Morte e resurrezione della pedagogia progressista americana

Negli Stati Uniti degli anni Sessanta si affermò la tendenza a superare il principio dell’uguaglianza delle opportunità in direzione dell’uguaglianza dei risultati. La tendenza ebbe come risultato il riaffermarsi della pedagogia progressista nelle scuole dopo la sua grave crisi negli anni Cinquanta.

Negli Stati Uniti degli anni Sessanta si verificarono fenomeni di importanza decisiva nella vita attuale dell’Occidente. La lotta secolare contro le discriminazioni razziali ancora annidate nella legislazione si chiuse con successo e da quel momento in poi la segregazione, che privava gli afro-americani dei diritti personali e politici, diventò illegale. Ma l’uguaglianza formale appena raggiunta non eliminò la disuguaglianza reale, né doveva farlo. L’uguaglianza formale, ossia l’uguaglianza delle opportunità, non è, infatti, una versione provvisoria e più moderata dell’uguaglianza reale, ma le è diametralmente opposta in virtù del rapporto opposto che l’una e l’altra intrattengono con l’individuo e con il suo merito.

Il merito non è altro che il diritto dell’individuo a essere compensato per una sua opera di valore universale (ossia diretta anche, o solo, al vantaggio altrui). Mentre il principio dell’uguaglianza formale esalta il merito e minimizza gli ostacoli frapposti alla sua ricompensa dai privilegi sociali, con lo scopo ultimo di rendere socialmente benefici il talento e il lavoro individuale, l’uguaglianza reale, o uguaglianza dei risultati, annulla non solo le differenze naturali e sociali, ma lo stesso merito individuale. Essa deve abolirlo assieme alle altre differenze, perché il merito non realizza una società ugualitaria, ma esalta le differenze individuali di talento naturale e di impegno volontario.

Abolire il merito mette però fine anche all’individuo. Dall’eliminazione del merito individuale segue infatti la fine della disposizione individuale a operare in forma universale. Poiché il lavoro stesso, su cui si basa ogni società umana, avendo forma sociale, è universale, un sistema sociale realmente ugualitario, che compensi senza tenere conto del merito, ma che non possa fare a meno del lavoro, deve ricorrere alla costrizione esterna al lavoro, vale a dire deve abolire la libertà individuale e tornare alla servitù. La servitù universale è la conseguenza dell’ugualitarismo reale. Trotskij, che fu il primo a capirlo, in Terrorismo e comunismo scrisse: «L’amore per il lavoro non è affatto una caratteristica innata […]. L’introduzione del servizio del lavoro obbligatorio è impensabile senza l’applicazione, a un grado più o meno alto, dei metodi della militarizzazione del lavoro».

Negli Stati Uniti, dunque, la fine delle discriminazioni negative significò dapprima l’uguaglianza nella sfera ristretta, seppure essenziale, dei diritti personali e politici. Ma agli ex discriminati non bastò. Il ricordo ancora bruciante delle ingiustizie subite, il permanere di condizioni sociali umilianti li spinsero a rivendicare discriminazioni in loro favore: lo Stato federale doveva attuare «azioni affermative» in modo da ridurre o annullare le disparità tra i diversi gruppi sociali rilevate per via statistica. Le rivendicazioni degli afro-americani ebbero successo e il loro successo stimolò analoghe rivendicazioni di altri gruppi che lamentavano discriminazioni ai loro danni: le femministe, le minoranze etniche in generale, le minoranze sessuali, i disabili. I rappresentanti di questi gruppi chiesero allo Stato federale «azioni affermative» perché si conseguisse un’uguaglianza reale con i gruppi che occupavano posizioni di prestigio e di potere. Nella condiscendenza verso queste rivendicazioni lo Stato federale americano ebbe lo strumento ideale per erodere l’autonomia degli Stati federati e delle istituzioni locali. Questo spiega perché dagli anni Settanta in poi tutte le amministrazioni, quelle repubblicane non meno di quelle democratiche, diventarono permeabili ai rappresentanti del femminismo e delle minoranze e soddisfecero tutte le loro richieste di azioni affermative.

Gli effetti delle iniziative federali furono complessi. Non ci fu l’atteso sconvolgimento dei costumi: si scoprì che molte delle differenze tra i gruppi rilevate statisticamente erano l’effetto, più che di effettive discriminazioni, di interessi e di scelte individuali. Ci furono però altri effetti che si sono mostrati durevoli. 1) Sostenendo che le scelte individuali fossero condizionate da consuetudini discriminanti, si denunciarono non solo le discriminazioni effettive, già sanzionate dal sistema giuridico, ma i condizionamenti impliciti connessi a qualunque modo di dire e di fare; la percezione individuale divenne così il fondamento della realtà e si organizzò un sistema di permalosità universale a caccia di ogni possibile offesa all’autostima, che assoggettò la libertà di espressione a gravi limiti. 2) Che si attribuisse allo Stato il compito di intervenire in favore dei gruppi che lamentavano discriminazioni ne fece un loro strumento e ne allargò la sfera di intervento in questioni solitamente private. 3) Il vittimismo dei presunti discriminati portò con sé la colpevolizzazione collettiva dei presunti privilegiati. 4) Il principio del merito individuale cedette al principio dell’uguaglianza reale: i posti di prestigio e di potere dovevano spettare, più che ai meritevoli, ai rappresentanti dei diversi gruppi sociali in quote proporzionali alla loro numerosità nella popolazione.

La scuola fu investita in profondità da questi cambiamenti dall’alto: sui libri di testo fu individuato come stereotipo e ne fu espunto tutto ciò che desse adito a percezioni di atteggiamenti discriminatori; furono uguagliate le proposte didattiche dirette ai ragazzi e alle ragazze; soprattutto, il principio del merito si indebolì e diede libero campo al principio dell’uguaglianza di risultato. Nacquero così sistemi di calcolo per oscurare i divari tra i risultati delle prove dei diversi gruppi sociali, si scatenò l’inflazione dei voti e si affermò la promozione generalizzata.

Al movimento verso l’uguaglianza reale portato avanti dallo Stato si accompagnò dal basso il movimento verso lo stesso obiettivo di cui furono protagonisti gli studenti delle università e delle scuole superiori. Alle uguaglianze già sollecitate dallo Stato, gli studenti, mentre lo contestavano senza capire di avervi il migliore alleato, ne aggiunsero una nuova, quella che nasce dal contrasto generazionale tra giovani e adulti, e si prolunga nel rapporto tra discenti e docenti, l’uguaglianza che mira all’abolizione dell’autorità magistrale.

I docenti, e lo Stato di cui erano funzionari, impegnati essi stessi in una trasformazione in senso ugualitario, non si opposero alla rivendicazione studentesca; non osservarono che l’autorità del docente non è un privilegio contro la libertà degli studenti, ma nasce dalla sua competenza disciplinare, è cioè un riflesso dell’essenzialità delle conoscenze da trasmettere, discende anzi dal diritto degli studenti di acquisire, attraverso il docente, l’eredità scientifica e culturale: poiché hanno diritto a essere istruiti nella lingua dotta, nella cultura e nelle scienze, gli studenti hanno diritto a docenti autorevoli, che non si perdano a confrontare le proprie opinioni con quelle degli studenti, ma trasmettano loro il contenuto teorico e l’atteggiamento scientifico. La contestazione studentesca dell’autorità magistrale, non fronteggiata né dai docenti né dalle autorità accademiche e scolastiche, causò il ritorno di una pedagogia che negli anni Cinquanta era sembrata ormai esaurita, quella progressista, secondo cui l’educazione e l’istruzione sono in realtà uno sviluppo naturale della mente del discente, che dunque non ha bisogno né di nozioni né di docenti che le trasmettano.

La scuola americana ne aveva subito l’invasione a partire dagli anni Venti. Diffusa dal Teachers College, la facoltà magistrale guidata da Dewey e Kilpatrick presso la Columbia University di New York, essa aveva imposto curricoli scolastici di ispirazione rousseauiana e romantica, che si affidavano all’evoluzione spontanea del bambino ed evitavano la trasmissione diretta delle conoscenze e delle abilità teoriche. È così che nell’America dagli anni Venti agli anni Cinquanta l’istruzione secondaria di massa trascurò quasi del tutto l’alfabetizzazione e le materie disciplinari, e si dedicò ai problemi quotidiani degli studenti, quelli elencati dai Cardinal Principles del 1918: 1) salute, 2) padronanza dei processi fondamentali, 3) appartenenza responsabile alla famiglia, 4) professione, 5) cittadinanza, 6) uso responsabile del tempo libero, 7) carattere etico.

Negli anni Cinquanta i paradossi di una scuola analfabeta diventarono evidenti e suscitarono critiche acute come quelle di Bestor, di Lynd, di Woodring. Esse, insieme alla paura di essere raggiunti dall’URSS dopo il lancio dello Sputnik, umiliarono l’autorità della pedagogia progressista e diffusero nell’opinione pubblica americana l’esigenza che la scuola ritornasse ad alfabetizzare e a trasmettere le materie disciplinari.

La falsificazione subita negli anni Cinquanta non mise però fine alla pedagogia progressista. Erede di Rousseau, della sua condanna della civiltà e del suo progetto di un’educazione naturale che proibisca all’adulto la guida diretta del bambino, essa nasce da un rifiuto radicale della realtà, che ne ignora le smentite e non teme falsificazioni. Appena il rifiuto radicale dell’ordine sociale riemerse dalle convulsioni emancipatorie degli anni Sessanta, la pedagogia progressista, che da sempre contesta il primato della conoscenza teorica e l’autorità dell’insegnante ed esalta l’attivismo e l’autonomia del discente, resuscitò in forma ancora più aggressiva e, dopo aver conquistato il sistema scolastico statunitense, dagli anni Ottanta si diffuse al sistema scolastico europeo. Con le conseguenze che vediamo.

Nota bibliografica

Chi volesse approfondire le vicende storiche esposte nell’articolo può consultare con profitto il libro bellissimo di DIANE RAVITCH, The Troubled Crusade, Basic Books, New York 1985, purtroppo non ancora tradotto in italiano, e il libro fondamentale di E. D. HIRSCH, Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo, Petite Plaisance, Pistoia 2024.

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