La scuola e il potere
Una concezione inadeguata del potere conduce la pedagogia ad assumere atteggiamenti rivoluzionari che danneggiano la scuola.
In un articolo di qualche tempo fa, il dirigente scolastico prof. Stefano Stefanel, prima generalizzando la tesi assurda di Dewey, per cui le discipline teoriche sarebbero uno strumento di potere delle élite parassitarie, e poi ispirandosi alla tesi non meno assurda di Foucault, per cui le discipline non soltanto sono strumenti del potere, ma sono esse stesse strutture di potere, scrive:
Con il termine dispregiativo di “pedagogismo” si indica la china facilitatrice verso concetti e apprendimenti non facilitabili e come tali necessari più per il mantenimento del potere della disciplina che per migliorare l’apprendimento della stessa in studenti comunque giovani e generalisti.
Vale a dire le discipline, volendo conservare il proprio potere elitario, disprezzano la pedagogia che vorrebbe facilitarle e renderle accessibili al popolo. Il prof. Stefanel, che ama il popolo, vuole invece esaltare la pedagogia anche a costo di escludere le discipline dalla scuola. Qui non possiamo mostrare come il desiderio pedagogico di abolire le discipline sia vecchio di almeno un secolo, come abbia portato la scuola statunitense al collasso e come abbia colpito, più di ogni altro, proprio il popolo, che il prof. Stefanel ama. Ci limitiamo a mostrare come il nostro dirigente rifiuti la nozione di “potere” con un gesto ribelle, nel modo di un adolescente in conflitto con i genitori. Gli sfugge che il potere può certamente essere usato male, ma non è il male. Il potere può certo essere connesso con la brutalità e con l’inganno, ma può essere connesso anche con la protezione dalla brutalità e con la competenza. Foucault, che il prof. Stefanel ugualmente ama, risponderebbe che la competenza si fonda sulla verità e che la verità è di nuovo potere. Foucault e la genia postmoderna ignorano però che la verità non è affatto un decreto soggettivo ma, come accordo di soggetto e oggetto (adaequatio rei et intellectus, per dirla con S. Tommaso, che il prof. Stefanel ama) comporta che il soggetto rinunci alla sua onnipotenza e penetri nell’essenza delle cose. È questa compenetrazione a conferire un potere legittimo, quello dell’autorevolezza. Ecco perché ci sono poteri legittimi e poteri illegittimi, vantaggiosi e dannosi, accettati e sgraditi. Il potere del tiranno è illegittimo, dannoso e sgradito; il potere dei genitori è legittimo e vantaggioso per i figli e, finché sono piccoli, anche desiderato. Il potere degli insegnanti è legittimo (hanno a che fare con minorenni di cui sono responsabili), desiderato e vantaggioso per gli alunni in vista della loro formazione culturale.
La pedagogia moderna scorge giustamente un rapporto di potere tra insegnante e alunni; ma poiché (come fa il prof. Stefanel) identifica ciecamente potere e male, invece di consigliare gli insegnanti sul buon uso dell’autorità, cerca, con un piglio rivoluzionario, di emanciparne gli alunni. Essa squalifica i primi e ne fa figure di contorno («Don’t be a sage on the stage, be a guide on the side» dicono i pedagogisti americani), disprezza la trasmissione delle conoscenze e la conoscenza in generale (Stefanel parla di «sapere codificato, stantio e immobile»), sostiene modelli didattici attivistici, dunque inefficaci e riconosciuti come tali dalla ricerca scientifica.
Gli insegnanti si difendono poco e male da una pedagogia che da molto tempo li aggredisce e li squalifica. Nondimeno – come nota con disappunto il prof. Stefanel – finisce disprezzata. A noi sembra che, più della resistenza degli insegnanti, le sia fatale l’assurdità del suo progetto: esso nasce dal non saper distinguere tra apprendimento primario (orientamento, moto, linguaggio materno) e apprendimento secondario (conoscenza consapevole e dimostrativa). Per quest’assurdità teorica di principio, la pedagogia, nonostante il suo enorme potere – ispira infatti il ministero, controlla la formazione degli insegnanti della primaria e l’aggiornamento degli altri – può realizzarsi solo come distruzione della scuola, non come sua rifondazione metodologica, dunque non può uscire dalla sua condizione stentata.
La nostra conclusione è che la scuola non uscirà dal disastro fino a quando gli insegnanti non capiranno: (1) che li si attacca da un punto di vista ideologico, ossia irrazionale, fondato su una pulsione arcaica (la ribellione adolescenziale ai genitori); (2) che il loro mestiere è trasmettere a tutti la conoscenza disciplinare; (3) che la trasmissione della conoscenza disciplinare è l’unico modo di sviluppare in tutti il pensiero critico.