La fatica di apprendere

È davvero possibile apprendere senza fatica cose che facciano la differenza?


La confusione tra gli apprendimenti primari e quelli secondari, che regna sovrana nei discorsi di troppi pedagogisti, dà luogo a credenze ridicole, ma non per questo meno dannose, soprattutto perché ripetute fino allo sfinimento.

Poiché gli apprendimenti primari (movimento, coordinazione, parola, orientamento) rispondono a una predisposizione naturale, scritta nella biologia della nostra specie, e in quanto tali possono aver luogo attraverso il gioco, l’imitazione, la scoperta e l’immersione in situazioni che li stimolino, noi possiamo ben definirli facili. Certo, chiunque abbia osservato un bimbo che cerchi di muovere i primi passi ne intuisce lo sforzo; ma è senz’altro vero che quello sforzo, quella fatica, rispondono a una spinta interna a portare a compimento un processo che la natura ha pre-ordinato e alla quale la volontà del bambino non si oppone.

Gli apprendimenti secondari (abilità di letto-scrittura, calcolo, consapevolezza grammaticale, conoscenza teorica e discorsiva) non possono contare su alcuna predisposizione biologica, genetica, ma solo sulla disponibilità degli individui e della collettività a considerare il sapere come parte rilevante della propria umanità. Non è affatto detto che ciò avvenga per tutti, e in ogni epoca: la Storia lo dimostra, e mette grande tristezza doverlo sottolineare, quasi si trattasse di una verità recondita. Per questa ragione è illusorio pensare che gli apprendimenti secondari emergano da sé, spontaneamente, attraverso le attività che possono invece favorire gli apprendimenti primari. La fatica associata agli apprendimenti di cui si occupa la scuola non è null’altro che il costo da pagare se si decide di accedere alla realtà utilizzando strumenti critici potenti, difficili, innaturali.

Quando Dante affida ad Ulisse, nel canto XXVI dell’Inferno, le celeberrime parole:

Fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza

non intende fare un’ingenua constatazione circa un irrefrenabile desiderio di conoscere proprio di ogni essere umano; semmai esprime un’esortazione alla conoscenza possibile, cioè a un vero bene: non per caso lo mette in guardia rispetto alla vita bruta dove, essendo egli libero, può sempre precipitare. È proprio l’esercizio della virtù, cioè la rispondenza a un fine buono, che può rendere piacevole l’apprendimento, anche se esso è faticoso: ma fino al momento in cui l’individuo non è abbastanza maturo da riconoscersi in quel fine, non può trovare da sé una motivazione intrinseca alla conoscenza, ovvero il piacere di conoscere fine a se stesso; per questo ha bisogno del fomite del voto, dell’incoraggiamento, del confronto, del premio…

In che cosa consiste, infine, la fatica degli apprendimenti che dovrebbero caratterizzare la scuola in ogni ordine e grado? Ebbene, la mente non è mai un contenitore amorfo, pronto a incamerare dati alla rinfusa; essa è piuttosto il frutto di un continuo accomodamento, di un adeguamento del soggetto alla realtà di cui egli fa esperienza. Ma la realtà non è un mero aggregato di dati fisici, e si rivela – grado a grado – solo nel linguaggio, nell’organizzazione delle discipline attraverso la lente delle quali quella realtà viene osservata. Senza la conoscenza di quei linguaggi la realtà non può essere penetrata, resta opaca, si riduce a una serie di esperienze mute. D’altra parte la conoscenza di quei linguaggi è impegnativa, difficile, faticosa proprio perché ogni adeguamento del soggetto ai mondi che quei linguaggi gli dischiudono è un costosissimo abbandono del più consueto modo di guardare, e di esprimersi.

La fatica, a tutte le età, è forse insormontabile? Certo che no. Ma è proprio nel superamento graduale degli ostacoli consistenti, sebbene commisurati alle capacità dell’individuo, che egli sente aumentare il proprio piacere e il proprio potere. E mentre su questo potere crescente poggia la sua autostima, su quel piacere di apprendere germoglia la sua motivazione intrinseca. Non c’è studioso che non fatichi nel proprio lavoro, e che allo stesso tempo non goda delle proprie difficili conquiste.

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