Il senso del voto numerico
Una scuola che voglia essere efficace deve liberarsi dai pregiudizi dell’attivismo pedagogico e fare uso del voto numerico.
Dalle prove INVALSI risulta che la scuola italiana maschera la sua inefficacia con l’inflazione dei voti; per questo si preferisce ignorarle.
Ogni anno gli alunni italiani affrontano le prove INVALSI; esse sono però contestate da molti con gli argomenti più disparati, al punto che si crea una situazione paradossale: le si effettua, ma dei loro risultati non si tiene conto e il ministero stesso che le effettua le ignora. L’aporia è facilmente comprensibile: le prove danno un quadro deprimente della scuola italiana: non solo l’apprendimento risulta scarso, risulta anche che le valutazioni attribuite dalle scuole ai loro alunni subiscono una inarrestabile inflazione, in particolare negli esami di stato. Sarebbe come dire che non solo la scuola è inefficace, ma maschera la sua inefficacia con voti falsamente elevati. Se le prove INVALSI danno un quadro esatto, allora le nostre scuole non insegnano e sono disoneste, non forniscono istruzione e diseducano gli alunni premiandoli senza merito. È comprensibile, ma non giustificabile, che dati così imbarazzanti finiscano ignorati.
Agli insegnanti è imposto di innovare adottando una didattica puerocentrica di origine anglosassone.
Per quanto pochi lo confessino apertamente, quasi tutti gli insegnanti si riconoscono in questi giudizi. Da decenni si impone loro di innovare la loro didattica e l’innovazione consiste nell’imitare il peggiore modello scolastico offerto dai paesi sviluppati, quello anglosassone, che esime gli alunni dalla fatica necessaria ad acquisire le conoscenze e ad automatizzare i processi di base. Da decenni li si vuole convincere che l’insegnamento sia il nemico implacabile dell’apprendimento, affinché cessino di trasmettere le discipline «astratte» con le lezioni «frontali» e incoraggino gli alunni a gestire in autonomia il loro apprendimento con progetti di realtà in vista dell’acquisizione di competenze soltanto formali. Da decenni li si invita, di fatto, a far lavorare e a lavorare il meno possibile, pagandoli in corrispondenza, e li si obbliga a nascondere il disastro attribuendo voti immeritati.
I pedagogisti, responsabili delle innovazioni, contestano i voti numerici per nascondere il loro fallimento.
Gli insegnanti sembrano ancora intimiditi dalla maledizione che i giovani contestatori degli anni Sessanta hanno lanciato sul mondo adulto, e tardano a recuperare il coraggio della parola per raccontare la realtà e contestare le innovazioni. Parlano invece i pedagogisti che le hanno volute. E non occorre molto sforzo per prevedere ciò che dicono: il fallimento della scuola non è effetto dell’innovazione, ma della lentezza con cui gli insegnanti la mettono in atto. Poiché però questo argomento, dopo quasi trent’anni di riforme, suona debole, essi sentono il bisogno di aggiungerne un secondo: la valutazione numerica dei risultati scolastici non ha nulla di oggettivo ed è nemica dell’apprendimento. Questo secondo argomento è molto più forte del primo: negando significato alle valutazioni quantitative esso fa del disastro complessivo dell’apprendimento una percezione soggettiva; non solo, esso esercita nuova pressione per insistere nelle novità, per abbandonare finalmente la didattica trasmissiva e affidarsi alla spontaneità infantile.
La pedagogia attiva fa della spontaneità del bambino la regola suprema per l’insegnante.
La polemica pedagogica contro i voti è tutt’altro che nuova. Nel suo libro fondamentale sulla scuola anglosassone, E.D. Hirsch, Jr. le ha dedicato un intero capitolo. La scuola statunitense l’ha vissuta con un anticipo di almeno un secolo. Un suo riformatore, l’eroe della pedagogia attiva Kilpatrick, dichiarò di aver organizzato la sua prima classe «senza nessun curricolo stabilito, [in cui] l’insegnante fosse perfettamente libera di fare ciò che credeva saggio [e] i bambini fossero liberi di pensare e di agire. Ai bambini non sarebbe stato richiesto di imparare a leggere, di padroneggiare la matematica o l’ortografia prescritte: non ci sarebbero stati esami. Non sarebbero stati segnati o valutati in termini di un curricolo prescritto. Stabilii solo un principio: ‘attività che porta a un’altra attività senza cattiverie’»[1]. Come si vede, il voto non ha motivo di esistere nel contesto di una scuola che istruisce i bambini attribuendo loro la responsabilità di organizzare l’apprendimento. È questa l’idea della pedagogia attiva, per cui l’intelligenza del bambino, come il suo corpo, ha uno sviluppo naturale che l’insegnante deve limitarsi ad assecondare, e anche le abilità come leggere e scrivere, anche le materie disciplinari come la letteratura e la fisica possono essere apprese naturalmente, solo che lo si faccia a tempo debito, quando il bambino vi sia spinto dal suo genio.
Il disprezzo attivistico delle «nozioni».
La pedagogia attiva non teme che questa spinta possa non nascere. È noto che A.S. Neill, il fondatore della scuola libertaria di Summerhill, secondo il quale il bambino «è innatamente saggio e realistico, e se lasciato a sé stesso senza nessun suggerimento degli adulti si svilupperà fino alla sua massima capacità di sviluppo», ospitò nella sua scuola un alunno che, «notava con orgoglio, passò tredici anni a Summerhill senza mai partecipare a una sola lezione»[2]. Per un verso l’ispirazione romantica infonde all’attivismo una fiducia esaltata nella sete di apprendimento infantile, per altro verso la naturalità è criterio di giudizio: le conoscenze e le abilità il cui apprendimento richieda la disciplina dettata dagli adulti sono disprezzate come prive di autentico valore formativo; può sembrare che il bambino le faccia sue, in realtà esse svaporano nel nulla appena le abbia rigurgitate e abbia ricevuto il suo voto. Dal rifiuto dell’utilità pedagogica delle conoscenze teoriche, quelle che implicano uno sforzo di memoria e un’esercitazione paziente, al loro disprezzo esplicito attraverso il termine di «nozione» il passo è breve, e la pedagogia anglosassone vi è sollecitata dalla sua inconsapevole ispirazione empirista e pragmatista: le conoscenze teoriche sono in sé stesse una zavorra; non c’è dunque motivo per gravarne le menti infantili, che non sono «vasi da riempire, ma fiaccole da accendere» – come se il fuoco si alimentasse con il nulla
Per l’attivismo pedagogico il voto numerico è moralmente illegittimo e non ha utilità didattica.
Squalificate la conoscenze come «aride nozioni», evitata agli alunni la fatica di memorizzare e di capire, per l’attivismo pedagogico la scuola deve attendere senza ansie la fioritura delle sue piante, fiduciosa anzi che i ragazzi impareranno a leggere, a scrivere e a contare, impareranno l’essenziale di ogni disciplina come hanno imparato a stare in piedi, a camminare e a parlare. Già Rousseau ha scritto che la regola suprema della pedagogia è perdere tempo[3]. Se tutta l’educazione è un processo spontaneo a cui ripugna l’imposizione esterna, allora è evidente che, se mai si osasse assegnare compiti agli alunni (magari su loro insistenza), la correzione e la valutazione, in quanto controllo e remunerazione esterni, in quanto «sorvegliare e punire» da parte di un potere, dovrebbero essere assolutamente evitate e sostituite da sommessi suggerimenti. Come non ha senso attribuire voti numerici al passo, alla corsa o al linguaggio di un bambino, così, in una visione dell’apprendimento come processo interno e naturale, non ha senso che si correggano le prestazioni e si attribuiscano loro voti. Per questo Kilpatrick li abolisce.
L’uomo eredita non solo dalla natura, ma anche dalla cultura
L’attivismo pedagogico, per quanto accarezzi il sentimentalismo con la sua commovente fiducia nella natura infantile, contiene un grave errore che ne rende rovinosa l’applicazione: il suo naturalismo romantico trascura l’essenza culturale dell’uomo e riduce il bambino a un cucciolo. Nel loro genoma gli animali ereditano le istruzioni che danno forma al loro corpo e le conoscenze con cui sopravvivono e si riproducono. Queste conoscenze, dapprima potenziali, si attuano attraverso il gioco. Nel piacere inconsapevole del gioco il cucciolo apprende le conoscenze e le abilità di cui l’evoluzione ha dotato la sua specie: impara a interpretare le espressioni dei suoi simili e a usare le risorse dell’ambiente. L’uomo è anche un animale, e il bambino è anche un cucciolo che gioca più a lungo di tutte le altre specie perché ha un’eredità filogenetica più ricca da recepire: egli deve imparare non solo a stare con i suoi simili, a orientarsi e a muoversi, ma anche a parlare: il bambino eredita dal genoma le strutture biologiche che gli consentono di apprendere spontaneamente e senza consapevolezza la lingua di chi se ne prende cura. Ma il bambino non soltanto eredita da un genoma più ricco abilità assenti nel resto del mondo animale. Egli riceve una seconda eredità di tutt’altro genere. Così scrive Lorenz: «Una vera rivoluzione si è prodotta alla fine del terziario, quando i nostri antenati, i gentlemen della valle dell’Omo, scoprirono il pensiero concettuale. In questa tappa dell’evoluzione, alcune facoltà che in passato non esistevano che isolatamente presso gli animali, sono state unite in un sistema totalmente nuovo… La percezione delle forme e la facoltà di rappresentare lo spazio…, combinate con le facoltà di esplorazione dei giovani antropoidi, ebbero per risultato un’attività interamente nuova: l’attività concettuale. Questa comporta formidabili conseguenze. Infatti, se comprendo che la mia mano è una cosa reale tanto quanto il legno che essa tocca, la mia presa di questo legno diventa comprensione e, da allora, comprendo l’attività della mia mano tanto bene quanto la risposta che ottengo quando sento una forma»[4]. Seguendo la tradizione filosofica che da Leibniz attraverso Kant conduce a Hegel, Lorenz vuole dire che lo specifico dell’attività concettuale è la consapevolezza: essa non è solo un intuire gli oggetti, ma un intuire sé stessi nell’intuire gli oggetti; di qui la fiducia propria della conoscenza di poter scoprire l’identità tra la logica della natura esterna e la logica propria del pensiero. «Ora, prosegue Lorenz, questa facoltà può essere trasmessa: può divenire oggetto di tradizione. Di qui la nascita del linguaggio sintattico, che è molto probabilmente inseparabile da quella del pensiero concettuale»[5]. «Si vede dunque apparire con l’uomo una facoltà che in precedenza non esisteva: la tradizione cumulativa. Ne deriva una sorta di eredità socioculturale dei caratteri acquisiti. Prima dell’apparizione del pensiero concettuale, solo l’apparato genetico era suscettibile di ritenere e di ritrasmettere delle informazioni»[6]. Con la nuova « tradizione cumulativa, trasmissibile… apparve anche la possibilità di uno sviluppo culturale dell’umanità – ciò che intendiamo come la vita spirituale dell’uomo»[7].
L’insegnamento diretto dagli adulti ai bambini rende possibile la conservazione dell’eredità culturale e il progresso cumulativo della conoscenza umana.
La vita in generale acquisisce conoscenze dall’ambiente attraverso le mutazioni genetiche e la selezione naturale, e le immagazzina nel genoma come forma corporea e come comportamento della specie; ma il pensiero concettuale è «una forma assolutamente nuova di immagazzinaggio delle conoscenze»[8]. Nel linguaggio verbale che lo esprime, gli individui umani possiedono un veicolo con cui trasmettono ai loro contemporanei e ai loro posteri le conoscenze che acquisiscono durante la loro esistenza. Alcuni animali, pur possedendo abbastanza intelligenza da imparare dall’esperienza, non possiedono il linguaggio di parole; dunque non possono trasmettere le nuove conoscenze e ogni loro generazione deve iniziare sempre da capo, con le conoscenze che ereditano nel genoma. Gli uomini no: ciò che il passato ha imparato si trasmette attraverso il linguaggio al futuro; i figli, imparando in pochi anni dai padri ciò che è stato accumulato nel corso di millenni, iniziano a imparare dall’esperienza a un livello superiore a quello da cui iniziarono i padri, e hanno così il tempo per aggiungere nuove conoscenze a quelle ereditate. L’insegnamento diretto da parte degli adulti conserva la conoscenza ereditata e ne rende possibile l’aumento. Poiché accogliendo l’eredità culturale la conoscenza umana dell’ambiente si accumula rapidamente e con essa aumenta la capacità di dominarlo, i tempi della storia umana sono molto più rapidi dei tempi della storia naturale.
La cultura come sistema vivente, di cui la scrittura è lo scheletro.
«Con il pensiero concettuale compare il linguaggio sintattico e, dopo di esso, tutte le possibilità di comunicazione, che avranno come conseguenza l’arricchimento e l’approfondimento della tradizione, da cui nascerà questa comunità di sapere, di potere e di volere, che riunisce un gran numero di uomini in questo sistema coerente che noi definiamo una cultura. Così, ogni cultura è un sistema vivente, apparso sulla via dell’evoluzione naturale, la cui esistenza e la cui conservazione esigono la messa in opera e il funzionamento di tutte le qualità fisiologiche e psichiche citate in precedenza, la cui riunione in un unico insieme costituisce il fenomeno umano»[9]. Di questo sistema vivente si può dire senz’altro che la nascita della scrittura rappresenta un avvenimento analogo al passaggio dagli invertebrati ai vertebrati: la scrittura è lo scheletro che dà stabilità al linguaggio e ne moltiplica le capacità di immagazzinaggio e di trasmissione.
La scuola nasce con la scrittura.
Ma con la scrittura si rende evidente una difficoltà che finora era restata nascosta. A differenza dell’eredità genetica che il bambino fa sua mediante la facile inconsapevolezza del gioco, l’eredità culturale è consapevole e difficile; acquisirla implica una lunga fase di imitazione del mondo adulto; per questo nelle culture orali dominano gli anziani, in quanto depositari della conoscenza tradizionale. Con la scrittura, le difficoltà di accesso al sistema vivente della cultura si accrescono, al punto che non è più sufficiente l’imitazione delle abilità degli adulti, ma occorre una disciplina sotto la loro guida consapevole, ossia la scuola. Essa è l’effetto dell’esistenza della scrittura come veicolo di trasmissione della cultura. Questo è evidente già nelle parole con cui Carlo Magno la istituisce nell’Admonitio generalis nel 789: «In ogni vescovado ci siano scuole che insegnino ai bambini la lettura, le regole grammaticali, il calcolo, le note musicali e il canto»[10]. Essa trasmette anzitutto la conoscenza della scrittura e le sue regole, poi, attraverso la scrittura, le conoscenze sulla cui eredità si fonda la cultura. La scrittura e le conoscenze che essa trasmette non sono contenute nell’eredità genomica, ma nell’eredità culturale. La conseguenza è che esse non si acquisiscono attraverso il gioco e l’imitazione, ma hanno bisogno dell’autorità magistrale e della fatica per accumulare le conoscenze e per automatizzare i processi elementari (le corrispondenze tra morfemi e grafemi, le strutture sintattiche, le tabelline…).
La pedagogia attiva ignora il significato linguistico della teoria platonica e resta prigioniera dell’empirismo anglosassone.
La pedagogia attiva, che probabilmente nasce da disturbi profondi e inconsapevoli nel rapporto tra generazioni, è la ribellione all’autorità magistrale e alla fatica scolastica. Essa inizia con il rifiuto che Rousseau oppone alla civiltà, ma prospera nella cultura anglosassone a causa della sua tradizionale concezione della mente come tabula rasa, che la condanna all’empirismo. L’idealismo autentico, quello platonico, scorge nel linguaggio non tanto un mezzo arbitrario di comunicazione tra gli individui, ma la base del pensiero concettuale, ossia della logica, che non si rivolge alle cose o alle loro immagini, ma è manifestazione della loro necessità, delle leggi che le determinano. Poiché il linguaggio è veicolo della logica e la logica è la realtà libera dai giochi della casualità e ridotta alla sua forma essenziale, Platone attribuisce l’essere alle idee, cioè ai significati delle parole. Tutto questo è ignorato dall’empirismo anglosassone. Esso svaluta il linguaggio come se fosse uno strumento creato dall’individuo per comunicare idee che lui stesso ha creato e che nulla hanno dunque a che fare con le essenze reali che restano sepolte nelle cose. L’assurdità di una posizione simile è evidente: se fosse uno strumento arbitrario dell’individuo per comunicare le sue idee arbitrarie, il linguaggio sarebbe inutile anche come strumento di comunicazione. Nondimeno, Rousseau l’ha fatta sua e ha lasciato in eredità alla pedagogia la regressione dalle parole alle cose.[11]
La sfiducia nella parola è alla base della concezione puerocentrica del discovery learning.
Non è questo il luogo per approfondire i motivi che hanno spinto l’empirismo e Rousseau in un vicolo cieco. Gli effetti pedagogici della regressione dalle parole alle cose sono evidenti. Il modello scolastico anglosassone crede che ogni bambino, come i cuccioli degli animali, debba ignorare la trasmissione culturale della conoscenza e accumularla da capo a partire dalla sua infima esperienza. Nella scuola anglosassone i bambini dovrebbero imparare a leggere e a scrivere, la matematica e le altre scienze senza la guida diretta dell’insegnante, ma scoprendo le conoscenze da soli, di fatto imitando una qualche attività adulta come se fosse parte di una cultura primitiva analfabeta, priva di complessi presupposti teorici. Di fatto gli alunni della scuola anglosassone giocano senza imparare nulla e gli insegnanti, se vogliono essere giudicati buoni insegnanti, devono limitarsi a dare qualche suggerimento. L’insegnamento vero, che trasmette i complessi presupposti teorici di ogni conquista culturale, può avvenire solo in deroga alla pedagogia naturalistica dominante, di nascosto[12].
Il fanatismo politico approfondisce l’accecamento della pedagogia attiva.
Alla diffidenza empirista e rousseauiana verso il linguaggio e la conoscenza astratta può anche aggiungersi il fanatismo politico. «Chi è prigioniero di una particolarità, dice Hegel, negli altri non vede nient’altro che delle particolarità»[13]: il fanatismo politico, che fa della violenza la soluzione definitiva di ogni problema umano, vede in ogni verità l’imposizione di un potere costituitosi con la violenza. La trasmissione scolastica delle verità è dunque concepita come un ingranaggio della macchina di imposizione, e ogni momento della didattica diventa uno strumento di gratuita umiliazione inflitta da un insegnante sadico a bambini indifesi. Emancipare gli alunni innalzando la loro ignoranza allo stesso livello della conoscenza degli insegnanti, rendere inoffensivi questi ultimi denigrando il loro sapere, privarli della parola così che abbandonino gli alunni all’impresa di riscoprire creativamente le scoperte, diventano così gli obiettivi della pedagogia attiva. È il fanatismo politico che spinge Paulo Freire a dimenticare, nelle seguenti parole, che la scuola non è per chi ha già gli strumenti cognitivi per ricercare e per fare, ma per chi deve ancora acquisirli: «Fuori di una ricerca, della prassi, gli uomini non possono ‘essere’. Educatore e educandi si confinano nell’archivio perché in questa visione deformata dell’educazione non esiste creatività, non esiste trasformazione, non esiste sapere. Il sapere esiste solo nell’invenzione, nella re-invenzione, nella ricerca inquieta, impaziente, permanente che gli uomini fanno nel mondo, col mondo e con gli altri. Ricerca è anche sostanziata di speranza. Nella visione ‘depositaria’ dell’educazione, il sapere è un’elargizione di coloro che si giudicano sapienti, agli altri, che essi giudicano ignoranti»[14] .
La critica dell’apologia piagetiana dell’inquiry learning.
Nello stesso senso di Freire, Piaget scrive da qualche parte che «lo scopo dell’educazione intellettuale non è quello di saper ripetere o conservare verità belle e fatte, perché una verità che viene ripetuta non è che una mezza verità: ma è piuttosto quello di apprendere e conquistare da sé stessi il vero, a rischio di metterci molto tempo e di passare per tutte le traversie che una attività reale richiede». Queste affermazioni rigettano irresponsabilmente la natura di eredità della cultura e sono, per dirla con Kant, un nido di assurdità. Anzitutto è assurdo credere che una verità ripetuta diventi una mezza verità. Dice giustamente Lorenz nell’intervista che abbiamo già menzionato: «Se lei mi spiega un’idea, io possiedo questa idea tanto bene quanto lei dall’istante in cui l’ho compresa ed assimilata»[15]. Non solo la ripetizione di una verità è l’unico modo della sua conservazione e conservare ciò che ha superato la prova dell’esistenza e si è dimostrato efficace ha valore in sé, ma la verità acquisita e conservata non impedisce affatto l’acquisizione di nuova verità, è anzi la condizione per acquisirla. È poi assurdo consigliare che la didattica ripercorra la genesi empirica di una scoperta, che è quanto di più casuale e imprevedibile possa darsi. Vale qui la distinzione popperiana tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione: mentre conoscere come si sia pervenuti a una verità è una semplice curiosità aneddotica, comprendere una verità equivale a comprenderne la genesi logica, cioè la dimostrazione. Quella frase infelice di Piaget, che alimenta la fede cieca nell’inquiry learning, trascura l’essenza cumulativa della cultura, per cui l’esploratore deve acquisire rapidamente, cioè con l’aiuto di un maestro, il già conosciuto, per avere il tempo di dirigersi poi all’inesplorato, dove certamente correrà il «rischio di metterci molto tempo e di passare per tutte le traversie che una attività reale richiede». Infine, le affermazioni infelici di Piaget fanno apparire la trasmissione scolastica delle verità un’operazione facile e banale, nel modo in cui già Rousseau, a proposito dei problemi dell’imparare a scrivere, dichiarava: «Mi vergogno di soffermarmi su simili sciocchezze in un trattato sull’educazione»[16]; egli trascura così che ogni proposizione scolastica è difficile in sé stessa ed è degna di essere imparata solo in quanto risulta da una dimostrazione ancora più difficile. Le verità belle e fatte non sono banconote perdute per strada che il primo passante raccoglie; esse diventano oggetto di studio scolastico solo in quanto sono inaccessibile all’alunno lasciato solo. Per quanto esposte nei libri in modo accurato e sistematico, le verità ereditate restano al di là delle capacità dei non istruiti, perché sono il frutto di indagini teoriche estenuanti che presuppongono a loro volta l’assorbimento della tradizione scientifica. Per questa loro difficoltà, la scuola non si riduce a un biblioteca con i capolavori scientifici e artistici sugli scaffali, ma comporta il lavoro faticoso di insegnanti che prescrivono lo sforzo necessario a leggere e a scrivere, a interpretare e a capire, ad acquisire le conoscenze e a sviluppare le abilità, uno sforzo fatto di memorizzazione e di esercitazioni da controllare e correggere.
Le obiezioni contro il voto.
Sembrerebbe tuttavia che la correzione sia sufficiente al progresso dell’apprendimento. Sembrerebbe che il voto sia un’aggiunta dannosa che 1) dirotti l’interesse dell’alunno dall’apprendimento alla vanità di voler compiacere l’insegnante e di prevalere sui suoi compagni, che 2) esso determini una gerarchia tra gli alunni che ripete la gerarchia classista della società, che 3) offra all’insegnante il godimento di stabilire come giudice inappellabile il valore dei suoi alunni.
Il voto è un dovere faticoso per l’insegnante ed è attribuito alle prove non alla persona.
Quanto a quest’ultimo punto, è sciocco credere che per gli insegnanti dare voti costituisca un esercizio inebriante di potere, anzitutto perché è sciocco credere che l’esercizio del potere sia di per sé inebriante: il potere consiste nel prendere decisioni di cui si è responsabili di fronte a tutti, e rappresenta dunque un peso che la maggior parte delle persone evita volentieri; e poi perché il voto è il momento della verità tanto per l’insegnante quanto per gli alunni. Se la scuola è fedele al suo scopo di introdurre tutti i giovani nella cultura come sistema vivente e non è sviata dallo scopo gentiliano di escluderne il maggior numero possibile, il voto che l’insegnante attribuisce ai suoi alunni non può avere nulla di dispotico, perché è nel contempo il voto che attribuisce alla sua didattica. È per questo che l’insegnante sente la valutazione come un dovere faticoso, da svolgere con attenzione e imparzialità. La valutazione è l’ultimo atto della correzione, si riferisce dunque non direttamente alla totalità della persona dell’alunno, ma soltanto alla sua prova
La necessità del voto numerico per la controllabilità della didattica e del sistema scolastico.
Il voto numerico è necessario per controllare l’efficacia della didattica, perché solo la traduzione dei giudizi in numeri consente l’operazione di ricavare le medie e di accertare la situazione generale. Attraverso la media dei voti assegnati alle prove, 1) l’insegnante sa se il lavoro svolto in classe sia stato sufficiente o se ci sia bisogno di un lavoro supplementare, 2) la società sa in che misura ogni giovane sia preparato ai compiti che dovrà svolgere da adulto e in che misura la scuola che essa finanzia con il suo lavoro operi con efficacia. L’eliminazione dei voti numerici equivale all’incontrollabilità del sistema, una conseguenza che solo gli irresponsabili possono non temere.
Il pensiero autonomo è fine a sé stesso.
Ma dal punto di vista dell’alunno, perché dare voti? Affinché sappia se si è impegnato abbastanza o se deve impegnarsi di più e quanto di più, non è sufficiente correggerne le prove e consigliarlo? Non c’è il pericolo che l’alunno guardi il voto e non legga o ascolti le correzioni e i consigli dell’insegnante, vanificando l’utilità formativa della prova? Non c’è il pericolo ancora più grave che studi soltanto per il voto e si limiti dunque a una memorizzazione meccanica trascurando la comprensione? Che lo studio diventi inutile perché cessa di essere disinteressato? Certo, la pedagogia attiva, che a partire da Rousseau svaluta la conoscenza disinteressata rispetto alla pratica orientata all’utile immediato («Tra le conoscenza di cui disponiamo, alcune sono false, altre inutili e altre alimentano l’orgoglio di chi le possiede… Non si tratta di sapere ciò che è, ma solo ciò che è utile»[17]), è l’ultima a potersene lamentare. Ma qualunque pedagogia che voglia guarire dalla follia dell’attivismo deve porsi questi interrogativi. In effetti l’apprendimento umano è frutto della curiosità naturale, dell’impulso all’esplorazione, che l’uomo condivide con poche altre specie. C’è dunque in tutti un apprendimento fine a sé stesso, come il gioco nei bambini. A esso si riferisce Aristotele quando nel primo libro della Metafisica fa iniziare l’attività filosofica dal cessare delle necessità della vita, e nell’Etica identifica il gioia della ricerca e della scoperta teorica con la felicità stessa. In generale sembrerebbe dunque che la conoscenza umana non abbia bisogno di nessun giudizio o premio esterno: la comprensione di un fenomeno, la scoperta di una legge sono gioie che rendono la conoscenza un fine da perseguire per sé stesso e a questa gioia di imparare vanno educati i bambini e i giovani.
L’apprendimento scolastico è finalizzato non a sé stesso, ma all’acquisizione dell’autonomia intellettuale.
Tutto questo è vero, ma sarebbe sconsiderato credere che il mezzo possa essere identico al fine, che si possa imparare un’attività complessa nelle stesse modalità in cui essa è praticata da chi ne è padrone. Prima di essere funzione dell’impulso esplorativo disinteressato, l’apprendimento è una necessità per ogni essere vivente. In quanto necessità, la conoscenza dell’ambiente, delle sue risorse e dei suoi pericoli si realizza per lo più tramite i riflessi condizionati. «In tutti gli esseri viventi capaci di acquisire reazioni condizionate del tipo classico pavloviano, questa acquisizione può essere effettuata da due specie di impulsi opposti nel loro effetto, primo, da stimoli addestranti (reinforcement) che rafforzano il comportamento precedente, secondo, da stimoli disaddestranti (deconditioning, extinguishing), che lo indeboliscono o lo impediscono del tutto. Nell’uomo l’azione della prima specie di stimoli è legata a sentimenti piacevoli, quella della seconda a sentimenti spiacevoli, e non si commette un antropomorfismo troppo grossolano se le si indica in breve come premio e punizione anche negli animali superiori»[18]. Per accumulare le conoscenze necessarie a sopravvivere, i viventi hanno bisogno di premi e punizioni. Occorrono entrambi anzitutto perché «l’efficacia del processo di apprendimento viene raddoppiata se l’organismo è in grado di trarre conseguenze non solo dal successo oppure dall’insuccesso, ma da entrambi». Inoltre il premio è più adatto al raggiungimento di fini molto specifici, la punizione è più efficace per evitare situazioni dannose. Infine, la funzione più importante del principio di piacere-dispiacere è questa: «Ogni addestramento a un modo di comportamento mediante un premio che lo rafforza induce l’organismo a sopportare un dispiacere presente per guadagnare un piacere futuro, ossia – espresso in modo oggettivante – ad accettare senza reagire situazioni di stimolo che respingerebbero e dissuaderebbero se non fossero precedute da processi di apprendimento…»[19]. Ebbene, la situazione scolastica è quella in cui l’alunno non ha ancora acquisito gli strumenti necessari al comportamento esplorativo e deve acquisirli. Questa acquisizione non è fine a sé stessa, ma finalizzata alla futura autonomia. L’acquisizione degli strumenti necessari per accedere alla cultura come sistema vivente è assoggettata ai meccanismi disaddestranti: l’alunno vede bene la fatica dell’esercitazione e della memorizzazione, non vede affatto il guadagno futuro. Il suo impegno ha bisogno dell’approvazione.
La scuola ha un valore propriamente educativo in quanto mira a scopi futuri.
Rousseau vuole che non si esiga nulla dai bambini per obbedienza ed esige che non imparino «nulla di cui non sentano un vantaggio reale e presente, sia sotto forma di piacere, sia di utilità» (p. 198). Anche Dewey con la superficialità che gli è solita, sostiene una scuola non finalizzata a obiettivi futuri, ma fatta di attività che ripagano immediatamente. In questo modo va però perduta l’essenza dell’educazione: essa consiste anzitutto nel rendere il bambino superiore ai piaceri e ai dispiaceri immediati, e capace di lavorare, cioè di sopportare la fatica per giungere alla gioia dello scopo. Lorenz ha giustamente sottolineato la differenza tra piacere e gioia e ha avvertito un doppio pericolo legato alla civiltà: per un verso l’ipertrofia dei piaceri a causa dell’assuefazione che essi provocano e che induce ad aumentarne l’intensità, per altro verso l’ipersensibilità al dolore, per cui non lo si tollera neanche in minima misura e non si accettano più le fatiche necessarie a raggiungere i grandi scopi. Ma solo il raggiungimento sofferto di uno scopo importante dà gioia. La società attuale, e in particolare la scuola attuale, per viltà di fronte al dolore e alla fatica, si priva della gioia e si riduce al piacere.
La scuola rafforza la capacità di disciplinarsi propria di ogni bambino.
Al bambino l’alfabetizzazione non riesce piacevole e non sembra utile come correre, arrampicarsi sugli alberi, mangiare dolci o chiacchierare. Nondimeno il bambino è capace di obbligarsi e per aiutarlo in tal senso c’è bisogno di una scuola e di un maestro: non come facilitatore e assistente della sua attività spontanea – di questo non c’è affatto bisogno, qui basta il magistero della natura –, ma come fonte di disciplina. Quanto più alta la capacità innata e appresa in famiglia del bambino di obbligarsi – cioè la sua docilità – tanto minore la disciplina che l’insegnante deve esigere. Il puerocentrismo si lamenta dell’obbligo che la scuola impone ai bambini, ma solo perché dei bambini ha un’immagine puerile, inadeguata, solo perché non scorge in loro l’urgenza di diventare adulti e la disposizione a porsi e ad accettare obblighi per diventarlo.
Il voto numerico come premio o punizione.
Poiché nasce soprattutto dal senso del dovere e da uno scopo futuro, non da un piacere immediato per l’apprendimento scolastico, l’impegno dell’alunno ha bisogno improrogabile del premio e della punizione. Ciò che impara a scuola è una condizione necessaria dei suoi successi futuri; ma questi successi sono gioie troppo lontane per costituire un motivo nel presente; dunque è necessario anticipare le gioie dei successi futuri con gioie presenti. La scala dei voti che progredisce dal negativo al positivo svolge appunto questa funzione. Essa non può essere eliminata impunemente. La scala dei voti ha una funzione essenziale perfino per gli studenti universitari. Le ricerche realizzate negli anni Settanta sulle università americane che sostituirono la serie dei voti con il sistema promosso/respinto dimostrarono che il voto aumenta l’impegno nello studio e migliora la preparazione. Nel suo celebre libro sulla scuola americana, Hirsch riporta una serie di studi con risultati univoci[20]. Per esempio Melville e Stamm scrivono: «… (3) L’iscrizione a corsi promosso/respinto non incoraggia gli studenti a iscriversi a corsi rigorosi, (4 ) il sistema promosso/respinto abbassa la media della prestazione accademica… » e concludono raccomandando che «i corsi promosso/respinto non siano più di quattro per studente e che le valutazioni promosso/respinto non siano usate per corsi di istruzione generale»[21]. I risultati della ricerca di Gold e di quella di Quann sono eloquenti già nel titolo: «I risultati accademici decadono con la valutazione promosso/respinto» e «Valutazione promosso/respinto – storia di un insuccesso»[22].
Ogni apprendimento scolastico deve iniziare dall’assimilazione sicura degli elementi astratti.
Lo studio scolastico non è ancora l’esercizio virtuoso delle facoltà conoscitive che Aristotele identifica con la vita felice. Come ogni esercizio virtuoso, esso è accessibile non subito, ma dopo un processo di apprendimento più o meno lungo e sempre faticoso, in cui l’impulso esplorativo spontaneo deve essere rafforzato dall’accettazione della necessità e questa deve essere a sua volta incoraggiata da premi. L’apprendimento universale, vale a dire quello diretto a concetti e a competenze applicabili al di là del loro campo, deve iniziare da esercizi per padroneggiare gli elementi astratti nella loro separazione, prima di poter procedere al tutto concreto. La fase di esercitazione sugli elementi astratti – imparare le lettere, le tabelline, solfeggiare, pizzicare le corde di una chitarra, controllare la palla e così via – preliminari ai significati complessivi e più profondi delle discipline, la fase analitica, non può essere saltata, come sostiene il fallimentare metodo globale, se non si vuole restare per sempre nella situazione del dilettante che si limita a imitare l’evidenza superficiale. Questa fase non creativa, ma pedante, rientra a pieno titolo nella categoria degli apprendimenti umani e animali necessari per sopravvivere. La scuola quale la vogliono i pedagogisti puerocentrici – facile, indulgente, paurosa di frustrare al punto da rinunciare a correggere, senza compiti, senza voti – è uno strumento di rammollimento dei giovani e di decadenza generale.
Il voto non sostituisce, ma segue la correzione e il giudizio analitico.
Con tutto questo è ormai chiaro il ruolo del voto scolastico. I tentativi di eliminarlo vanno a vuoto perché non ne hanno capito la natura. Non gli si può rimproverare di sostituire l’aiuto determinato che l’insegnante deve all’alunno. Il voto non sostituisce infatti la correzione e il dialogo, ma da sempre li segue: nelle prove scritte si segue la correzione e il giudizio analitico che dicono all’alunno i suoi errori e gli danno la possibilità di migliorarsi; nelle prove orali, in cui è impossibile una correzione altrettanto puntuale, segue il dialogo diretto che ha la funzione di chiarire all’alunno ciò che gli mancava o non gli era chiaro. Eliminarlo fa mancare il premio e la punizione. Poiché la scuola deve provvedere a quella fase dello sviluppo spirituale dell’individuo in cui questi acquisisce conoscenze e abilità parziali, che non sono appaganti in sé stesse, ma sono condizioni indispensabili al raggiungimento del pensiero autonomo, gli alunni hanno bisogno del voto, cioè di essere premiati in quanto hanno raggiunto con il loro sforzo un obiettivo intermedio, di essere puniti in quanto hanno fatto mancare lo sforzo necessario a raggiungere l’obiettivo. Il voto ha forma quantitativa per questa funzione di premio e punizione, non certo, come alcuni affermano, perché la forma quantitativa sarebbe più precisa. Il voto non è in contrasto con l’interesse e l’impegno, anzi li corrobora.
La competizione è necessaria al miglioramento e i suoi inconvenienti possono essere minimizzati.
Quanto al timore che il voto scateni la competizione tra gli alunni, esso nasce da una visione utopica. La realtà, che è sempre migliore dell’utopia, indica che nella natura e nella cultura la competizione sollecita il miglioramento. E chi fosse preoccupato della solidarietà tra gli individui dovrebbe sapere che essa nasce dalla competizione tra i gruppi e coesiste con la competizione. Bandirla dalla scuola significa accettare il ripiegamento nella mediocrità, che non giova a nessuno. Certo, ci può essere un eccesso di competizione, ma può essere facilmente evitato attribuendo i voti con discrezione, sottolineando il loro carattere funzionale all’apprendimento e realizzando una didattica che solleciti l’interesse degli alunni per la disciplina.
Il voto fa valere il merito che è condizione della mobilità sociale.
Quanto infine al timore che il voto confermi la divisione di classe della società, anche qui si tratta di una obiezione dalla forte carica ideologica. La nozione di classe rinvia alla concezione materialistica della storia di Marx, per cui tutte le società storicamente date sono in una guerra civile nascosta o manifesta, che si conclude solo con l’avvento della società ugualitaria. La scuola pubblica è però una istituzione storica, la cui stessa esistenza, assicurando una cultura comune, smentisce l’assunto della società come guerra civile; essa non deve realizzare l’uguaglianza dei risultati, ma assicurare l’uguaglianza delle opportunità per favorire la mobilità sociale sulla base del merito. A tale scopo deve essere impegnativa e non limitarsi a prendere atto delle differenze determinate dalla genetica e dall’ambiente familiare, come fa la pedagogia attiva. Essa ha adempiuto il suo compito se tutti raggiungono almeno una preparazione accettabile e se i risultati eccellenti sono conseguiti anche dai figli delle classi povere.
[1] Citato in E.D. Hirsch, Jr., Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo, Trad. di P. Di Remigio e F. Di Biase, Editrice Petite Plaisance, Pistoia 2024, p. 129.
[2] D. Ravitch, The Troubled Crusade. American Education 1945-1980, Basic Books 1983, p. 235.
[3] J.-J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, traduzione di A. Potestio, Edizioni Studium, Roma 2016, p. 161.
[4] K. Lorenz, Intervista sull’etologia, a cura di A. de Benoist, Oaks Editrice, Milano 2016, pp. 84-85.
[5] Ibidem, p. 85.
[6] Ibid.
[7] Ibid. p. 119.
[8] Ibid.
[9] Ibid. p. 123.
[10] Citato in M. Bontempelli, E. Bruni, Civiltà e loro documenti, Trevisini, Milano 1993, vol. 2, p. 453.
[11] J.-J. Rousseau, Op. cit., p. 127: «Vorrei che le prime articolazioni che si fanno sentire al bambino fossero poche, facili, distinte, ripetute spesso e che le parole pronunciate si riferissero solo (corsivo nostro) a oggetti concreti che fosse possibile mostrare loro». Rousseau dimentica qui che comprendiamo le parole non con le cose, ma con le definizioni, cioè con le loro relazioni alle specie e ai generi, che sono altre parole. Oppure, a p. 159 dell’opera citata: «Non date mai al vostro allievo lezioni verbali perché deve riceverne solo dall’esperienza».
[12] Cfr. i rapporti dell’ispettorato scolastico inglese (Ofsted) riportati nel bel libro di Daisy Christodoulou, Seven Myths About Education, Routledge, Abingdon 2014, pp. 29-35.
[13] G.W.F, Hegel, Jenaer Schriften 1801-1807, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986, p. 17.
[14] Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi, a cura di L. Bimbi, EGA Editore, Torino 2002, p. 58.
[15] K. Lorenz, Intervista sull’etologia, op. cit., p. 185.
[16] J.-J. Rousseau, op. cit., p. 199.
[17] J.-J. Rousseau, op. cit., p. 270.
[18] K. Lorenz, Die acht Todsünden der zivilisierten Menschheit, Piper, München 1973, p. 39.
[19] Ibid., p. 40.
[20] E.D. Hirsch, Jr, Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo, op. cit., p. 223 n.5.
[21] Cfr. https://catalogue.nla.gov.au/catalog/5187954
[22] Cfr. https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/00220973.1971.11011260 e https://eric.ed.gov/?id=EJ098075