I dilemmi dell’inclusione
È possibile studiare il problema dell’inclusione evitando le pregiudiziali ideologiche? L’articolo prova a chiederselo partendo dall’analisi della presa di posizione di Ernesto Galli Della Loggia e dalla salva di reazioni critiche che ha suscitato.

Scorrendo i periodici italiani specializzati in informazione scolastica ci si imbatte spesso nella lamentazione secondo cui l’opinione pubblica tenderebbe a disinteressarsi della scuola, considerandone i problemi solo in occasione di episodi eclatanti: insegnante aggredito dai suoi alunni, preside aggredito dai genitori dei suoi alunni, etc.. In realtà, le cose non stanno esattamente così. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla pubblicazione di numerosi libri che riflettono sull’importanza della scuola nel mondo globale. Si pensi, per esempio, a titoli come Alzare lo sguardo. Il diritto di crescere, il dovere di educare di Susanna Tamaro (Solferino, 2019), La scuola ci salverà di Dacia Maraini (Solferino, 2021), Non sparate sulla scuola. Tutto quello che non vi dicono sull’istruzione in Italia di Gianna Fregonara e Orsola Riva (Solferino, 2023). Un discorso a parte meriterebbero i libri di Luca Ricolfi, che ha dedicato alla scuola sia focus inquadrati all’interno di ampie ricerche sociologiche (La società signorile di massa, La nave di Teseo, 2019), sia indagini specifiche e approfondite (Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, La nave di Teseo, 2021). Tuttavia, la maggior parte dei contributi di carattere non specialistico sulla scuola, soprattutto se provenienti da autori non direttamente coinvolti nel mondo dell’istruzione, si concentra su ciò che essa dovrebbe essere, articolando riflessioni di carattere generale e speculativo, mentre tralascia, o lascia sullo sfondo, ciò che la scuola, oggi, di fatto, è.
Spesso gli osservatori tendono ad adottare una prospettiva ‘esterna’ che li porta a trascurare il contesto, teorico e storico, da cui nasce e in cui si esprime l’attività didattica odierna. Di conseguenza, pochi studiosi analizzano fattori cruciali quali, per esempio, la filosofia dell’educazione che ispira la formazione degli insegnanti (viziata dalla matrice deweyana, eccessivamente puerocentrica ed attivistica), l’ingerenza sempre più aggressiva dei genitori in ogni aspetto della pianificazione curriculare (da cui la compiacente scomparsa di ogni traccia di severità nella valutazione degli allievi per evitare ricorsi e pubblicità negativa), la pervasiva burocratizzazione della professione docente (quante sono ormai le ore, curriculari e non, trascorse a sbrigare prestazioni di segreteria?).
Un osservatore che, invece, pur essendo un docente universitario, ha sempre cercato di raccontare la scuola da una prospettiva ‘interna’ è Ernesto Galli Della Loggia, storico dell’età contemporanea ed editorialista del Corriere della Sera, il quale ne ha discusso i problemi, oltre che in numerosi articoli, nel documentato saggio polemico L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola (Marsilio, 2019). Come Ricolfi, egli scandaglia le criticità del nostro sistema educativo senza preoccuparsi di essere politicamente corretto; anzi, assumendosi il rischio di risultare urticante. Come è accaduto, ancora di recente, con la pubblicazione di alcune sue riflessioni sul principio di inclusione, al quale egli ha mosso una serie di critiche che gli hanno valso l’accusa di essere «un fautore dell’apartheid». Ma è davvero così?
Galli Della Loggia ha affidato le sue considerazioni sulla «falsa inclusività della scuola» (Corriere della Sera, 13/01/2024), prima alla breve segnalazione del volume Una scuola esigente. Educazione, istruzione, senso civico di Giorgio Ragazzini (Rubettino, 2024), poi ad un più ampio articolo di fondo (Corriere della Sera, 24/01/2024), in cui risponde alle numerose contestazioni piovutegli addosso dopo la pubblicazione del primo pezzo e, pur cercando di smorzarne i toni, conferma la sua diagnosi anticonciliatoria sulla scuola inclusiva.
Quali sono, esattamente, i suoi argomenti e perché hanno suscitato una salva di reazioni polemiche? La scuola italiana sarebbe, secondo l’editorialista, «il regno della menzogna», nella cui autorappresentazione «tutto è previsto, tutto funziona e alla fine tutti sono promossi». La narrazione autoassolutoria alimentata dal mondo della scuola è sorretta da numerosi dispositivi retorici, tra i quali, appunto, «il mito dell’inclusione», la quale, essendo una impegnativa testimonianza a favore delle pari opportunità, costituirebbe di per sé un fiore all’occhiello del nostro sistema educativo. Perché
«nelle aule italiane – caso unico al mondo – convivono regolarmente, accanto ad allievi cosiddetti normali, ragazzi disabili anche gravi con il loro insegnante personale di sostegno (perlopiù a digiuno di ogni nozione circa la loro disabilità), poi ragazzi con i Bes (Bisogni educativi speciali: dislessici, disgrafici, oggi cresciuti a vista d’occhio anche per insistenza delle famiglie) e dunque probabili titolari di un Pdp, piano didattico personalizzato, e infine, sempre più numerosi, ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola d’italiano. Il risultato lo conosciamo».
Comprimere in poche righe problemi complessi porta inevitabilmente a trattarli in modo superficiale ed acontestuale, soprattutto se essi provengono da una storia frastagliata e sono ancorati ad opzioni ideologiche la cui eredità è tuttora viva ed operante nel nostro Paese (da Basaglia a don Milani, dalla Montessori al primo De Mauro). Infatti, in seguito lo stesso Galli Della Loggia ha ammesso di avere sbagliato approccio, ritornando sul tema in un secondo articolo più meditato in risposta ai suoi critici. Ma, a quel punto, nel discorso pubblico l’autore era già rimasto vittima della propria eccessiva assertività e stigmatizzato come «fautore dell’apartheid», il che ha impedito una conversazione proficua sulle sue idee in merito al «mito dell’inclusione». Inclusione che gli sembra ridursi, nella maggior parte dei casi, alla semplice compresenza dello studente con disabilità nella stessa aula dei coetanei normodotati. Compresenza che, per altro, spesso non è neanche tanto semplice, perché gli studenti con disabilità possono avere bisogni ed esigenze difficilmente contemperabili con la gestione ordinaria della classe.
L’interfaccia tra le esigenze dello studente con disabilità e quelle della classe è rappresentata dall’insegnante di sostegno, che però non riscuote le simpatie di Galli Della Loggia. Il docente di sostegno, infatti, dato l’ampio ventaglio di fattispecie inerente l’universo delle disabilità, non sempre ha, né può avere, una conoscenza specifica del disagio con cui si trova ad interagire, il che rende difficile l’attivazione di un protocollo operativo «scientificamente orientato». E tale carenza di preparazione, puntualizza l’autore, non è congiunturale ma strutturale. In Italia, infatti, non esiste un percorso universitario rivolto a chi voglia diventare insegnante di sostegno, per cui mancano del tutto sia un curriculum apposito sia un iter concorsuale che possa vagliarne le qualità ai fini dell’assunzione nella scuola pubblica. Avviene, così, che «nella maggioranza dei casi l’insegnante di sostegno non ha alcuna preparazione specifica se non alcune vaghe nozioni di ordine generalissimo apprese in un corso annuale. Che tipo di sostegno potrà quindi assicurare se non quello genericissimo di una semplice presenza/assistenza?». Sono queste – si chiede l’autore – le premesse più adeguate per garantire l’esercizio di una professione che richiede il contatto prolungato con le figure del disagio? La sua risposta è del tutto negativa, tanto che qualifica senza mezzi termini la figura dell’insegnante di sostegno come generalmente «incompetente». L’uso di un linguaggio così tranciante da parte di Galli Della Loggia non ha contribuito a favorire una riflessione serena sulle sue opinioni, già di per sé alquanto divisive. Eppure, al di là delle iperboli polemiche, sembra che le sue osservazioni abbiano toccato un nervo scoperto, perché hanno avuto il merito di rendere oggetto di controversia costumi quietamente accettati come parte dello status quo; mentre il compito della discussione pubblica è proprio quello di «adoperare congetture, immaginare situazioni, contrapporre prese di posizione, formulare sospetti» sulle prassi della vita associata, mettendole così alla prova, saggiandone limiti, mezzi e prezzi (C.A. Viano, Etica pubblica, Laterza, 2002.) A questo proposito, anzi, è singolare che l’autore non si sia richiamato al dibattito sviluppatosi in ambito internazionale in merito all’inclusione e ai suoi modelli, da cui avrebbe potuto trarre ulteriori elementi per sostenere la sua posizione.
In area anglofona, il concetto di scuola inclusiva è stato ed è oggetto di una vivace diatriba, promossa soprattutto dalla pubblicazione di una serie di studi a cura dell’editore Routlegde, attivo tra Londra e New York, il cui esempio più recente è Inclusive Education at the Crossroads. Exploring Effective Special Needs Provision in Global Contexts di Philippa Gordon-Gould e Garry Hornby (2023). Gli autori sono due insegnanti con una lunga esperienza nell’insegnamento di sostegno che non hanno alcuna intenzione di conculcare i diritti degli studenti con disabilità ma, dopo tanti anni di lavoro, si chiedono se il modello di inclusione che hanno conosciuto («the “all means all” concept») si sia rivelato adeguato alla garanzia di questi ultimi oppure se abbia rivelato più ombre che luci nel lungo tragitto dalle grandi dichiarazioni egalitarie di principio (Onu, Unesco) alla lenta traduzione pratica quotidiana. E quando concludono che applicare a tutti gli studenti con disabilità un unico concetto di inclusione sia fondamentalmente ingiusto («logical absurdity and practical infeasibility»), essi non rigettano il lavoro pionieristico compiuto dalle generazioni precedenti ma si propongono di conservare la parte migliore della loro eredità, elaborando un modello di inclusione più rispettoso delle differenze individuali, biologiche e biografiche degli allievi; quindi, in ultima analisi, meglio inclusivo («Inclusion and special education or inclusive special education?»).
Difficilmente un dibattito simile potrebbe svolgersi in Italia, dove sembra che il tema dell’inclusione non sia passibile di una valutazione non empatica. Da noi, anche gli studi che si propongono di riflettere su di esso in una prospettiva comparata con le altre realtà europee adottano un’ottica scopertamente a favore del modello italiano, considerandolo aprioristicamente il risultato a cui gli altri Paesi non sono ancora stati capaci di giungere. Per esempio, il numero 13 di Minority Reports. Cultural Disability Studies (2021/II) dedicato appunto a L’inclusione educativa e scolastica nel quadro europeo, prende atto che la maggior parte dei nostri vicini di casa adotta di preferenza soluzioni miste, in cui la presenza degli studenti con disabilità nelle classi ordinarie è declinata secondo un gradiente scalare che tiene conto del grado di integrabilità consentito dalla tipologia di disabilità e dalla possibile attivazione di percorsi paralleli offerti dal contesto sociale di riferimento; tuttavia la rivista non riflette su questo stato di cose, ritenendolo sbrigativamente figlio della semplice incapacità di adattarsi ai cambiamenti da parte degli altri Paesi. Di conseguenza, non viene nemmeno presa in considerazione, neppure a livello ipotetico, la legittimità di differenti approcci epistemologici al tema dell’inclusione. Non sarebbe stato fuori luogo chiedersi perché siamo quasi gli unici in Occidente ad avere adottato un modello a senso unico che delega tutte le responsabilità inclusive alla scuola, come se al di fuori di essa non ci fosse nessuna possibilità di vita sociale. Il risultato è che siamo giunti a considerare la scuola unicamente come ambiente formativo, anzi come l’unico ambiente formativo oggi possibile, dimenticando la sua vocazione primaria di agenzia di educazione tramite l’istruzione, in cui è forte l’aspetto valutativo, che trasmette contenuti culturali saggiandone l’apprendimento.
Il tema dell’inclusione è complesso e, come Galli Della Loggia ha imparato a sue spese, non può essere affrontato in poche battute, perché catalizza le principali questioni identitarie su cui la scuola italiana post ’68 ha costruito la propria autorappresentazione. In oltre, egli si è espresso su di esso con il suo abituale stile ruvido e perentorio, mentre sarebbe stato il caso di adottare un approccio più sottile. Più precisamente, l’autore avrebbe dovuto specificare di non essere convinto da questo modello di inclusione, il che non avrebbe escluso di poterne proporre una reinterpretazione. O, almeno, un ripensamento. Tuttavia, a parte lo stile comunicativo, i problemi sollevati dall’autore meriterebbero una riflessione serena, condivisa e non pregiudiziale. A questo proposito, può essere utile osservare che nessuno dei numerosi detrattori di Galli Della Loggia si è sforzato di contestualizzare il suo discorso, considerando che molte delle sue critiche all’attuale interpretazione del principio di inclusione sono tutt’altro che nuove, essendo state esposte da più parti. Per esempio, già nel 2019 il libro L’inganno della scuola. Inclusione allievi con disabilità: cronaca di un fallimento di Anna Maria Arpinati e Daniele Tasso (Armando Editore), proponeva di riflettere su «cinque emergenze» inerenti l’inclusione: «ridefinire gli obiettivi della scuola pubblica; evitare che la scuola sia vista come un’impresa sociale o, peggio, un ammortizzatore del mercato del lavoro; ridefinire il “dogma” dell’inclusione; identificare, si spera definitivamente, il ruolo dell’insegnante specializzato e, contemporaneamente, realizzare dei curricoli sensati di “educazione speciale”; creare “camere di compensazione” tra le ambizioni di carriera scolastica di alcuni genitori e le reali esigenze e prospettive di sviluppo dei loro figli con disabilità cognitiva. Il tutto senza dimenticare “i capaci e meritevoli” (Costituzione, art. 34)». Il libro non ebbe alcuna risonanza, neppure negativa, fra gli addetti ai lavori, i quali, semplicemente, scelsero di ignorarne l’esistenza, così come avevano fatto con i precedenti contributi dei suoi autori, anche questi di intonazione critica in merito al «dogma dell’inclusione». Perché, forse, in Italia, più che un dogma, l’inclusione è un tabù.