Hector Herrera: Troppo ansiosi per consegnare in tempo
Come i colleghi usino facilitazioni per coccolare gli studenti.
Se amiamo veramente i nostri figli perché stiamo costruendo sistemi e pratiche che minano fattivamente le loro possibilità di successo?
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C’era una volta la scuola in cui a tutti venivano fatte le stesse richieste, con gli stessi tempi e le stesse modalità; era la scuola in cui qualcuno faceva più fatica a leggere, ci metteva di più a imparare a memoria le poesie e le tabelline, doveva insomma mettercela tutta per arrivare al minimo, mentre altri galoppavano. A volte erano volenterosi ma poco capaci, a volte solo lazzaroni: nessuno fino a un decennio fa si era mai sognato di dare un nome più preciso a questo stato di cose. Oggi le nuove scoperte scientifiche ci dicono che ogni cervello è diverso, che conosce e impara a modo suo, e che quindi la scuola deve cambiare, assecondare le modalità dell’imparare di questi studenti, e quindi creare Piani Didattici Personalizzati per ciascuno di loro, che sono ormai 6 o 7 per classe, ad andar bene. Peccato però che i contenuti delle discipline non siano negoziabili, che la loro complessità è rimasta – grazie a Dio! – immutata, e che l’unico risultato di questa pletora di strumenti dispensativi e compensativi è servita solo a dare l’illusione agli studenti che possano farcela comunque, mentre sono semplicemente gli insegnati ad essere “costretti” ad abbassare il livello, a chiedere meno, e alla fine dare la sufficienza a chiunque abbia una qualche difficoltà, in virtù dei suoi problemi psicologici: non fanno eccezione nemmeno i voti di condotta, e parlo per esperienza!
Situazioni analoghe sono presenti anche nelle università d’Oltreoceano, come illustrato chiaramente dalla seguente traduzione dell’articolo di Hector Herrera“Too anxious to finish their assignment on time – How colleagues use ‘accomodation letters’ to coddle students”, 27 gennaio 2025, https://thecoddlingmovie.substack.com/p/too-anxious-to-finish-their-assignments
Mentre iniziavo a riflettere su come strutturare questo saggio, ho rivisitato un recente TED Talk del professor Scott Galloway della NYU. Il discorso, dal titolo cupo Do We Love Our Children?, è sia serio che provocatorio.
Nel talk, presentando grafico dopo grafico, Galloway, descrive nel dettaglio lo stato desolante del benessere mentale, fisico e finanziario dei nostri giovani. Propone quindi una serie di soluzioni: concordo con alcune e non con altre.
Tuttavia, la premessa del discorso è profondamente toccante.
Se amiamo veramente i nostri figli, chiede Galloway, perché stiamo costruendo sistemi e pratiche che minano fattivamente le loro possibilità di successo? Questa domanda mi è rimasta impressa mentre riflettevo sulle mie esperienze personali, in particolare sul mio incarico come docente presso l’OCAD University di Toronto.
Tra il 2005 e il 2015, ho assistito a un fenomeno che riassume il cambiamento culturale criticato da Galloway: l’ascesa delle Student Accommodation Letters [il corrispettivo dei nostri PDP, n.d.t.]. Queste lettere, emesse da quello che all’epoca era il Centre for Student Disabilities (ora Student Accessibility Services), hanno lo scopo di informare gli insegnanti che uno studente potrebbe aver bisogno di adattamenti o facilitazioni nello studio a causa di difficoltà emotive, psicologiche o fisiche.
L’ascesa delle lettere di facilitazione degli studenti
Quando ho iniziato a insegnare nel 2005, queste lettere erano rare. Forse una o due apparivano nel corso di un anno. Ma con il passare degli anni, sono diventate onnipresenti. Quando me ne sono andato nel 2015, ricevevo diverse richieste di facilitazione per classe, spesso il primo giorno del semestre. Ciò che era sorprendente non era solo il volume, ma la natura delle facilitazioni richieste: sempre più spesso, le lettere citavano condizioni vaghe come “ansia” o “deficit di attenzione”, senza spiegazioni o confini stabiliti chiaramente.
Ancora più rivelatore era il comportamento degli studenti stessi, che rientravano ampiamente in due gruppi distinti. Il primo gruppo presentava le proprie lettere immediatamente, brandendole come scudi di difesa preventiva. Per molti di questi studenti, le lettere sono diventate una sorta di salvacondotto per consegnare i compiti in ritardo, saltare le lezioni ed evitare del tutto di impegnarsi, senza conseguenze.
Il secondo gruppo era sorprendentemente diverso. Questi studenti raramente, se non mai, hanno menzionato i loro adattamenti fino alle ultime settimane del semestre, o fino a quando non sono stati sopraffatti da un carico di lavoro particolarmente impegnativo. Quando ho chiesto perché avessero ritardato la divulgazione delle loro lettere, le loro risposte erano quasi sempre le stesse: “Non volevo usarle a meno che non ne avessi davvero bisogno”.
E lo hanno dimostrato. Questi studenti erano, in generale, più disciplinati, più motivati e più responsabili dei loro coetanei, che avevano usato i loro adattamenti come una scusa per la loro mediocrità.
Il contrasto tra questi due gruppi era netto e istruttivo. Indicava un più ampio cambiamento culturale nel modo in cui le sfide personali vengono inquadrate e, cosa ancora più preoccupante, sfruttate. Ciò che era iniziato come un sistema compassionevole progettato per livellare il campo di gioco per coloro che erano realmente in difficoltà, quando me ne sono andato, si era trasformato in qualcosa di molto più insidioso: un meccanismo per sottrarsi alle responsabilità e abbassare gli standard.
Un mio collega, che è rimasto all’OCAD per diversi anni dopo la mia partenza, ha confermato che la tendenza continuava a peggiorare. Secondo il suo racconto, il numero di lettere di facilitazione era cresciuto fino a una media di due o quattro per classe di 20 studenti, una percentuale sbalorditiva. Ancora più preoccupante era il senso di diritto crescente tra gli studenti.
Una studentessa, armata di una lettera di facilitazione, non solo ha chiesto più tempo per i compiti, ma ha anche preteso un tutor personale che la assistesse per tutto il semestre. Il tutor, a quanto pare, ha finito per completare la maggior parte dei compiti per conto della studentessa. Ciò non è mai stato formalmente dimostrato, ma è stato fortemente suffragato dal sorprendente miglioramento del suo lavoro. Inoltre, i compiti assomigliavano in modo altrettanto sorprendente allo stile e alla qualità abituali del tutor, il che ha sollevato ulteriori dubbi sui contributi della studentessa.
Quando la mia collega ha contestato le sue consegne e ha tentato di bocciarla per mancanza di impegno indipendente, l’amministrazione è intervenuta. Si sono schierati dalla parte della studentessa, informandola che se non avesse cambiato il suo voto, sarebbero intervenuti direttamente, esautorandola e cambiando il voto loro stessi. Il messaggio era inequivocabile: la lealtà istituzionale non risiedeva nei principi dell’istruzione, ma nell’evitare i conflitti e nell’accondiscendenza alle richieste degli studenti.Coccolare fa male agli studenti
Questa dinamica inquietante mi ricorda il lavoro di Jonathan Haidt su The Anxious Generation, che esplora come le generazioni più anziane, in nome della sicurezza e della protezione, abbiano inavvertitamente derubato quelle più giovani delle libertà e della resilienza che un tempo davamo per scontate. Avvolgendo i loro ambienti, sia attraverso una regolamentazione eccessiva, la sorveglianza o sistemi come quello descritto sopra, abbiamo negato ai giovani l’opportunità di sviluppare autonomia e affrontare le sfide a testa alta. La ricerca di Haidt mostra che questi sforzi ben intenzionati ma in ultima analisi mal indirizzati hanno contribuito a far schizzare alle stelle i tassi di ansia e depressione, poiché abbiamo eliminato i meccanismi stessi con cui le generazioni precedenti hanno imparato a gestire le avversità e a rafforzarsi.
Le università dovrebbero essere il luogo in cui i giovani uomini e donne vengono istruiti e preparati per le sfide del mondo. È il luogo in cui si dovrebbero coltivare pensiero critico, disciplina e perseveranza, strumenti che porteranno con sé nella loro vita personale e professionale. Tuttavia, assecondando queste pratiche controproducenti, le istituzioni stanno fallendo nel loro scopo fondamentale.
Peggio ancora, stanno truffando gli studenti, promettendo loro una preparazione per il futuro mentre li proteggono dalle stesse esperienze che la fornirebbero. Invece di equipaggiarli per affrontare il mondo con sicurezza, queste pratiche lasciano gli studenti impreparati, fragili e dipendenti, tradendo sia il loro potenziale che la fiducia che ripongono in queste istituzioni.
Chi è il colpevole?
Possiamo criticare questi studenti quanto vogliamo e invocare la responsabilità personale: sono adulti, dopotutto. Ma non possiamo ignorare la nostra responsabilità in questo. Se vogliamo che i giovani possiedano gli stessi (o maggiori) nostri punti di forza, allora dobbiamo smettere di derubarli della saggezza che ci è stata donata dalle generazioni che ci hanno preceduto. Il coraggio, la resilienza e la grinta che ci hanno permesso di affrontare le sfide della vita non devono essere trattenuti ma tramandati, non come un’indulgenza ma come un diritto di nascita.
Greg Lukianoff ha catturato questo fallimento in modo succinto nel film The Coddling of the American Mind in cui emerge come “Stiamo prendendo questi ragazzi fantastici e stiamo insegnando loro che sono capaci di molto meno di quanto siano in realtà”. La tragedia è che infantilizzando la prossima generazione, la stiamo privando degli strumenti di cui ha bisogno per avere successo nella vita, e così facendo, deludiamo non solo loro, ma anche la società nel suo complesso.
Se amiamo veramente i nostri figli, come Galloway ha chiesto così acutamente, allora dobbiamo cambiare rotta. Dobbiamo smettere di indebolirli con sistemi di indulgenza e basse aspettative. Invece, dobbiamo insegnare loro a crescere più forti dalle avversità, ad abbracciare le sfide e a trovare forza nelle difficoltà.
Tutto ciò che è meno di questo non è amore, ma negligenza mascherata da cura.