L’onnipotenza dell’insegnante

L’insegnante ha grandissime responsabilità, e può certamente sbagliare, ma non tutto dipende da lui.



Vorrei analizzare un’idea ricorrente, contenuta anche in un articolo intitolato Basterebbe una mela, pubblicato dal “Corriere della sera” in data 10 febbraio 2025. Il suo autore è l’insegnante-scrittore-giornalista Alessandro D’Avenia. Credo che quest’idea sia davvero deleteria, e contribuisca a confondere ulteriormente la già confusa discussione sul peso degli insegnanti nella carriera scolastica degli allievi.

Dopo una descrizione sognante dell’ambiente universitario di Cambridge (dove l’autore non manca di farci sapere d’essere stato invitato come conferenziere) caratterizzata da un afflato romantico, segue un’eulogia sull’amore come motore di conoscenza: l’amore dei giovani verso il sapere è attivato dal rapporto fisico, ravvicinato con la realtà. Amore per la realtà intesa in modo materiale.

Non m’importa troppo capire se D’Avenia sia afflitto – come molti tifosi della pedagogia attivistica – da un empirismo ingenuo, quello per cui la conoscenza astratta, teorica, sgorgherebbe, sarebbe estrusa dagli oggetti (le mele di Newton e quelle di Cezanne) attraverso la loro manipolazione (e da dove scaturirebbe, allora, l’interesse per la metafisica, per l’astronomia o per la matematica avanzata?); m’importa invece lo sviluppo del discorso di D’Avenia, che a un certo punto lamenta il fatto che gli studenti toccati dall’amore del sapere siano troppo pochi. Leggiamo:

Guardando la campagna che si stende attorno a Cambridge, mentre vado via grato per quelle ore, ripenso a questi studenti per i quali «studio» è ancora ciò che significava in latino: «amore», tanto che Dante nel Convivio definiva lo studio «applicazione dell’animo, innamorato di una cosa, a quella cosa», un vero corpo a corpo. Mi chiedo perché questo «amore» non possa toccare a molti di più e non solo a pochi fortunati. La risposta non è solo economica (e quindi politica, oggi più che mai per i cervelli in fuga), l’avevano data già negli anni ’60 gli psicologi americani Robert Rosenthal e Lenore Jacobson che, dopo aver osservato i bambini di una scuola elementare, avevano indicato ai maestri i 10 più intelligenti. Tornati un anno dopo per verificare l’esito della selezione, constatarono che quei bambini erano effettivamente divenuti i migliori della scuola. Gli insegnanti chiesero agli psicologi come, l’anno prima, li avessero identificati così rapidamente. I due svelarono che la selezione era stata una finzione, avevano scelto i 10 bambini a caso, non erano i più intelligenti ma lo erano diventati. Come? L’esperimento (noto anche come effetto Pigmalione) serviva a dimostrare che l’intelligenza è relazionale e quindi il rendimento dipende da come un insegnante guarda l’alunno: se pensa che sia un’aquila lo renderà aquila, se pensa che sia un asino lo renderà asino. Un bambino diventa «come» è guardato: era stato proprio il «ri-guardo» (sguardo ripetuto, cioè attento) degli insegnanti, influenzati dal pre-giudizio sui 10 prescelti, a rendere speciali quei bambini. Per dirla alla latina per diventare studenti («amanti») bisogna essere studiati («amati»), perché l’educatore «crea» effetti di essere a prescindere dalle qualità di partenza dell’allievo: l’intelligenza, come una pianta, cresce per cura. È la dimostrazione che quella «universitas magistrorum et scholarium», unione di maestri e studenti – a cui dovrebbe aspirare ogni sistema educativo se non fosse soffocato da burocrazia, ricerca del potere e mancanza di professionalità – è necessaria per far fiorire vocazioni e accade solo grazie al «pre-giudizio» che ogni persona è unica, perché solo così lo diventerà realmente […]

In breve D’Avenia promuove (peraltro estremizzando le conclusioni formulate da Rosenthal e Jacobson nel 1965) la tesi secondo cui:

il rendimento di un alunno dipende dallo sguardo del suo insegnante; un bambino diventa così “come è guardato”; un’attenzione speciale crea un bambino speciale, che eccelle; l’educatore crea effetti di essere (sic) a prescindere dalle qualità di partenza dell’allievo; bisogna investire nel pre-giudizio di unicità delle persone per ottenere persone uniche.

Ora, non c’è alcun dubbio che un buon insegnante debba saper investire sui propri allievi facendoli sentire tutti importanti e capaci, indicando loro la via verso lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno. Ma D’Avenia sostiene qualcosa di più grosso: sostiene che gli insegnanti determinano l’intelligenza degli allievi; sostiene che il loro rendimento è il riflesso del solo sguardo dell’insegnante; sostiene che l’attenzione speciale libera l’eccellenza; sostiene che quello che può fare l’educatore prescinde dalle qualità di partenza dell’allievo.

Ecco, a me tutto questo pare banale ideologia travestita da interessamento accorato per i deboli. Essa sorge dal rifiuto della diversità come ineluttabile disuguaglianza degli esiti dei mille percorsi personali. Il ruolo positivo degli insegnanti e degli educatori è necessario, ma è da stolti credere che possa essere sempre sufficiente a vincere le forze contrarie; la disposizione degli insegnanti contribuisce agli esiti dell’allievo, ma ci sono pure la disposizione e la volontà di quest’ultimo; le attenzioni devono essere grandi ma non bastano a rifare ex novo l’allievo.

Certo, vorremmo portare tutti all’eccellenza, senza dubbio; ma l’eccellenza esiste proprio giacché non è alla portata di tutti. Vorremmo che tutti si esprimessero al proprio meglio; ma il meglio di ciascuno non è sempre il meglio tra tutti. Vorremmo tutti rendere gli studenti «amanti» del sapere facendoli sentire studiati ed «amati»; ma la semplice verità è che ci sono bambini e ragazzi che non desiderano abbastanza amare nonostante siano ben amati: questo è il principio della libertà umana, che dovrebbe zittire tutti i seguaci della centralità dello studente, che non può proprio esistere senza pensare ch’egli sia libero.

A questi buoni argomenti alcuni replicano sovente – ricorrendo ad un’accusa tanto ingenerosa e disumana quanto facile da approntare – che certe osservazioni sono un comodo alibi per rinunciare ad un pieno investimento sui bambini e sui ragazzi più fragili. Classismo. Scuola per pochi. Scuola selettiva. Rispondo che si tratta di un’accusa cieca, poiché non è in grado di considerare quante volte nella vita umana, anche fuori dalla scuola, le buone guide e i buoni consigli non sortiscano affatto gli effetti auspicati; e oppongo con fermezza l’opportunità e la responsabilità proprie di una vita vissuta in modo aperto, all’idea irreale ed asfissiante di un mondo in cui alcuni hanno il controllo totale della vita altrui. Onnipotenti.

[per l’immagine di copertina, utilizzata come in originale, si ringrazia https://flickr.com/photos/48782691@N04/8175562198]

2 Commenti

  1. In che senso si può dire che quei dieci bambini erano diventati i migliori della scuola? Forse perché prendevano i voti più alti? Secondo me la valutazione oggettiva non esiste. Vi posso assicurare che prima degli scrutini i voti dello stesso alunno possono variare molto da un insegnante all’altro. In sede di scrutinio, è vero, molti voti vengono alzati, senza un motivo serio, perché tanti insegnanti si vergognano di essere gli unici, per esempio, a dare un 7 ad un alunno che nelle altre materie non prende meno di 8. Questo la dice lunga sulla presunta scientificità dei voti.

  2. Scrive D’Avenia: “Il rendimento dipende da come un insegnante guarda l’alunno”. E lo scrive sulla base tetragona di un aneddoto di due psicologi [!] americani [!] degli anni Sessanta [!]. Siamo alla teoria di Paracelso che il ferro cura l’anemia perché la sua ruggine è rossa come il dio Marte coperto di sangue. Con la differenza che Paracelso ci azzeccò.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *