La scuola ridotta a clinica
Il sociologo inglese Furedi non gira attorno al problema: proteggere troppo i bambini e i ragazzi pregiudica la possibilità che essi raggiungano i traguardi ambiziosi. La pedagogia attuale ha messo al centro questa protezione smodata.
Il sociologo di origine ungherese Frank Furedi (1948), docente presso l’University of Kent, Canterbury, si è occupato ripetutamente di scuola, riconoscendo con grande lucidità la pericolosa triangolazione tra il meccanismo di istruzione, la medicalizzazione delle difficoltà dei discenti e il progresso sociale.
Leggiamo qualche passo tratto da una delle sue opere disponibili in lingua italiana, che dovrebbe bastare ad avviare una riflessione profonda e spregiudicata tra tutti gli insegnanti consapevoli del proprio ruolo.
La premessa della pedagogia attuale è che i bambini, particolarmente quelli svantaggiati, abbiano bisogno di continua approvazione se si vuole che abbiano successo. “A un certo punto negli ultimi decenni il mondo della formazione è giunto alla conclusione che la priorità fondamentale fosse far sentire i bambini bene con se stessi: nessuno avrebbe dovuto sentirsi inferiore a nessun altro, o percepire una sensazione di fallimento”, rimarca Melanie Phillips (All must have prizes, Warner Books, London, 1998, p. 12). Come fa notare Phillips, fare in modo che i bambini abbiano un’elevata autostima è diventata una premessa fondamentale dell’agenda dell’inclusione.
La volontà di accrescere o consolidare l’autostima dei bambini si basa sulla premessa che questi ultimi siano decisamente troppo fragili per affrontare un giudizio o sopportare di essere messi alla prova. Spesso si suggerisce la necessità di tutelarli dall’esperienza del fallimento se si vuole evitare che subiscano danni emotivi permanenti. L’inclusione e l’autoaffermazione appaiono quindi in netto contrasto con un curriculum impegnativo che solleciti il più possibile i bambini per portare alla luce il loro potenziale. Il sistema formativo è ora dominato da quello che il critico statunitense Maureen Stout ha chiamato il “curriculum-dello-stare- bene”, che significa che “gli insegnanti riducono le proprie aspettative nei confronti degli studenti, e questa è una delle cose più dannose che possiamo fare, dato che gli studenti soddisferanno le nostre aspettative, alte o basse che siano” (The Feel-Good Curriculum: The Dumbing-Down of America’s Kids in the Name of Self-Esteem, Perseus Books, Boston, 2000, p. 160).
L’ossessione per l’autostima dei bambini ha favorito una particolare attenzione alla soddisfazione dei loro bisogni emotivi – spesso a discapito di quelli intellettuali. La scuola si sta gradualmente trasformando in una clinica. Dovrebbe quindi sorprenderci che il Centro di salute mentale inglese abbia invitato le scuole a fungere da snodo centrale per l’intervento relativo alla salute mentale? Autorevoli pedagoghi sostengono che le scuole spendono troppo tempo per questioni di natura intellettuale e troppo poco per le capacità sociali ed emotive. Il gruppo consultivo del governo inglese sull’educazione alla cittadinanza e l’insegnamento della democrazia nelle scuole considera l’autostima una facoltà cruciale. I criteri guida stabiliti dal Dipartimento dell’istruzione sull’educazione “sessuale e relazionale” invitano le scuole a coltivare l’autostima dei propri alunni. La crescente influenza del curriculum-dello-stare-bene mostra che l’istruzione dei bambini è sempre più soggetta ai dettami dell’autoaffermazione attraverso l’inclusione.
Il tentativo di tutelare i bambini dalle esperienze impegnative e dolorose è spesso motivato da un comprensibile desiderio di proteggerli dalle dure realtà della vita. Sfortunatamente questo sentimento è stato trasformato in un’ideologia che impone di proteggere i sentimenti di quei bambini a tutti costi. Nella misura in cui l’obiettivo di tutelare i sentimenti dei bambini è diventato un fine in sé, la pedagogia dell’approvazione e dell’autoaffermazione ha alimentato nelle scuole una forma di condiscendenza intellettuale. Assistiamo a un sistematico tentativo di prevenire la sensazione di fallimento, e i bambini possono aspettarsi una serie continua di lodi e voti eccellenti per i propri sforzi. Il messaggio che viene implicitamente trasmesso agli alunni è che essi saranno giudicati sulla base degli sforzi compiuti piuttosto che dei risultati raggiunti. Come fa notare Stout (2000, p. 163), “questo approccio distrugge l’idea del lavorare in vista di un obiettivo, e quindi mette a repentaglio l’idea stessa di eccellenza”.La riluttanza a emettere giudizi di valore sui risultati che i bambini raggiungono si è estesa anche al mondo degli adulti. Anche qui il desiderio di tutelare i sentimenti delle persone è “giudicato più importante del desiderio di stimolare una reale creatività o di istillare rispetto per le opere straordinarie“. Come scrive John Tusa nel suo saggio sulla creatività, “nell’apprezzare il valore e lo sforzo di un individuo, la definizione di creatività è stata estesa quasi al punto di minare ogni credo nel suo reale significato: l’atto eccezionale della scoperta e dell’espressione immaginativa in una forma artistica” (2003, p. 6). Di conseguenza, l’agenda dell’inclusione attraverso la gratificazione ha un impatto negativo non solo sull’istruzione dei bambini, ma anche sulla vita intellettuale e culturale più in generale.
[da Frank Furedi, Che fine hanno fatto gli intellettuali?, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, pp. 156-158]