La crisi epistemologica della conoscenza
Il conoscere è stato declinato nelle varie linee guida didattico-pedagogiche in saper fare, saper essere, saper stare… il concetto di sapere in sé appare ormai non solo obsoleto ma inutile, inservibile, superfluo, quasi incomprensibile…
Viviamo un periodo in cui, nella crisi generalizzata della scuola come istituzione seguita al dramma del Covid e delle politiche poste in essere dai governi, abbondano analisi critiche, riflessioni, recriminazioni, proposte spesso contraddittorie di soluzione da parte di docenti, politici, sociologi e pedagogisti.
Ognuno pone sul piatto della discussione le sue idee e la sua visione della scuola (e della società), spesso con notazioni acute e condivisibili, talvolta – e avviene purtroppo assai frequentemente – con proposte devastanti se non ridicole, sull’onda di mode o asservimenti conformistici ai dettami del pensiero unico oggi dominante in Occidente (dall’abolizione della valutazione dei discenti, all’eliminazione delle discipline specifiche di studio, alle sciocchezze “innovative” della flipped class, alla comoda ma già obsoleta panacea della digitalizzazione totale, magari accompagnata dall’adozione dei famigerati banchi a rotelle, fino alla teorizzazione e realizzazione della figura del cosiddetto docente “facilitatore” o “orientatore” o tutor (ma di che?)… E mi fermo qui, per decenza: preferisco non parlare dei corsi di aggiornamento dei docenti per affrontare il problema della “scelta” sessuale di certi adolescenti.
È, insomma, un panorama in fermento di idee critiche o costruttive e baggianate spacciate per soluzioni innovative: e, guarda caso, queste ultime quasi sempre fatte proprie e messe in opera dal ministro di turno. Epperò, al di là di tutto questo magmatico coacervo di pseudosoluzioni, sta la realtà dei fatti: ignoranza giovanile sempre più ampia e generalizzata, mancanza di senso del rispetto del regole, incoscienza dinanzi alle conseguenze di proprie scelte ed azioni, arroganza, conformismo, incapacità di discernimento critico delle fonti informative, impoverimento emotivo e sentimentale, disorientamento psicologico e intellettuale, disperazione.
Il vero problema, però, che sta a fondamento di tutta la filosofia che presiede all’idea d’istruzione e formazione oggi, riguarda un aspetto essenziale della visione della conoscenza che il nostro tempo, ossessionato dall’utilitarismo aziendalistico, è venuto assumendo gradualmente e cioè la convinzione che le conoscenze, il sapere abbiano senso e valore solo se finalizzati ad una utilità pratica, sia per procurarsi nell’immediato un’occupazione nel mondo del lavoro, sia per apprendere nozioni “utili” a qualche attività oppure acquisire le famigerate “competenze” “spendibili” in ambiti extrascolastici: come vedete, sempre e dovunque il linguaggio economico-aziendale!
Il conoscere è stato declinato nelle varie linee guida didattico-pedagogiche in saper fare, saper essere, saper stare… il concetto di sapere in sé appare ormai non solo obsoleto ma inutile, inservibile, superfluo, quasi incomprensibile… Così, diffusissima è la mentalità che fu da sempre retaggio dell’incolto, dell’«illitteratus et idiota», con la consueta domanda: a che serve? Persino eminenti politici e ministri se la pongono: a che serve conoscere la storia dei Sumeri? A che serve lo studio della geografia, se qualunque informazione geografica si può agevolmente rinvenire nel web, senza sforzo e inutili lungaggini di apprendimento? A che serve lo studio del latino? A che serve conoscere le opere di Shakespeare, di Dante, di Omero, tutto vecchiume superato dai tempi? A che servono le cosiddette “nozioni” se non ad appesantire le menti dei giovani, indotti invece ad acquisire capacità e competenze “utili” a qualcosa?
Il vero problema dell’istruzione e formazione, dunque, diviene di ordine epistemologico, inerente il fondamento teorico della conoscenza stessa, in un contesto in cui ormai regna la dimenticanza del senso più vero e profondo del conoscere: dal lat. cum-gnoscere, dalla radice sanscrita –ġna = “apprendere con l’intelletto a prima giunta l’essere, la ragione, il vero delle cose” (dal Dizionario Etimologico online del Pianigiani).
Conoscere significa fondamentalmente avere comprensione ragionata di nozioni, cognizioni, dati, nomi e concetti correlati, trattenuti e assimilati anche emotivamente nella mente: ne fa fede e testimonianza la celebre affermazione dantesca: « non fia scienzia sanza lo ritenere ». Del resto, il desiderio di conoscere fine a se stesso risponde a un istinto primordiale e distintivo dell’essere umano: lo affermò all’inizio della sua Metafisica lo stesso Aristotele, parafrasato da Dante nel celebre incipit del Convivio: «naturalmente li omini desiderano di sapere». Per il grande filosofo dell’antichità esso è l’attività che realizza la forma sostanziale dell’uomo.
Oggi, invece, si è occultato il valore più profondo e fondamentale di ogni tipo di
conoscenza in sé, che è essenzialmente apertura di orizzonti mentali, allargamento del proprio campo di visione della realtà: qualunque insieme di nozioni, siano esse storiche, geografiche, linguistiche, naturalistiche, biologiche o chimiche o astronomiche etc. costituisce per la mente umana un bagaglio di esperienza intellettuale che la mette in grado di riflettere su di esse, di spaziare nel mondo collegando i termini di elementi, questioni e problematiche diverse: più conoscenze si possiedono, maggiore è l’esperienza del mondo e delle cose e maggiore è la potenziale capacità di valutare molteplici aspetti della realtà, collegandoli e confrontandoli, in una condizione che costituisce una risorsa intellettuale costruttiva e applicabile ad altri aspetti del reale: è ciò che volgarmente viene definito il senso critico delle cose, la facoltà di valutarle contestualizzandole e confrontandole con cognizione di causa.
Ma chi non conosce, chi non possiede saldamente nozioni, dati, informazioni radicate, non può esercitare effettivamente una valutazione libera delle cose, ma sarà sempre influenzato dal luogo comune, da quanto riferito da altri, dall’opinione dominante, dal conformistico approssimativo blaterare dei mass media o, peggio ancora, dei social: potrà avere a disposizione tutti i siti del web, ma la sua conoscenza sarà superficiale e temporanea, effimera perché non fondata su un contesto di conoscenze acquisite capaci di orientarlo consapevolmente nel mare magnum delle informazioni della rete.
Tutto ciò perché, con buona pace di coloro che condannano il “nozionismo” per sostituirlo con un’infarinatura generica e superficiale di informazioni destrutturate, solo la conoscenza delle cose, dei molteplici aspetti della realtà, è lo strumento in grado di fornirci il materiale per elaborare riflessioni personali, opinioni fondate, capacità ed abilità e, infine, vere “competenze” non superficiali.
Immortale rimane, pertanto, oggi più che mai, il monito Kantiano Sapere aude! abbi il coraggio di usare il tuo intelletto: ma senza conoscenze effettive questa rimane una formula celebrata e ribadita ma sostanzialmente vuota e vana. Proprio come le menti di tanti giovani che escono da una scuola che sembra aver perso la bussola, inseguendo vanità e sciocche pseudoinnovazioni e dimenticando il suo ruolo essenziale – da sempre – di trasmissione (critica) del sapere.