Il grande errore della pedagogia moderna
La pedagogia crede erroneamente che la severità della scuola dipenda da una gratuita crudeltà degli insegnanti, non dalla forma teorica, non intuitiva, del suo insegnamento. Imponendo agli insegnanti di affidarsi alla curiosità spontanea dei bambini, essa distrugge la scuola occidentale.
Tutti abbiamo osservato con stupore la voglia di apprendere dei bambini. Dall’osservare che il bambino impara con gioia e senza aiuto diretto degli adulti una grande quantità di conoscenze e abilità, la pedagogia moderna ha però tratto l’inferenza che il bambino possa e debba imparare tutto senza gli adulti, che dunque, per acquisire la lettura, la scrittura, le conoscenze e le abilità teoriche, siano dannose le lezioni e le esercitazioni, la severità dell’insegnante e la cattedra rialzata sul piedistallo, le verifiche angosciose e le aride valutazioni. Nostro scopo è mostrare la totale falsità di questa inferenza.
Il bambino prova un intenso desiderio di apprendere, ma odia la scuola – questa è la contraddizione universalmente evidente. Tutti noi ce la siamo spiegata osservando che il bambino desidera apprendere alcune abilità: esplorare, muoversi, parlare, fare quello che vede fare dagli adulti e dai bambini più grandi; ma la scuola gli fa apprendere altre abilità che, pur necessarie, al bambino appaiono estranee e possono suscitargli, almeno all’inizio, un rifiuto: il linguaggio scritto, la matematica, la grammatica, le scienze, la storia e così via.
Tutti noi abbiamo risolto la contraddizione riconoscendola come un caso particolare del dominio che la volontà razionale esercita sull’istinto naturale: proprio come può accadere che l’uomo abbia il dovere di non fare ciò che desidera e abbia il dovere di fare ciò che non desidera, così, da una certa età in poi, il bambino deve rinunciare a trascorrere nei giochi tutte le sue giornate e deve adempiere il dovere scolastico. E questo contrasto della volontà razionale con l’istinto, che ai sentimentali sembra soltanto un inconveniente, è anche un segno della libertà che eleva l’uomo e il bambino al di sopra della semplice natura.
Occorreva Rousseau, la sua irresponsabile identificazione della libertà con la spontaneità naturale e il suo falso ideale di unitarietà monolitica dell’individuo, perché iniziasse il pervertimento pedagogico. La pedagogia moderna nasce da una regressione naturalistica che identifica la libertà non con la superiorità dell’uomo sulla natura, ma con la naturalità stessa dell’uomo; essa consiste dunque nell’ipotesi che l’estraneità che il bambino prova per la scuola non nasca dalla forma teorica dell’apprendimento dai libri, ma dal mero fatto che essa lo impone: non è, come si è sempre creduto, il rifiuto istintivo, che dapprima il bambino oppone all’apprendimento teorico, a costringere la scuola alla severità, ma, al contrario, soltanto perché la scuola è stupidamente severa, il bambino rifiuta l’apprendimento teorico.
Con questo rovesciamento, la pedagogia moderna si allontana anche dalla convinzione comune che gli adulti amino i bambini e i giovani e che la severità sia il completamento razionale di questo sentimento. Essa è convinta invece che gli adulti siano in guerra con la nuova generazione, che la loro severità nasca dal piacere di esercitare un piccolo potere oppressivo: si schiera quindi dalla parte del bambino, del giovane, e ingaggia una lotta rivoluzionaria per la loro liberazione. Per quanto suoni un po’ ridicolo, la pedagogia moderna è militanza a difesa dei figli contro i genitori, degli alunni contro gli insegnanti. Poiché infatti concepisce la libertà come istinto, non come severità che domina l’istinto, allora nella severità dell’adulto nei confronti del bambino e del giovane la pedagogia moderna, proprio come sarà accaduto a tutti durante la loro adolescenza, non può vedere che tirannia, vile sopraffazione nei confronti di chi non può difendersi perché è più piccolo e più debole.
Dopo aver elucubrato un chiarimento tutto suo della contraddizione tra desiderio infantile di imparare e rifiuto infantile della scuola, la pedagogia moderna le offre la sua soluzione, ovviamente contraria alla soluzione tradizionale: è sufficiente che la scuola cessi di essere severa e che non imponga al bambino la memorizzazione e l’esercitazione; è sufficiente che privi il maestro della cattedra e che lo disperda tra i bambini, uguale tra uguali, a incoraggiare amichevolmente e a suggerire discretamente, affinché il desiderio infantile di apprendere, che la vecchia scuola mortificava con la sua abietta severità, si conservi e si riattivi, e il bambino, da solo o collaborando con i suoi pari, con il gioco o con i lavoretti artigianali, in virtù di ricerche spontanee e di esperimenti improvvisati, acquisisca il potere magico di ricostruire e dominare tutte le conoscenze tramandate, dalla grammatica alla matematica, dal diritto alla filosofia, e di progredire così dall’ignoranza a un sapere solido, subito applicabile al mondo attuale e ai suoi rapidi cambiamenti, e ugualitariamente condiviso.
La soluzione pedagogica ha almeno due difetti. Anzitutto è erronea la sua fede nella identità dell’esperienza con la teoria. L’esperienza è propria non solo degli uomini, ma anche degli animali, la teoria è, in quanto discorsiva, dunque legata al linguaggio verbale, esclusivamente umana; l’esperienza ci mostra infiniti fatti, ma non ciò che più importa, il loro perché, che ci consente di prevederli e di dominarli. Per prevederli, occorre la scienza, un salto dalla casualità empirica alla necessità logica, dall’induzione servile all’articolazione interna e autonoma del λόγος – il salto che Platone chiama «seconda navigazione» e che è restato ineseguito o almeno inconsapevole fino al miracolo greco da cui è iniziata la tradizione teorica. L’uso teorico dell’esperienza, l’apprendimento per scoperte che la pedagogia raccomanda alla didattica, è dunque un’impresa che solo chi è già armato di teoria può compiere, non il bambino. Solo chi sa che cosa cerca può trovarlo. Affinché non si chiuda in esperienza distratte e fortuite, affinché possa farne di teoricamente significative, occorre che il bambino sappia cosa cercare, che sia già divenuto un teorico, occorre cioè una scuola severa che gli abbia insegnato la logica, la matematica e le altre scienze con cui rilevare e astrarre l’essenziale dalla confusione empirica, come fanno gli adulti.
Credere che il bambino possa evitare il mare di ghiaccio dell’astrazione e giungere direttamente dai fiori dell’esperienza alle stelle della teoria (alle competenze), significa fingere che sia già un teorico. La pedagogia è la contraddizione inconsapevole che il bambino non è bambino, ma è già un adulto (questa contraddizione ha già avuto conseguenze estreme nella Odenwaldschule); perciò promulga il decreto irresponsabile che i bambini siano privati di guide teoriche – come cantava tanto tempo fa il celebre gruppo: «Hey teachers, leave those kids alone». Poiché non solo è puerocentrica, ma non è mai diventata adulta, la pedagogia moderna non può rinunciare all’attuazione dello scopo ugualitario che le appare tanto desiderabile – emancipare l’alunno dall’oppressione del maestro e farlo muovere subito sulle sue gambe.
Così giungiamo all’altro difetto. Come ogni progetto, un progetto contraddittorio inizia con lo spianare il terreno; ma poi, a differenza di quelli possibili, non sa andare avanti; dunque si realizza soltanto come distruzione dell’esistente. La sequenza secolare di riforme pedagogiche della scuola si è tradotta in un descensus Averno dell’analfabetismo e dell’ignoranza. È vero che ad alcuni effetti della catastrofe scolastica si può ovviare facilmente: gli Stati Uniti, per esempio, possono compensare la carenza di offerta di giovani preparati per gli studi superiori importandoli dall’estero, in particolare dall’Oriente non ancora espugnato dalla pedagogia. Restano tuttavia gli altri effetti, quelli più gravi: l’ignoranza porta con sé l’atrofia dell’attitudine alla conoscenza e il delirio di onnipotenza del soggetto; l’attivismo pragmatico porta con sé il disprezzo dell’argomentazione e del dibattito ed eccita il fanatismo settario; l’ingratitudine verso il passato rende irriverenti e irresponsabili. Il soggettivismo ignorante che si pone al di sopra della realtà, l’insofferenza del dibattito che smania per passare a vie di fatto, la condanna sommaria della tradizione per amore del nulla sono i segni della nostra sazietà di vita.
Non si può che assolutamente concordare.
Ma se la scuola è divenuta un’azienda che deve – primariamente – soddisfare le richieste dei clienti (paganti o non paganti che siano), ovvio che si deve piegare la testa ai desideri degli ignoranti, legioni pressanti, che mai ammetterebbero i limiti e le mancanze dei propri ignorantissimi figli.