Maieutica filosofica e maieutica pedagogica

La pedagogia ama vantare la discendenza della sua concezione puerocentrica dalla pratica socratica della maieutica. Si tratta però di un equivoco: la maieutica filosofica non è un metodo pedagogico, ma la scoperta, fondamentale per la nostra civiltà, dell’essenzialità della critica per la scienza.

Quest’articolo è un’attenta critica al metodo maieutico di Daniele Novara, così come viene illustrato su www.metododanielenovara.it/la-pedagogia-maieutica.

La pedagogia, l’arte di guidare i bambini, è difficile perché la saggezza che dovrebbe guidare gli adulti è rara e l’amore che li lega ai bambini è un sentimento elementare, intenso, che si lascia illuminare a fatica. Ci si aspetterebbe dunque dai pedagogisti di professione un’agilità all’altezza dei sottili capricci di cui è intessuto l’individuo, un tono modesto, perché anche il consiglio più razionale può fallire, e un atteggiamento prudente, perché perfino il consiglio che ha successo produce, insieme a ciò che era nel proposito, il suo contrario. Disgraziatamente, la pedagogia professionale moderna nasce da Rousseau. Sul piano biografico, egli fallì come precettore, come padre fece anche peggio: abbandonò i suoi cinque figli appena nati all’assistenza pubblica e non li rivide mai più; forte di queste esperienze, scrisse Emilio, il racconto di un esperimento mentale su un fantoccio, traboccante di disprezzo per tutti gli educatori e di ricette infallibili sull’arte di condizionare i bambini così da farne uomini virtuosi.

L’Emilio segna il rovesciamento della natura della pedagogia. Se nei suoi due discorsi precedenti aveva deriso la diffusa convinzione del valore positivo della civiltà e della proprietà sentenziando che la civiltà sia solo depravazione dello stato selvaggio e che la proprietà sia non la forma elementare della libertà personale, ma l’inizio dell’asservimento universale degli uomini, nell’Emilio Rousseau attaccò la convinzione comune che l’adulto possa e debba guidare i bambini. Ma un rovesciamento nell’esatto contrario, una pedagogia che ponesse i bambini alla guida degli adulti, benché sia diventata l’attuale ideale educativo, nel Settecento non poteva essere accettata neanche da Rousseau, né si confaceva alla sua psicologia incline alla paranoia e al controllo ossessivo. Il risultato fu un metodo pedagogico contraddittorio, che mentre finge di rispettare la spontaneità del bambino, nella sostanza è una tecnologia di controllo totale: l’adulto guida il bambino, come se ne fosse un amico (come dicono i pedagogisti statunitensi, non a sage on the stage, ma a guide on the side), senza esortazioni, comandi, divieti e punizioni, perfino senza spiegazioni, fingendo cioè di non guidarlo, e al tempo stesso organizza segretamente esperienze e messinscene, che al bambino devono sembrare casuali, ma in realtà lo conducono dove l’adulto vuole che vada – alla virtù come sacrificio totalitario dell’individuo a vantaggio dello Stato.

In questo atteggiamento sleale e in questa pratica manipolatoria, Rousseau non vede alcuna immoralità; gli sfugge che il camuffamento da necessità naturale della volontà del gouverneur soffoca la libertà del bambino molto più di quanto possa fare qualunque repressione diretta. La contraddizione di un metodo che produce l’annientamento della libertà sotto l’apparenza della sua esaltazione è, d’altro canto, funzionale a uno scopo educativo di moralità altrettanto dubbia: l’educazione rousseauiana non guida il bambino dalla natura alla civiltà; poiché Rousseau odia le scienze e le arti, il suo fantoccio deve sviluppare i sensi e i movimenti lungo tutta l’infanzia per indugiare il più a lungo possibile nell’innocenza agreste, e deve ricevere le ricchezze della civiltà con corsi accelerati proprio alla fine della giovinezza, al solo fine di fortificare la sua innocenza contro la corruzione che incombe sull’adulto. La virtù rousseauiana non è coraggio che si nutre della saggezza storica, ma testarda conservazione dell’innocenza animale.

Come Rousseau ha in odio la civiltà, la pedagogia moderna ha in odio l’essenza della civiltà, la tradizione scientifica, in cui essa vede soltanto «aride nozioni»; dunque condanna la scuola che trasmette ai giovani i risultati durevoli delle indagini del passato, ne progetta una radicalmente innovativa, che poggia non sulle conoscenze dell’insegnante, ma sull’evoluzione naturale della mente del bambino, a cui attribuisce il potere miracoloso di elevarsi da sola dalla primitiva inettitudine alle abilità più sofisticate dell’intelligenza teorica. Anziché suggerire con prudenza i suoi consigli agli adulti consapevole delle difficoltà del loro ruolo, essa li accusa di essere gli oppressori dei giovani e si adopera a liberarli. Sviluppa così una falsa antitesi che alla nuova pedagogia, al servizio del bambino, orientata alla sua libertà, scientificamente fondata, coinvolgente e feconda nei metodi, contrappone una vecchia pedagogia, oppressiva, orientata ad asservire il bambino al potere costituito, prona ai pregiudizi, dai metodi mortificanti l’intelligenza e inefficaci. La pedagogia moderna si percepisce come amica sapiente del bambino e come baluardo contro il rozzo dispotismo di genitori e maestri.

In lotta contro l’adulto oppressore, la pedagogia si sente tetragona in virtù di un interno consensus omnium, e si innalza ad altezze così sublimi da ignorare le critiche del volgo profano. Essa confida sul consenso interno e sul disprezzo delle critiche per affermare la scientificità dei suoi pronunciamenti. La certezza che solo il proprio sapere sia vero e solo il proprio fare sia buono, e che il profano possa solo sapere il falso e fare il male, è, però, il contrario dell’ἦϑος scientifico. La scienza non si sente in lotta contro nessuno e cerca verità definitive, le leggi stabili delle cose variabili. La definitività delle sue leggi non nasce però da un presunto consenso universale o dall’ignorare o dal denigrare la critica; al contrario, la scienza autentica è la prima critica di sé stessa, la sollecita negli altri, si corregge se non può confutarla, se può confutarla la corregge. Solo l’abitudine costante a incoraggiare i tentativi di scuoterla e a confutarli con gratitudine le dà la definitività per cui è capace di accrescersi superando i limiti di volta in volta dati, senza essere rovesciata.

Il rifiuto della prospettiva diversa non è scienza, ma fanatismo. Forte solo della propria convinzione, incapace di argomentare l’inconsistenza dell’antagonista, irritato dalla sua ostinazione, il fanatismo disprezza l’altro, ed è soltanto come aggressione o come fuga, esiste solo come polemica contro una realtà inconciliabile. Sin dalla sua origine la pedagogia moderna è impigliata nel fanatismo della visione antitetica: da una parte il negativo della vecchia scuola a cui bisogna mettere fine, dall’altra il positivo della nuova che bisogna instaurare. L’antitesi emerge anche nei sette principi con cui il prof. Novara dà forma alle sue opinioni pedagogiche, nonostante egli le qualifichi con un aggettivo, maieutica, che rimanda a un contesto di ascolto paziente e di libero dialogo.

In effetti, la scelta dell’aggettivo ha qualcosa di problematico. Nell’uso linguistico del prof. Novara, il termine sembra indicare una scuola in cui gli alunni sono considerati provvisti di conoscenze sufficienti, dotati di competenze affidabili e mossi da un impulso autonomo a sviluppare ciò che ancora manca, in cui l’insegnante, memore della nota confessione di ignoranza di Socrate, può dunque limitarsi a offrire qualche stimolo agli alunni, rinunciando a trasmettere loro le sue conoscenze e perfino a correggerli. Se così fosse, il prof. Novara nobiliterebbe con «maieutica» la vecchia e fallimentare pedagogia progressista, che è ben diversa dall’arte socratica, anzi per più di un aspetto ne è l’esatto contrario. Poiché questa deplorevole incomprensione della maieutica appare in ogni discorso pedagogico, sarà forse utile esporne il concetto autentico.

La similitudine tra il contegno intellettuale di Socrate e l’arte maieutica, vale a dire l’ostetricia, appare in un dialogo tardo di Platone, il Teeteto; è dunque possibile che la similitudine non provenga dal Socrate storico, ma sia una riflessione del suo grande allievo sul significato dell’opera del maestro. Per incoraggiare il giovane matematico Teeteto a rispondere alle sue domande, Socrate gli ricorda di essere figlio della levatrice Fenarete e di esercitare sulle anime dei giovani un’arte molto simile a quella che sua madre esercitava sui corpi delle donne. Come il mestiere di levatrice è praticato da madri non più in grado di partorire, così Socrate è sterile di proprie conoscenze; come la levatrice sa riconoscere se una donna sia incinta o no, sa svegliare o sopire le doglie, sa facilitare il parto o far abortire e, più di chiunque altro, sa combinare matrimoni, così Socrate ha la singolare capacità di riconoscere in alcuni dei giovani che ha attratto una segreta inquietudine intellettuale. In costoro egli fa emergere conoscenze che, ignorante com’è, non può aver trasmesso loro, ma essi stessi hanno trovato e generato. Nondimeno il suo aiuto è stato indispensabile; infatti chi si allontana da lui presumendo di aver generato da solo, non genera più nulla, anzi guasta ciò che aveva generato in compagnia di Socrate. Egli sa anche acuire e lenire le inquietudini intellettuali; e sa accompagnare ad altri chi gli si accompagna ma è privo di intima inquietudine filosofica.

Tra la maieutica di Fenarete e quella di suo figlio non ci sono però solo somiglianze, c’è una differenza importante – così importante che Platone la ripete due volte: le donne partoriscono sempre figli reali, quindi le ostetriche non hanno bisogno dell’abilità più difficile, quella di distinguere il vero dal falso; invece il culmine della maieutica socratica è la capacità di distinguere se l’intelletto del giovane «partorisca ombra e falsità oppure qualcosa di fecondo e vero» (150c 2-3). Non solo possiede come risorsa più preziosa la capacità di discriminare il vero dal falso in ciò che l’anima del giovane genera, la maieutica socratica provvede anche a eliminare il falso: «Qualora nell’esaminare io ritenga che qualcosa di ciò che dici sia ombra e non verità, e te lo sottragga a poco a poco e lo metta via, tu non sdegnarti come le donne al primo parto per il loro bambino» (151c 3-5).

È evidente dal testo menzionato che la maieutica socratica è tutt’altro dal romanticismo pedagogico. Essa è diretta non alla fioritura spontanea del potenziale naturale dei bambini, ma ai giovani animati dall’ansia di conoscenza teorica, non si complimenta, se non ironicamente, con l’interlocutore, ma svolge una funzione critica, negativa. Frequentare Socrate significa non solo tollerare, ma avere bisogno della critica delle proprie idee. Infatti la critica, benché appaia sterile, è tutt’altro che superflua: Socrate ha scoperto che la conoscenza raggiunge il vero solo se la accetta, anzi la sollecita. Egli ha dunque il merito infinito di aver determinato il metodo scientifico. Visto dall’esterno, dice Platone, Socrate distrugge le certezze e le sostituisce con i dubbi (e per questo si rende odioso agli Ateniesi); vista dall’interno, la distruzione delle certezze è la condizione da cui nasce la scienza. Non perché questa consista in un atteggiamento scettico nei confronti dei suoi risultati, come se li considerasse soltanto verosimili e provvisori, ma perché essa prima sollecita lo scetticismo, poi lo rivolge contro di esso, contro lo stesso scetticismo; perché non solo sollecita la confutazione, ma sa anche confutarla. Poiché la verità della scienza è non affermazione diretta, ma confutazione della confutazione, la scienza raggiunge una definitività affatto differente da quella testarda e apparente del dogmatismo, una stabilità sempre vibrante del dibattito da cui risulta.

Da tutto questo è facile evincere che la maieutica è un principio epistemologico, non un metodo pedagogico attivistico: riguarda la natura dell’indagine teorica, non i modi di favorire una presunta evoluzione naturale della mente dei bambini. Anzi, il concetto filosofico di maieutica, cioè l’indispensabilità e la fecondità della critica illimitata per la conoscenza teorica, è in radicale contrasto con l’assiomatica implicita nella pedagogia moderna, con l’empirismo, con il suo rifiuto alla conoscenza teorica e la sua regressione a punti di vista sensistici che è merito infinito proprio del Teeteto aver confutato. È noto che, avendo ereditato attraverso Voltaire i pregiudizi empiristi di Locke, Rousseau sacrifica l’infanzia di Emilio all’esercitazione dei sensi e dei movimenti; che il suo allievo Dewey, ignaro della natura e dell’importanza anche pragmatica della teoria (si pensi al ruolo della matematica nella tecnologia), arriva a considerarla un privilegio ozioso delle aristocrazie parassitarie della vecchia Europa. Viceversa, il concetto filosofico, autentico, di maieutica non è applicabile alla pedagogia in generale: il frequente riferimento dei pedagogisti alla maieutica è sempre un equivoco, giacché non può avere efficacia la didattica di un maestro che, nello stile di Socrate, non trasmetta nulla agli alunni, perché sa soltanto di non sapere, e si limiti a criticarne gli errori costringendoli a confessare la loro ignoranza. Qualificando come ‘maieutica’ la sua pedagogia, che di fatto è una riproposizione della vecchia pedagogia attiva, il prof. Novara tratta come identici due punti di vista radicalmente incompatibili.

La sua pedagogia «maieutica» poggia su sette principi, che sono variazioni sul dogma inconfessato della pedagogia attiva: ogni bambino è animato da un impulso naturale sufficiente a ogni apprendimento, che l’esercizio dell’autorità magistrale può solo soffocare. Il dogma ha una natura antitetica: al bambino immerso nel paradiso rousseauiano delle spontanee esperienze sensoriali e motorie che lo guidano alla gioiosa costruzione di sé, esso oppone l’adulto che, abbruttito da una società crudele, ne reprime la spontaneità gioiosa e lo costringe all’arida astrazione. Questa antitetica è l’ossessione che genera i sette principi.

1) «Si impara dai compagni… Copiare è non solo possibile ma è proprio l’imitazione reciproca che permette di apprendere».
L’antitesi, qui appena accennata, è tra la scuola in cui il bambino impara dal docente e la scuola in cui impara dai compagni: da una parte la scuola gerarchica, in cui il collettivo obbedisce a un’autorità che sorveglia gli alunni e punisce quelli sorpresi a copiare, dall’altra la scuola ugualitaria, in cui i bambini fanno a meno dell’autorità e progrediscono copiandosi a vicenda. La svolta verso il nuovo a cui il prof. Novara ci esorta è non tanto una scelta tecnica, quanto una scelta politica, quella tra l’attuale mondo disuguale, competitivo e il mondo migliore, l’utopia ugualitaria e solidale.
Proporre oggi il mutuo insegnamento, o ‘cooperative learning’, o ‘peer education’, ha qualcosa di forzato, di intempestivo. Si tratta infatti di un metodo che risale a tempi molto lontani e consiste nell’istruire gli alunni più capaci, che a loro volta istruiranno gli altri. Se dopo molti secoli non si è ancora imposto come metodo didattico principale, se anzi è uscito silenziosamente dalla pratica, se ne dovrebbe dedurre non, come fa la pedagogia, l’inettitudine ostinata degli insegnanti, ma che esso comporta gravi difficoltà di applicazione e risultati così deludenti da indurre all’abbandono anche gli intrepidi che si ostinano a volere spezzare le reni alla realtà.
Osservato da vicino, il mutuo insegnamento appare soprattutto un espediente per affrontare le difficoltà delle classi molto numerose: è un modo di moltiplicare il numero dei maestri in tempi di povertà. Come tale, non esclude affatto il ruolo tradizionale del maestro, la sua autorità sugli alunni, anzi pone gli stessi alunni in un rapporto gerarchico: i più capaci o i più grandi diventavano maestri dei meno capaci o più piccoli.
Proprio come ha distorto la nozione di «maieutica» nel farla sua, la pedagogia attiva distorce la nozione di mutuo insegnamento. Essa vi si appassiona non per il problema pratico di come superare la carenza di insegnanti, ma, in primo luogo, per il desiderio, dettato dall’ugualitarismo ideologico, di esautorare l’insegnante. Poiché non tollera l’insegnante che trasmette verbalmente dalla cattedra conoscenze e abilità agli alunni, prima esclude la conoscenza discorsiva dagli obiettivi didattici e poi affida agli alunni la didattica residua regredita al livello pratico-manuale. E affinché il verbalismo sparisca insieme all’insegnante, il prof. Novara non esita a raccomandare perfino l’imitazione, come se si potesse basare la scuola su un ripetere senza consapevolezza e senza libertà il comportamento altrui.
Negli Stati Uniti, a quanto scrive Hirsch, il ‘cooperative learning’ è praticato con la divisione di una classe in gruppi di circa cinque alunni che collaborano a un compito o a un progetto comune. Ma il coordinamento tra le attività di parecchi gruppi in una classe è tutt’altro che facile; dunque gli alunni non possono essere abbandonati a sé stessi, il maestro deve esercitare un controllo attento, deve fissare obiettivi chiari e incentivi definiti. Per avere speranza di non degenerare nel pandemonio, l’apprendimento collaborativo non deve dunque essere pensato come un metodo centrato sull’alunno, alternativo a quelli centrati sulla trasmissione della conoscenza; lo si può usare con profitto solo in connessione con questi ultimi, per esempio affinché gli alunni più avanzati aiutino gli alunni più indietro, in modo che quelli consolidino le loro conoscenze e abilità e questi raggiungano il livello di competenze medio della classe. Ma anche qui c’è un limite: il dislivello tra gli alunni più avanzati e quelli più indietro deve essere minimo; in caso contrario l’eccellenza dei primi sarebbe sacrificata a fronteggiare le difficoltà di quelli più indietro, per un compito che spetterebbe all’insegnante.
L’idea di sacrificare l’eccellenza alle difficoltà cognitive per uguagliare il genere umano è tutt’altro che estranea alla pedagogia progressista di cui il prof. Novara è adepto. Essa ama il ‘cooperative learning’ non solo come mezzo per esautorare l’insegnante, ma anche come antidoto alla competizione e al successo individuale, dunque come strumento per realizzare l’utopia ugualitaria a scapito dell’eccellenza. Ma l’utopia ugualitaria, danneggiando gli eccellenti, danneggia tutti. L’esito dei più energici tentativi di realizzarla è stato la catastrofe generale: essi hanno imposto sacrifici terrificanti per realizzare la regressione economica e sociale. Gli americani stessi hanno avvertito il danno all’eccellenza del cooperative learning; come racconta Hirsch, «i genitori lamentano che i bambini capaci che vogliono lavorare di più e meglio sono a volte scoraggiati a farlo con l’accusa di non essere collaborativi con il gruppo».
In definitiva, qualora volesse servirsi dell’apprendimento cooperativo, l’insegnante dovrebbe farlo non in antitesi e in sostituzione della didattica tradizionale, ma solo occasionalmente e in congiunzione con questa. Preferire il mutuo insegnamento all’insegnamento magistrale non nasce da sano realismo, ma dall’invidia contro l’eccellenza e dal pregiudizio contro gli adulti, dal dimenticare che questi non solo hanno incomparabilmente più risorse dei bambini, ma li amano molto più di quanto i bambini si amino tra loro e che diventando adulti non perdono la memoria della loro infanzia e sono dunque in grado di capire i bambini meglio dei bambini stessi. È un fatto che la didattica di gran lunga più efficace è quella di un singolo precettore adulto per ogni bambino. Il mutuo insegnamento porta su di sé le stimmate della miseria; la ricchezza si è sempre orientata verso il suo opposto.

2) «Si impara con le domande, quelle maieutiche che non cercano la risposta esatta, ma attivano motivazione interesse, curiosità e voglia di scoprire».
Abbiamo già visto in cosa consista la maieutica socratica, che non solo essa cerca risposte esatte, non solo presuppone un interesse già esistente (Socrate aiuta solo chi ha le doglie della conoscenza, gli altri li affida ad altri), ma si esercita esclusivamente come critica serrata delle idee espresse dagli interlocutori. Se le domande maieutiche di cui parla il prof. Novara alludessero al dialogo socratico, l’allusione sarebbe un semplice fraintendimento. Se poi il richiamo fosse, anziché al Teeteto, al Menone, cioè al famoso esempio con cui Platone fa dimostrare a Socrate la teoria delle idee, allora le distanze tra la maieutica novariana e la maieutica autentica si farebbero ancora più lunghe.
Nel Menone Platone intende dimostrare che la conoscenza vera consiste non nel cercare e scoprire oggetti ignoti, ma nello scoprire le ragioni profonde di ciò che già sappiamo dall’esperienza. La conoscenza come anamnesi significa che la scienza non consiste nell’avere sensazioni, ma inizia dalle regolarità dell’esperienza quali sono espresse nei significati dei nomi e finisce nella consapevolezza del loro nesso sistematico. Le idee platoniche sono le specie legate ai generi e significate dai nomi, e Platone giustamente osserva che esse sono più oggettive della immediatezza sensibile, perché ne rilevano le leggi liberandole dalla confusione empirica. Scoprire i nessi delle idee, vale a dire il ragionamento, significa dunque scoprire le ragioni profonde delle nostre conoscenze. Al giovane schiavo privo di conoscenza matematica è sufficiente capire il greco perché riesca a seguire la soluzione di un problema matematico, quello di determinare il lato di un quadrato di area doppia a un quadrato dato. Il significato gnoseologico dell’immortalità dell’anima è infatti la possibilità per ognuno di attingere non solo alla memoria personale di origine empirica, ma alla memoria della civiltà, contenuta nella semantica del linguaggio. Che l’argomentazione di Socrate nel Menone assuma non il carattere di un’esposizione continua, ma quello di una sequenza di domande, non ha dunque nessun fine pedagogico, non serve ad attivare motivazione e voglia di scoprire, ma risponde alla necessità di Socrate di dimostrare che il ragazzo, pur ignorando la matematica, è comunque in grado di seguire il ragionamento di Socrate, perché questo fa appello a conoscenze implicite nel semplice esercizio del linguaggio di cui il giovane schiavo è capace. Anche qui, dunque, il tentativo della pedagogia di abbellire lo squallore sensistico delle sue concezioni coprendole di nobili penne filosofiche incontra il fallimento.
L’antitesi che domina il secondo punto della maieutica novariana, quella tra esattezza e interesse, non è falsa, ma ha un fondamento reale. Falsa è qui la sua soluzione.
La conoscenza teorica, quella di cui la filosofia platonica è la prima grande determinazione, e che implica esattezza, non può attivare l’interesse infantile, che è invece destato dalle abilità dipendenti da strutture trasmesse geneticamente, abilità quali il movimento, l’orientamento, l’imitazione, il linguaggio materno. La conoscenza teorica e la sua esattezza sono in grado di attrarre l’interesse del bambino solo dopo che ne padroneggia, attraverso un esercizio più o meno faticoso, le strutture di base.
La funzione essenziale della scuola è quella di permettere ai bambini di acquisire le strutture di base della conoscenza teorica oltre o anche contro i loro desideri direttamente percepiti. La scuola ha questo dovere dapprima ingrato, ma dal cui adempimento dipende la dissoluzione dell’antitesi tra teoria e interesse. La fatica scolastica non è un gioco sadico degli insegnanti, è una fase necessaria dell’apprendimento teorico affinché le sue strutture di base diventino patrimonio del bambino e questi sia in grado di apprendere da solo e con interesse per tutta la vita. Questa soluzione: accettare la fatica iniziale dell’apprendimento teorico così da acquisirne i fondamenti e accendere un interesse long life, è l’unica soluzione possibile. Il prof. Novara, che la rifiuta rifiutando l’esattezza, rifiuta al bambino il bene supremo della teoria, ossia della conoscenza delle ragioni delle cose, e lo abbandona a una manualità esecutiva puramente subalterna. La pedagogia ama il bambino così com’è, non il suo essere-in-potenza, ne trascura quindi la crescita, nonostante essa si annunci direttamente nel bambino stesso, nel suo desiderio di diventare grande, e così lo rovina per sempre.

3) «Si impara nel laboratorio non ascoltando più o meno passivamente chi sta facendo lezione, nella concretezza delle esperienze dirette, nel cercare risposte ai problemi usando tutte le informazioni possibili».
La terza antitesi oppone l’ascolto dell’insegnante e il discovery learning o anche il learning by doing oppure il hands-on learning (pur nemica del verbalismo, la pedagogia diventa loquace quando deve rinominare un metodo di provata inefficacia per farlo sopravvivere), ed è l’antitesi centrale della pedagogia attiva, quella tra scuola fondata sulla trasmissione delle conoscenze e scuola fondata sull’alunno.
Il pedagogista dà uno sguardo a una classe di alunni in ascolto e dice: «La lezione dell’insegnante consegna gli alunni alla passività, l’esperienza diretta è la vera scuola». È sufficiente una minima riflessione per capire l’inconsistenza di questa antitesi. In essa l’ascolto appare come una registrazione meccanica di una intenzione comunicativa. Ma così non è. L’ascolto, se non è finto, non è mai «più o meno passivo», è sempre attivo. All’ascoltatore giungono suoni; egli li deve comporre in parole significanti; deve comporre queste in una frase sensata e le frasi in una intenzione comunicativa: il processo che va dalla percezione dei suoni al comprendere l’intenzione comunicativa non ha nulla di meccanico, ma è una prestazione complessa, sofisticata, a carico dell’ascoltatore, e richiede uno sforzo più o meno faticoso di attenzione, la competenza grammaticale, la memoria delle proprie conoscenze e l’attitudine ad ammettere che l’altro abbia da dire qualcosa di sensato.
In secondo luogo, a lezione non ci si può distrarre senza conseguenze come durante una conferenza; la lezione deve essere capita, perché su di essa ci saranno le verifiche e le verifiche saranno valutate (questo semplice fatto dice qualcosa sull’usanza di portare gli alunni in giro per conferenze). Ma la lezione non è una conferenza anche nel senso che non succede mai che in una classe sufficientemente piccola (come le attuali da 20 a 25 alunni) un insegnante parli ininterrottamente ad alunni in silenzio e sull’attenti: sempre si interrompe per avviare dialoghi, dibattiti, perché è un modo per riposarsi dalla fatica, perché ascoltare dà piacere, perché è opportuno verificare spesso la comprensione di ogni alunno. Per tacere il fatto che molte lezioni sono esercitazioni. Insomma che l’ascolto dell’alunno sia «più o meno passivo» è una denigrazione pedagogica della scuola senza fondamento: non c’è vero contrasto tra didattica della lezione del docente e didattica dell’esperienza autonoma del discente; si tratta di forme diverse di attività del discente.
D’altro canto, quando si parla di apprendimento per scoperta come metodo didattico, si dimentica che la scoperta non è un metodo, ma il risultato di una ricerca fortunata. Farne un metodo comporta che i discenti spendano molto tempo e molto sforzo e spesso non giungano a risultati oppure giungano a risultati falsi. L’apprendimento per scoperta ha certamente il vantaggio di fissare conoscenze in modo permanente nella memoria degli alunni, ma è lento e dispersivo, contraddice dunque il vantaggio principale della scuola, che è quello di consentire a tutti e in pochi anni l’acquisizione di scoperte che sono costate sforzi estenuanti agli uomini più geniali nel corso di molti millenni. Hirsch rivela che la ricerca scientifica è giunta alla conclusione che il discovery learning, usato come metodo principale o esclusivo, è la didattica meno efficace.
Il punto più problematico del laboratorio raccomandato dal prof. Novara è il suo implicito rifiuto della centralità della parola a scuola. Ma se per «laboratorio» non si intende la pratica artigianale, se la pedagogia non vuole riportare la scuola all’età preindustriale, un laboratorio deve essere pratica scientifica, dunque non può accontentarsi del fatto che gli alunni percepiscano e manipolino le cose; essi le devono capire pensando, cioè riconducendole alle specie e ai generi. Questi esistono empiricamente come regolarità delle cose, ma hanno un’esistenza indipendente solo nelle parole; il lavoro di comprensione, il ragionamento, consiste non in una manipolazione delle cose materiali, ma in una connessione delle specie e dei generi. La rinuncia alla centralità della parola è dunque la rinuncia a comprendere l’esperienza; ma un’esperienza senza comprensione non ha nessun valore didattico.
Anche l’idea che la scuola centrata sulle attività degli alunni, sui loro interessi immediati, percepiti, sia interessante, mentre quella centrata sulla trasmissione delle conoscenze sia noiosa, è a priori destituita di fondamento. Un insegnante di sufficiente abilità e preparazione sa rendere interessante qualunque argomento, e viceversa gli alunni possono annoiarsi subito dell’esperienza che stanno facendo.
L’antitesi tra la didattica centrata sulla trasmissione della conoscenza e la didattica centrata sull’esperienza dell’alunno è così inconsistente che il credito di cui essa gode sollecita una spiegazione. Questa spiegazione è nella natura ideologica della pedagogia progressista: il rifiuto della trasmissione della conoscenza cela un più generale rifiuto della conoscenza. Non tutti la amano; il suo criterio è infatti la verità; ma la verità non è altro che adaequatio rei et intellectus, accordo tra il soggetto e l’oggetto; dunque implica che il soggetto approvi o almeno accetti l’essenza del mondo. Proprio questa accettazione o, peggio, approvazione è intollerabile da una pedagogia nata dalla polemica rousseauiana contro la storia e la civiltà, contro il passato e il presente. Essa desidera la distruzione del mondo qual esso è, e nella scuola desidera reclutare la truppa per questa impresa addestrandola alla negazione astratta. Il vero motivo per cui essa non tollera che gli alunni ascoltino l’insegnante è il suo sospetto che nel rovescio del mantello grigio dell’ascolto ci sia la lucente fodera rossa dell’interesse per il mondo e dell’ammirazione razionale per la sua essenza. I difetti di una didattica fondata su esperienze spontanee sono così ovvi da non poterle non essere noti; nondimeno essa la raccomanda, perché alla conoscenza preferisce un pensiero critico che è uno scetticismo distruttivo e perché apprezza lo scardinamento di uno dei tanti rapporti gerarchici, quello tra maestro e allievo, che la rinuncia alla didattica trasmissiva comporta. Non è un caso quanto documenta Diane Ravitch, il fatto che l’ondata attuale della pedagogia progressista è iniziata con le contestazioni degli anni Sessanta; esse hanno preso spesso (per esempio in don Milani) la forma del disprezzo, ma anche dell’intimidazione e, nella Cina della Rivoluzione culturale, della violenza estrema da parte degli alunni contro gli insegnanti.
In una parola, il laboratorio del prof. Novara non è un metodo alternativo a quelli della scuola tradizionale, ma è una delle tante formule che celano un impulso distruttivo sotto la maschera di un anodino pragmatismo innovativo. La scuola della conoscenza, che non è irretita in false antitesi, può concedersi episodi di attività autonoma degli alunni entro una routine che rispetti la sua essenza di trasmettere l’ottimo della tradizione.

4) «Si impara valutando i progressi, evitando l’elenco degli errori, monitorando il percorso di crescita senza giudicare le incertezze».
Forse il prof. Novara vuole dire (con una certa libertà grammaticale) che non si valuta per condannare l’alunno ed escluderlo dal percorso scolastico, ma per aiutarlo a imparare – una raccomandazione non del tutto ovvia. Si deve infatti riconoscere che la scuola gentiliana era disturbata dall’ossessione esclusiva. Dopo averne fatto il vertice formativo del sistema scolastico, Gentile ridusse il numero dei Licei Classici e il numero delle loro sezioni, e indusse i docenti a sforbiciare le loro classi in modo da selezionare una ristretta classe dirigente. I danni che questa impostazione ha causato sono evidenti: ha conferito alla cultura umanistica un carattere aristocratico dividendola artificialmente dalla cultura scientifica, ha insinuato l’idea falsa che il valore della scuola non si basi sull’efficacia della sua didattica, ma sul suo potere di escludere, ha confermato da un diverso punto di vista l’idea falsa di Dewey che democratizzare la scuola non sia diffondere la cultura teorica, ma diffondere la formazione professionale, un’idea che ha provocato l’attuale agonia del Liceo Classico.
Tuttavia la reazione del prof. Novara a una concezione che fu combattuta già dopo pochi anni dall’entrata in vigore della riforma Gentile e che le scuole attuali hanno estirpato dalle radici abbandonandosi a una consuetudine di indulgenza illimitata, equivale ad abolire la valutazione sulla base di una antitesi inesistente tra valutazione e didattica efficace. Valutare solo i progressi, evitando l’elenco degli errori, significa negare all’alunno la possibilità di correggersi e migliorare, e alimentare in lui una falsa autostima. Gli alunni capiscono però che le lodi non sono giustificate; gli effetti sono che non solo perdono fiducia in chi le fa, ma perdono la fiducia in sé stessi, oppure crescono con la convinzione delirante di essere già perfetti e che non abbiano obiettivi difficili da raggiungere, che per avere risultati basti dare un segno di buona volontà all’ultimo momento, abbozzare un sorriso interessato al posto dell’indifferenza. Già questi sarebbero problemi, eppure sarebbero inferiori a quelli da affrontare nel momento in cui l’alunno uscisse dall’ambiente scolastico protetto nel mondo reale in cui gli errori non vengono affatto ignorati. Il senso di onnipotenza generato da un continuo encomio non meritato diventerebbe risentimento contro la società che non offre pasti gratis.
La pedagogia attiva ha sempre rifiutato la valutazione perché rappresenterebbe un incentivo esterno da cui sarebbe ostacolato l’interesse intimo per l’apprendimento, e perché creerebbe competizione e gerarchie. Entrambi i motivi contengono gravi errori: è un errore credere che il timore del giudizio altrui, tanto più di un giudizio esperto, annulli la motivazione interna; in realtà il giudizio altrui è una motivazione che rafforza quella interna e la loro cooperazione consente di raggiungere risultati molto migliori di quelli accessibili al solo interesse personale. È un errore altrettanto grave il rifiuto della competizione e della gerarchia sulla base dell’ideologia ugualitaristica. In realtà solo l’uguaglianza delle opportunità soddisfa il criterio della giustizia tra gli individui e ne stimola la creatività, l’uguaglianza di risultato mortifica il merito e genera una indifferenza ai risultati che si risolve nel degrado generale della società.

5) «Si impara sbagliando, provando e riprovando finché la conoscenza smette di essere teorica e diventa capacità applicativa, padronanza, competenza concreta».
Il disprezzo tipicamente pedagogico della teoria genera un’altra falsa antitesi, quella tra teoria, che rappresenterebbe il regno delle tenebre, e l’applicazione, sarebbe a dire il regno della luce. Ma è facile mostrare che questa antitesi a) è falsa, oppure, peggio, b) dà la preferenza al momento soltanto meccanico ed esecutivo.
a) Nessuna teoria è conosciuta con la semplice notizia delle sue definizioni. La matematica, per esempio, non è esaurita dalla conoscenza dei suoi assiomi. Essi, anzi, sono solo i presupposti del sistema: si presentano all’inizio, ma in realtà sono ricavati per via analitica dai teoremi e dalle loro dimostrazioni già esistenti. I teoremi, però, non sono proposizioni analitiche, sono soluzioni di problemi; il loro senso più profondo si svela perciò non nella loro enunciazione, né nella loro dimostrazione, ma nel loro uso per la risoluzione di problemi più particolari. Per esempio, il teorema di Pitagora risolve universalmente, cioè una volta per tutte, il problema di determinare il rapporto tra ipotenusa e cateti del triangolo rettangolo in generale. L’applicazione del teorema ai triangoli particolari non gli è dunque esterna, ma ne manifesta l’intima natura. Ne segue che risolvendo un problema particolare, il teorema non cambia natura, non cessa di essere teorico per diventare pratico. Il prof. Novara sbaglia dunque a sostenere che la padronanza inizi quando la conoscenza cessa di essere teorica, perché, al contrario, la teoria è essenzialmente soluzione di problemi (propriamente è la risposta alla domanda perché) e la sua applicazione è non la sua cessazione ma la sua realizzazione positiva.
b) Come si è visto, la teoria comprende un suo momento applicativo, perché essa non è fatta solo di enunciazioni dogmatiche, i principi, ma di teoremi che sono sempre soluzioni di problemi. Ma le teorie scientifiche non sono soltanto soluzioni di problemi teorici, esse non hanno un’applicazione solo teorica. Oltre a essere contemplazione della realtà essenziale, la scienza è anche la base della trasformazione tecnica della realtà. Applicata alla realtà empirica, essa consente alla tecnologia di costruire macchine che facilitano il lavoro e ne moltiplicano la produttività. Nell’applicazione tecnica si rompe la continuità che si conserva nell’applicazione teorica, e si verifica la frattura tra lavoro intellettuale, quello dello scienziato e dell’ingegnere, e lavoro esecutivo, quello di chi, sprovvisto di conoscenza teorica, sovrintende al funzionamento di una macchina che non saprebbe costruire – non nel senso che chi dispone di conoscenza teorica non disponga anche di conoscenza tecnica (chi costruisce programmi li sa usare, di solito molto meglio, di chi li usa soltanto), ma che si può disporre di una conoscenza tecnica soltanto esecutiva, priva di conoscenza teorica, priva cioè della consapevolezza del perché. Per quanto primitivistica e fuori dal mondo, l’espressione di sollievo del prof. Novara per il cessare della teoria e l’inizio della conoscenza applicativa e concreta non è solo un suo errore personale, ma deriva dal primitivismo rousseauiano, che in Dewey si è attenuato, senza però annullarsi, in un ruralismo nostalgico. Con una buona dose di populismo romantico, Dewey crede che la scienza nasca non dalla soluzione di problemi teorici, ma dal lavoro quotidiano del popolo, quindi dai contadini e dagli artigiani; le scuole progressiste, che auspica, emarginano l’insegnamento teorico e sono basate su lavori contadini e artigiani non tanto per insegnare un mestiere ai ragazzi (anche se già dagli anni Trenta esse, a dispetto di Dewey, si ridussero proprio a questo) quanto perché il lavoro esecutivo rappresentava per lui il percorso didatticamente più facile per l’acquisizione delle conoscenze e dell’habitus scientifico.
Il controsenso di voler insegnare la teoria, cioè il perché delle cose, con attività esecutive il cui svolgimento consente di ignorare il perché delle cose, ha un movente ideologico: il socialismo (inteso come ugualitarismo non solo delle opportunità ma anche dei risultati) non consente a Dewey di accettare la frattura del lavoro esecutivo dal lavoro intellettuale e lo obbliga a condannare il secondo come lusso dell’aristocrazia parassitaria europea e ad attribuire al primo esattamente la finalità che esso esclude. L’applicazione del controsenso antiteorico nella scuola non può che esserne la distruzione. Dewey criticò la deriva professionalizzante che la scuola americana aveva preso per il rozzo impulso del suo allievo Kilpatrick, ma non capì che quella deriva era l’esito naturale della sua contraddizione di conseguire il fine teorico con un mezzo non teorico. Il prof. Novara, che dovrebbe essere informato sul disastro della scuola americana per effetto della sua impostazione attivistica, che dovrebbe essere sensibile al fatto che il controsenso di Dewey è comunque superiore alla coerenza del rozzo attivismo di Kilpatrick, si schiera senza remore per quest’ultimo, e nella teoria vede soltanto una perdita di tempo.

6) «Si impara con l’insegnante che fa da regista che non vuole stare al centro e lascia sempre il protagonismo ai suoi alunni predisponendo più che disponendo».
Come soluzione della falsa antitesi tra scuola centrata sull’alunno e scuola centrata sull’insegnante, la pedagogia maieutica del prof. Novara propone il modello del gouverneur di Rousseau. La raccomandazione che l’insegnante si ritragga dietro le quinte dopo aver predisposto l’ambiente di apprendimento implica una fiducia così sconfinata nei bambini, da suscitare perplessità a un livello già intuitivo. La dimostrazione di quanto sia assurda la fantasia del protagonismo degli alunni deve essere però impostata su un piano direttamente filosofico e richiede un po’ di pazienza.
La scuola sollecita il bambino al salto dall’apprendere naturale e inconsapevole all’apprendere teorico e consapevole. Giocando e imitando come fanno gli animali superiori, il bambino impara spontaneamente ciò che gli animali superiori sanno fare: orientarsi, muoversi, interpretare le espressioni dei suoi simili, tra le quali il linguaggio dei genitori, che di fatto è artificiale, ma che il bambino impara naturalmente in virtù di una predisposizione genetica. Poiché capire una parola significa conoscere almeno un genere in cui essa sia sussunta come specie, il bambino acquisisce, insieme al linguaggio materno, un’enorme quantità di conoscenze, ma in modo inconsapevole, rapsodico. La scuola rappresenta il salto dalla modalità di apprendimento inconsapevole a quella consapevole, dall’intuizione alla teoria: una modalità non più giocosa, ma, almeno dapprima, faticosa, non più imitativa, ma logica, non più spontanea, cioè guidata dalla natura, ma guidata da un esperto capace di tramandare le teorie ereditate dal passato. La fatica scolastica, che il pedagogista imputa in definitiva alla crudeltà dell’insegnante, è invece effetto del genere di conoscenza, «teorica», «astratta», che la scuola trasmette. Il primo contenuto dell’insegnamento scolastico verte infatti sulla scrittura, non perché essa sia più vicina al mondo del bambino; è infatti una tecnica inventata solo 5000 anni fa e fino a 500 anni fa diffusa in piccole minoranze di pochi popoli, di cui nessun bambino possiede quindi la predisposizione genetica; si inizia dalla scrittura perché è il mezzo che esalta il potere del linguaggio verbale di conservare e trasmettere conoscenza teorica, perché è la porta d’accesso al mondo della teoria che per la sua forma, logica, non intuitiva, è ancora estraneo al bambino.
Questo salto nella modalità di apprendimento è necessario, dicevamo, per innalzare il bambino a un nuovo tipo di conoscenza, la conoscenza teorica. A differenza della conoscenza sensibile, che riguarda gli oggetti singoli e offre un mondo a prima vista casuale, la conoscenza teorica riguarda le essenze, vale a dire gli aspetti degli oggetti singoli che si mostrano durevoli, quindi ciò che i singoli hanno di necessario, la loro soggezione a leggi. Per esempio: questo (singolarità sensibile collocata nello spazio e durevole nel tempo) è un uomo (essenza, propriamente una specie, ossia tutte le leggi a cui quest’uomo obbedisce). Mentre la singolarità sensibile può essere indicata, un’essenza è un’astrazione, una specie sussunta sotto i suoi generi. Ma le essenze stesse diventano intuitive attraverso i segni. Le essenze astratte sono non oggetti sensibili, ma, come significati delle parole, acquisiscono una manipolabilità persino superiore a quella degli oggetti sensibili. Benché abbiano un rapporto arbitrario con il suono che li veicola, fissatosi il rapporto, i significati sono conoscibili attraverso i rapporti necessari con altre parole significanti, cioè attraverso le definizioni. Dunque le parole sono nodi di sistemi linguistici  nei quali si manifesta la necessità del reale, nei quali la nostra esperienza cessa di essere un insieme infinito di casualità e si mostra semplificata e regolata, cioè spiegabile e prevedibile.
L’astrazione per cui si salta dal sensibile all’essenziale non è in alcun modo descrivibile nella maniera empiristica, come abbandono del certo e dell’oggettivo e salto nella fantasia, al contrario è l’abbandono del casuale e il salto nel necessario, salto che l’uomo, l’uomo soltanto, ha compiuto attraverso il linguaggio e il suo potere di rendere intuitive le essenze. Soltanto chi ha effettuato questo salto è in grado di rivolgersi all’esperienza in modo intelligente, sapendo cioè discernervi l’essenziale dal casuale, sapendo scorgervi problemi da risolvere anziché una congerie di dati indifferenti. Il compito dell’insegnante consiste dunque non nel consentire agli alunni la dispersione nell’esperienza, ma nello spingere gli alunni oltre il sensibile-concreto, nel mondo dell’astrazione, cioè nel sistema linguistico delle essenze in cui si rivela la necessità delle cose.
Che il prof. Novara raccomandi agli insegnanti di predisporre un ambiente e di ritrarsi, così da dare libero spazio al protagonismo degli alunni, dimostra che gli restano estranei il significato e l’importanza dell’astrazione e la connessione tra linguaggio ed essenze. Il ritrarsi dell’insegnante significa l’eclissi delle essenze e il regresso degli alunni nel sensibile-concreto, significa il suicidio della scuola. Una raccomandazione così inopportuna e dalle conseguenze così gravi non è il frutto della tenerezza del prof. Novara per i bambini, ma dell’incapacità della pedagogia moderna di superare le aporie dell’empirismo di Locke. Costui attribuì l’astrazione che rileva le essenze non all’esperienza collettiva, ma all’arbitrio individuale; il risultato dell’astrazione gli apparve dunque non quello che esso è in verità, il concentrato degli aspetti durevoli delle cose rilevati dall’esperienza comune e che l’individuo impara imparando le parole, ma un costrutto arbitrario dell’individuo ancora più casuale delle cose sensibili, un’essenza nominale destituita di ogni oggettività e incomunicabile. Chi credesse che l’individuo non impari, ma crei le parole e i loro significati, non potrebbe né credere alla loro oggettività né accettare la possibilità di una conoscenza teorica. La pedagogia moderna, attraverso l’ammirazione sconsiderata che sulla scia di Voltaire l’illuminismo e Rousseau tributarono all’empirista inglese, consiste nell’ignorare la natura della conoscenza teorica e nel credere, alla maniera di Dewey, che si possa apprenderla naturalmente, oppure, nel modo di Kilpatrick, nel suo rozzo disprezzo. L’insegnante-regista è l’ultima versione di questo interminabile errore.. La pedagogia moderna, attraverso l’ammirazione sconsiderata che sulla scia di Voltaire l’illuminismo e Rousseau tributarono all’empirista inglese, consiste nell’ignorare la natura della conoscenza teorica e nel credere, alla maniera di Dewey, che si possa apprenderla naturalmente, oppure, nel modo di Kilpatrick, nel suo rozzo disprezzo. L’insegnante-regista è l’ultima versione di questo interminabile errore.

7) «Si impara divertendosi, se la didattica sorprende, è creativa, imprevedibile, diventa scoperta continua».
La proposizione nasce dall’ignorare la natura della conoscenza teorica e il compito della scuola. Se l’alunno possedesse nel suo genoma le strutture che rendono possibile la scrittura e la conoscenza teorica, allora queste potrebbero essere acquisite nella maniera infantile, con il gioco e l’imitazione. L’evidenza è in contrasto così violento con questa visione naturalistica, che il suo successo può essere spiegato solo in base all’inclinazione ideologica: essa è la ribellione all’autorità magistrale percepita come cardine di un mondo strutturato in gerarchie, da abolire in vista dell’uguaglianza. L’esigenza ribelle si traduce nel disprezzo verso l’autorità dell’insegnante che, se è autentica, poggia soltanto sulla sua conoscenza, e in progetti di riforma scolastica che lo rendano un accessorio del processo di apprendimento. Il desiderio di emarginare l’insegnante obbliga a rappresentarsi l’apprendimento come un’attività di cui sono protagonisti gli alunni. Poiché questi sono sprovvisti di conoscenza teorica, ma sono reduci dall’acquisizione della conoscenza intuitiva, l’apprendimento scolastico quale lo immagina la pedagogia emargina la prima (che Geary chiama apprendimento secondario) e prende l’aspetto della conoscenza intuitiva (che Geary chiama apprendimento primario). Poiché la conoscenza intuitiva è quella le cui strutture sono già presenti nella genetica di ognuno, come eredità dell’evoluzione della specie a cui appartiene, l’apprendimento intuitivo consiste in un passaggio facile e «col vento in poppa» di quelle strutture dalla potenza all’atto, che si può effettuare in forma gioiosa, «divertendosi».
Poiché esige che la scuola poggi esclusivamente sull’apprendimento intuitivo, il punto 7) della pedagogia maieutica esige che gli apprendimenti teorici siano acquisiti nelle modalità contrarie alla loro acquisizione, che siano acquisiti per finta, insomma che non siano acquisiti. Che la scuola diventi l’ambiente destinato all’apprendimento primario, che essa ristagni nella conoscenza intuitiva e rinunci alla conoscenza teorica ha come conseguenza che la scuola diventa il contrario di sé stessa.
A volte di un’opera si dice che è scolastica, intendendo che è un’applicazione pedissequa di regole tramandate, a scopo di esercitazione, senza originalità. Sbaglierebbe però chi volesse perseguire l’originalità senza scuola. Questa trasmette non il passato, ma ciò che del passato resta valido. Solo la sua acquisizione può mettere in opera un’originalità all’altezza delle opere migliori. Viceversa, la creatività spontanea, autodidatta, senza maestro o con un cattivo maestro, sarebbe costretta ad apprendere per imitazione dalle opere più semplici e non andrebbe mai al di là del dilettantismo, di una creatività imitativa tecnicamente sguarnita e dispersa in facili effetti.
La pedagogia non se ne preoccupa, perché essa stessa ha un carattere dilettantistico, essa stessa è imitazione della scienza e non scienza. L’invito del prof. Novara al dilettantismo nasce da un’autorevolezza che ignora la storia della pedagogia, le differenze filosofiche elementari e i risultati più solidi della ricerca scientifica. Quanto a questi ultimi, negli anni Cinquanta del secolo scorso Miller scoprì che la mente non può affrontare più di 5-7 elementi contemporaneamente; questa sfera limitata dell’attività mentale è oggi chiamata memoria operativa. I limiti della memoria operativa hanno un’importante conseguenza sulla didattica: non è possibile pensiero critico se gli elementi formali del linguaggio, della scrittura, della matematica non sono automatizzati. Se non esegue in modo automatico le regole grammaticali, la decodifica del grafema in morfema, la scrittura, le somme e le moltiplicazioni, se è impegnata a eseguire i compiti elementari, la mente non può risolvere i problemi di ordine superiore, non può esercitare il pensiero critico. Gli obiettivi della scuola sono dunque due: consentire agli alunni la padronanza delle operazioni elementari e l’acquisizione di un’estesa conoscenza che si riflette in un esteso vocabolario. Né il primo né il secondo obiettivo possono essere raggiunti nelle modalità divertenti dell’apprendimento primario, che il prof. Novara ha in mente. Mentre però l’acquisizione della conoscenza è un processo relativamente rapido, ed è compatibile con la creatività e la sorpresa – sì, proprio le odiate conoscenze possono essere sorprendenti e interessanti –, «si acquisisce la padronanza delle operazioni formali solo dopo molta esercitazione» (Hirsch). Ne segue che la scuola autentica, orientata alla teoria, è interessante e sorprendente, ma deve comunque esigere dagli alunni impegno e pazienza nelle esercitazioni necessarie all’esecuzione automatica delle abilità elementari. Anche in questo caso, non c’è antitesi tra interesse e lavoro: la scuola deve essere sempre entrambi.

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