro amano fare citazioni in latino, usare parole difficili, vantandosi di avere ricevuto una buona istruzione nelle migliori scuole (scuole private), ad esempio quella dove ha studiato il ministro é quella in cui ha studiato il generale De Gaulle. Il direttore di questa scuola ha affermato di essersi complimentato con gli insegnanti che non applicano la riforma. C’è una evidente discriminazione che con il governo precedente era celata, ma con questo attuale diventa palese: ai ragazzi dei settori popolari si propongono le competenze, i progetti, i tablet, con l’ultima riforma si toglie loro il diritto di conseguire una maturità, un titolo di studio con un valore nazionale. Fino ad ora esisteva una maturità che era uguale per tutti: l’esame era nello stesso giorno, alla stessa ora in tutta la Francia. Questo permetteva di limitare lo scarto tra quartieri poveri e quartieri ricchi. Il professore diceva all’alunno: “Non è l’esame che deve abbassarsi al tuo livello, ma sei tu che devi elevarti al livello dell’esame e visto che la maturità era uguale per tutti, garantiva a tutti gli stessi diritti, la stessa cultura. Tutti coloro che conseguivano la maturità potevano iscriversi all’università. Adesso, sopprimendo la maturità nazionale, il governo crea al suo posto degli esami locali che non hanno più lo stesso valore. Coloro che avranno ricevuto la migliore cultura, come il ministro e il presidente, potranno iscriversi nelle migliori università, mentre i giovani dei quartieri popolari, che hanno avuto la scuola delle competenze, dei progetti, dei tablet dovranno limitarsi alle formazioni locali, che sovente in Francia indirizzano verso il turismo.

Tutti i politici che hanno voluto questa riforma dicono che le riforme sono buone per i figli degli altri, ma non per i propri. E quello che è più offensivo è che per giustificare la soppressione della maturità il governo dice che il livello nelle scuole è diventato troppo basso, come se non sapessero che sono le riforme degli ultimi trent’anni ad aver fatto cadere questo livello cosi in basso. C’è molto cinismo in queste affermazioni.

In conclusione conquistare la stessa Istruzione per tutti é vitale per il sapere, perché non ci sia una rottura della trasmissione della cultura; evitare che il mestiere dell’insegnante non venga snaturato è vitale soprattutto per la gioventù dei quartieri popolari, perché impari a pensare in modo critico e perché abbia il mondo che desidera”.

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