Hanna Arendt: alle origini del pedagogismo
La filosofa tedesca colse la tendenza della pedagogia a sganciarsi dalle discipline d’insegnamento
“L’importanza attribuita all’istruzione pubblica da tutte le utopie politiche, fin dall’antichità, prova quanto sia naturale pensare di dar inizio a un mondo nuovo partendo da esseri «nuovi» per nascita e per natura. In senso politico, quest’idea rivela un grave malinteso: anziché assumersi l’onere della persuasione insieme ai propri pari, correndo con loro il rischio di fallire, si interviene in maniera dittatoriale convinti della superiorità assoluta dell’adulto; si tenta, insomma, di produrre il nuovo come un fatto compiuto, cioè come se già esistesse. Perciò la convinzione di dover cominciare dai bambini se si vogliono creare nuove condizioni in Europa è rimasta principale monopolio dei movimenti rivoluzionari di stampo tirannico, che, appena assunto il potere, toglievano i figli ai genitori, in definitiva per indottrinarli […] L’educazione è il pretesto: fine autentico è una coercizione che non fa uso della forza. […]
Caratteristica dell’uomo è che le nuove generazioni crescano in un mondo vecchio; e dunque, preparare una generazione nuova per un mondo nuovo indica solo il desiderio di strappare dalle mani dei nuovi arrivati l’occasione di farsi un «proprio» nuovo mondo. […]
Per quanto riguarda la pedagogia vera e propria, l’illusione nata dall’entusiasmo per il nuovo ha avuto le conseguenze più gravi solo in questo secolo. Innanzi tutto ha permesso, a quell’insieme di moderne teorie pedagogiche nato nella Mitteleuropa e consistente in un incredibile guazzabuglio di idee sensate e di assurdità, di portare a termine, sotto il pretesto dell’educazione progressista, una rivoluzione più che radicale di tutto il sistema scolastico […].
Da questi rovinosi provvedimenti possiamo risalire, semplificando, a tre assunti basilari, fin troppo conosciuti. Il primo è che esistano un mondo di bambini e una società di bambini, autonomi e da lasciare per quanto possibile all’autogoverno dei bambini stessi: gli adulti non avrebbero che da cooperare a tale governo. L’autorità, che dice cosa fare e che cosa non fare a ciascun singolo ragazzo, è inerente al gruppo stesso: ne consegue, fra l’altro, che l’adulto si trova disarmato di fronte al bambino e impotente a raggiungerlo. Può solo dirgli di fare come vuole e poi cercare di evitare il peggio. Sono così spezzati tutti gli autentici rapporti normali tra giovani e adulti, quei rapporti derivanti dalla presenza simultanea, nel mondo, di persone di ogni età. Altra caratteristica intrinseca di questo primo assunto è di tenere conto solo del gruppo e non del singolo ragazzo.
Quanto al bambino stesso che fa parte del gruppo, la sua situazione è naturalmente anche peggiore di quanto non fosse l’altra, che si è voluto abolire. Infatti, l’autorità di un gruppo, sia pure d’un gruppo infantile, è sempre molto più forte e tirannica di quanto non possa essere anche la più rigida autorità di una sola persona […]
Quindi emancipandosi dall’autorità degli adulti il bambino non si è trovato libero, bensì soggetto a un’autorità ben più terrificante e realmente tirannica: alla tirannia della maggioranza […]
Il secondo assunto di base messo in crisi dalla presente situazione concerne l’insegnamento.
Influenzata dalla psicologia moderna e dai dogmi del pragmatismo, la pedagogia si è trasformata in una scienza dell’insegnamento in genere, fino a rendersi del tutto indipendente dalla materia che di fatto s’insegna. […]
Ora, la pedagogia e il corpo insegnante possono avere la funzione perniciosa che abbiamo descritta solo in virtù di una certa teoria dell’apprendimento, derivata per logica applicazione del terzo assunto di fondo. Si tratta di un concetto che il mondo moderno sostiene da secoli, e che nel pragmatismo ha elevato a sistema: secondo tale assunto, dunque, si può conoscere e capire soltanto ciò che si è fatto da sé. Applicato all’istruzione, ciò significa, in termini primitivi quanto ovvi, che l’imparare viene per quanto possibile sostituito dal fare. Non si dà alcun valore alla padronanza della materia da parte del professore proprio per costringerlo a prose- guire nell’attività dell’apprendimento, così da non trasmettere, come si dice, delle «morte nozioni», bensì essere continuamente teso a mostrare il processo produttivo della conoscenza. L’intenzione consapevole non è d’insegnare una conoscenza bensì di inculcare una tecnica. […]
Ma risulta ben strano che tanto danno sia recato al fanciullo proprio dalla pedagogia moderna, la quale si prefiggeva come unico scopo il bene dei bambini, mentre si opponeva ai metodi usati in passato proprio perché questi non tenevano in sufficiente considerazione l’intima natura e i bisogni del fanciullo stesso. Il secolo dell’infanzia, dovremmo ricordare, avrebbe emancipato il bambino, liberandolo dall’imposizione di criteri derivati dal mondo adulto. Come dunque poterono essere trascurate o addirittura misconosciute le condizioni di vita più elementari indispensabili alla crescita e all’evoluzione del fanciullo? […]
Poiché il bambino non conosce ancora il mondo, deve esservi introdotto un poco alla volta; e poiché è una cosa nuova, occorre far sì che egli giunga a maturità rispetto al mondo qual è […]
L’insegnante si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità. Di fronte al fanciullo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini adulti della terra, che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo”
[brani tratti da Hanna Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano, 1991, pp. 231-247]