La scuola delle esperienze e delle attività

La pedagogia è zeppa di costrutti dalle basi filosofiche fragili e contestabili, a cui però gli insegnanti non oppongono alcuna resistenza

Negli ultimi decenni anche la scuola italiana ha dovuto affrontare il dilagare dell’idea secondo cui il miglior apprendimento sarebbe quello che sgorga dall’attività concreta, pratica, laboratoriale (così come la teorizzava John Dewey un secolo fa). L’operatività, gli esperimenti e la scoperta riuscirebbero ad indurre negli allievi un atteggiamento partecipe in grado di fare la differenza. Le esperienze dirette costituirebbero il miglior presupposto per l’acquisizione di conoscenze e competenze durevoli, o addirittura autentiche.

Sarebbe assurdo negare l’importanza dell’esperienza nella vita, e dunque anche nella scuola. Se uno studente – per esempio – fa ripetutamente l’esperienza di studiare con impegno ottenendo buoni voti, egli può maturare la convinzione, peraltro razionale, che quello studio produca risultati positivi.

Tuttavia crediamo che l’idea della supremazia dell’apprendimento attraverso l’esperienza diretta si sia diffusa nella scuola senza trovare il giusto grado di resistenza critica. Ciò ha prodotto danni consistenti: oggi molti insegnanti si lambiccano il cervello per ideare esperienze dalle quali gli allievi possano trarre le conoscenze e le competenze ch’essi reputano importanti.

Al Gessetto, abbiamo più volte parlato di come sia assurda e scientificamente infondata la diffusa credenza secondo la quale l’insegnamento tradizionale (mirante alla trasmissione delle conoscenze e allo sviluppo delle abilità cognitive) sarebbe passivizzante, e di come esso sia l’unica vera didattica. Qui però vorremmo dedicarci alla funzione che le esperienze concrete possono effettivamente svolgere negli apprendimenti scolastici.

Prima di tutto vogliamo prevenire una possibile critica relativa a un caso circoscritto: nelle scuole professionali le esperienze concrete in laboratorio sono più che necessarie. I loro percorsi di studio sono finalizzati anche all’acquisizione di conoscenze pratiche che hanno valore operativo. Tuttavia le stesse scuole professionali, proprio come la scuola primaria e come la scuola secondaria di tipo liceale o tecnico, non si possono ridurre ad un lungo apprendistato durante il quale l’allievo impari a replicare ottusamente le sequenze esecutive corrispondenti ai diversi mestieri. Un buon elettricista non si limita a fare, ma conosce le leggi fisiche per cui quel che fa funziona: solo così egli è in grado di trovare le soluzioni più adatte ai problemi che si prospettano nelle diverse circostanze. L’importanza di un tot di teoria vale per l’elettricista proprio come vale per l’ingegnere, benché sia evidente che quest’ultimo affronta problemi di natura più complessa.

Riflettiamo. Ciò che distingue la scuola da una lunga esperienza di apprendistato o di bottega è la presenza dello studio teorico per cui non si sa soltanto che qualcosa funziona, ma si sa anche perché funziona. Poiché la teoria sa ciò che fa, solo la teoria consente l’innovazione, permette il miglioramento delle pratiche consolidate, standard, routinarie. Quanto più il lavoratore è spossessato delle conoscenze teoriche relative al proprio compito tanto più il suo lavoro si fa servile, meccanico.

Riconosciuta dunque l’imprescindibilità delle conoscenze teoriche veniamo a un altro aspetto della questione: dove è meglio che gli allievi le reperiscano?

Fin dagli albori gli esseri umani hanno osservato il sole sorgere e tramontare all’orizzonte; hanno osservato i corpi in movimento decelerare e fermarsi; hanno osservato i vermi consumare le carogne in decomposizione. Ci sono voluti millenni perché quelle medesime osservazioni empiriche trovassero spiegazione in teorie scientifiche. Fino ad allora intere generazioni di individui, cui non erano certo interdette le esperienze dirette, continuarono a ignorare il significato di quei fenomeni – spesso con forte sentimento di frustrazione; oppure continuarono a prendere per buone le spiegazioni correnti, il senso comune, i miti antropomorfi che pur rendevano conto di quei fenomeni naturali.

Solo l’esigua porzione degli uomini di cultura percepiva il lato problematico di quei fenomeni e compulsava i testi antichi alla ricerca delle possibili spiegazioni: nondimeno anche gli uomini di cultura continuarono a lungo a credere che il Sole ruotasse attorno alla Terra, che il moto semplice risultasse dall’azione di una forza e che i vermi nascessero spontaneamente dalle carni morte.

Che cosa fece la differenza, dunque, conducendo a teorie scientifiche più ampie ed esplicative? Non certo il semplice accumulo delle esperienze. In nessun caso l’osservazione di per sé condusse alla formulazione di nuove teorie, proprio come le esperienze di vita non conducono automaticamente alla saggezza. È semplice: le osservazioni, le esperienze concrete, le attività sono sempre condotte sulla base di assunti teorici solo in minima parte consapevoli, e pertanto si dirigono verso ciò che conferma le aspettative da cui sono guidate ed evitano ciò che le smentisce. Lo scarto in avanti è invece affidato al momento di elaborazione teorico. Al momento teorico, poi, farà seguito la conferma sperimentale o la falsificazione: il superamento del geocentrismo si verifica sulla base dell’intento teorico di Copernico di identificare la fisica astronomica con la matematica astronomica; la separazione tra moto e forza si verifica sulla base dell’idea, non osservabile nell’esperienza quotidiana, di un moto non influenzato da nessuna forza; il superamento della teoria della generazione spontanea è reso possibile dall’isolamento artificiale della carne in putrefazione dagli insetti… cioè non attenendosi all’esperienza consueta, ma creandone una nuova sulla scorta di un’ipotesi teorica.

Facciamo anche noi un esperimento, sebbene di tipo mentale: immaginiamo che tutta la conoscenza discenda invariabilmente dalle esperienze. Ora, a ben guardare, se agli alunni fosse chiesto di ricostruire attraverso le proprie esperienze dirette e/o concrete l’insieme di tutte le conoscenze e tutte le teorie che sono patrimonio della civiltà umana e che tradizionalmente sono insegnate a scuola, gli esiti scolastici sarebbero perlomeno grotteschi e scoraggianti. Gli alunni dovrebbero ripercorrere e ri-costruire la plurimillenaria storia della cultura umana all’interno di ogni classe (e nei laboratori), con strumenti limitatissimi, in pochissimi anni; inoltre dovrebbero giungere a risultati scientificamente attendibili con le proprie teste, che non sempre sono quelle di Aristotele, Galileo, Newton o Darwin.

In questa assurdità incorre proprio il padre della pedagogia attuale: solo ricorrendo a una deformazione della storia della scienza, indicando cioè nella pratica lavorativa quotidiana l’origine della teoria, John Dewey rifiuta la trasmissione diretta delle teorie ed esige che esse siano ricostruite dagli alunni attraverso esperienze fisiche. Il semplice fatto che le teorie scientifiche siano espresse in termini matematici e che la matematica sia la prima scienza teorica, dimostrativa, doveva avvertirlo dell’impraticabilità della sua ipotesi. La ragione più profonda del suo errore è però nel fatto che l’esperienza del mondo fisico diventa problematica, e dunque didatticamente feconda, solo nella sua traduzione logica. Quando Zenone dimostrò la contraddittorietà del movimento, il cinico Antistene si alzò, fece qualche passo e tornò a sedersi, credendo di aver confutato l’interlocutore con l’esperienza; in realtà aveva solo mostrato che l’esperienza quotidiana più banale, il muovere passi, tradotto in termini teorici, assume significati prima impensati. Qual è l’insegnamento che ne possiamo trarre? L’esperienza assume un fecondo valore problematico solo agli occhi della scienza, e non nella sua immediatezza. Il compito della scuola è dunque trasmettere la scienza già acquisita, in modo da aprire gli occhi alla problematicità dell’esperienza, che resta sempre celata a una visione ingenua.

Qui non c’è molto altro da aggiungere. Gli insegnanti, per millenni, si sono fatti carico del non trascurabile compito – con le proprie spiegazioni, con le proprie narrazioni fors’anche eccessivamente verbose – di rappresentare agli occhi dei propri allievi le conquiste e i fallimenti degli individui e delle civiltà, il divenire delle loro credenze fino all’irruzione del salto astrattivo, della teoria, fino all’uso sempre più rigoroso della parola, che faceva emergere l’inaudito dal banale.

Non esistono modi efficaci per accendere l’intelligenza e lo spirito di ricerca degli alunni, senza la trasmissione della conoscenza teorica nella sua natura critica.

Ci pare triste ed assurda l’intenzione di affidare ai nuovi insegnanti il compito di organizzare e pianificare – come fosse l’optimum – una selva di esperienze dalle quali i loro allievi cerchino vanamente di suscitare la sterminata storia della cultura. Non stiamo – per un cieco credo ideologico – condannando gli alunni all’inerzia empirica privandoli della eccitante inquietudine della teoria?

3 Commenti

  1. Un vecchio detto americano – e si potrebbe sorridere, notando da quale pulpito venga la predica – sostiene che a chi conosce il ‘come’, non mancherà mai il pane, ma chi conosce il ‘perché’, sarà sempre il suo capo.
    Ritengo, parlando con cognizione di causa, che lo stato di disfacimento del sistema scolastico di molte Nazioni sia il necessario prodromo alla formazione di mandrie di consumatori beoti e facilmente indottrinabili. I risultati sono già ben visibili.

    Si tratta di un problema molto complesso, cui personalmente non sono in grado di fornire soluzione: un piano molto ben escogitato, che parte da lontano e ora si è radicato grazie a diverse generazioni di insegnanti incapaci, che non potranno mai trasmettere ciò che loro stessi non conoscono.
    Il tutto con la complicità di chi trasmette disvalori e non perde l’occasione per deridere chi ha dedicato la propria vita allo studio, mostrando al ricercatore quanto guadagni un calciatore.

    Insegnare trasmettendo entusiasmo, come faceva Vittorino da Feltre nella sua Ca’ Zoiosa, ma a un pubblico di allievi entusiasti e capaci, è cosa ben diversa dal trasformare la scuola in un baraccone da Paese dei Balocchi, un parcheggio per sfaccendati che deve garantire un pezzo di carta per assicurare loro alla fine del giro dell’Oca una rendita, indipendentemente da ciò che uno sa o non sa.

    Mi scuso per avere tediato chi legge. Ma il tema mi è particolarmente caro.

  2. Grazie del gentile commento. Più che di pianificatori intelligenti e malvagi, temiamo che la trasformazione della scuola in Paese dei Balocchi sia opera di una mentalità “molto inclinata a far del bene: mestiere certamente il più degno che l’uomo possa esercitare; ma che pur troppo può anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari d’ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de’ nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso stanno come possono”.
    Il romanticismo pedagogico ha visto nei bambini dei piccoli dèi e nell’adulto, in particolare nel maestro, il loro crudele oppressore; per liberarli, ha escogitato una scuola come ambiente di sviluppo spontaneo in cui il docente non trasmettesse conoscenze e abilità, ma si riducesse a un assistente, a un animatore. E se la scienza e la cultura non sono alla portata dello sviluppo spontaneo, pazienza, le si sacrifica al benessere infantile.
    Che le buone intenzioni della pedagogia progressista producessero analfabetismo e ignoranza, gli americani lo avevano capito già negli anni Cinquanta del secolo scorso. La contestazione dell’autorità magistrale dagli anni Sessanta in poi ha resuscitato le buone intenzioni e siamo finiti a gonfiare l’autostima degli alunni a forza di lodi gratuite.

  3. Buonasera, e grazie dell’attenzione.

    È certamente possibile che esistano forze (come quelle di tipo economico o finanziario) tese a fare della scuola un luogo di disimpegno ed ignoranza. Ma ciò non significa affatto che, seppure volendolo, quelle forze sappiano agire nel proprio interesse. Può persino darsi il caso che quelle forze si ingannino; che subiscano il fascino esercitato da certe idee correnti sulla funzione ancillare della scuola e dell’università rispetto al sistema produttivo; e che così facendo si procurino gravi danni.

    Un sistema economico (nazionale? europeo?) che funzioni (foss’anche al solo scopo di favorire l’accumulo di ricchezza nelle mani degli industriali) oggi non può fare a meno dell’innovazione e della ricerca; non può alimentarsi della sola ignoranza dei lavoratori: l’agone esige competenze teoriche di alto profilo, resistenti alla rapida obsolescenza tecnologica.

    Un sistema produttivo che si accontenti dello sfruttamento di un gregge vasto ed ottuso può tirare avanti per qualche anno, raschiando il barile; ma presto viene spazzato via dalla concorrenza di sistemi produttivi nei quali la scuola e l’università delle conoscenze teoriche accurate giocano ancora un ruolo centrale.

    Il fatto che questa evidenza macroeconomica venga solo avvertita in modo confuso, e mai formulata con chiarezza dalle stesse persone che più dovrebbero averla a cuore, ci porta a credere che il nostro problema abbia una forte connotazione di tipo culturale.

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