“Nuovisti” per modo di dire
Pochissimi, anche tra gli insegnanti, sanno che la quasi totalità delle pratiche promosse come novità salvifiche nella scuola di oggi non sono che ricicciamenti perpetui o tardivi di pratiche ed idee che hanno almeno un secolo di vita
Qui al Gessetto utilizziamo l’espressione “nuovisti” per connotare gli insegnanti, gli educatori, i formatori e i pedagogisti che vivono il proprio lavoro nella perpetua ricerca del nuovo, profondamente convinti che la scuola debba sempre “tenere il passo” della società che cambia, cambiando a sua volta in tutto. La nostra scelta espressiva, tuttavia, è dettata da una necessità quasi indicibile: anche tra i non “nuovisti” sono davvero pochi coloro che conoscono la vera storia dell’atteggiamento “nuovista” in pedagogia, e di come la sua proposta sia ripetitiva, cocciuta, radicata in un naturalismo, in un romanticismo ormai vecchi di secoli. Se criticassimo i “nuovisti” chiamandoli “antiquati” quasi nessuno ci capirebbe…
Eppure è così. La stragrande maggioranza delle idee “nuoviste” oggi correnti nelle scuole italiane ed europee, con tutto il loro apparato di tecniche didattiche (peer to peer, cooperative learning, flipped classroom), di pratiche scolastiche (progetti, educazioni, pcto) di metodi più o meno mirabolanti, non ha assolutamente nulla di nuovo. Si tratta quasi sempre di rifritture, di riproposizioni tardive e provinciali di idee passate, lontane nel tempo. La presunta bontà, l’efficacia di queste idee è lì da vedere, da studiare con attenzione proprio nei paesi dove esse hanno trovato applicazione prima che da noi.
Il teorico dell’educazione e critico letterario statunitense Eric Donald Hirsch, nel 1996, ha pubblicato un testo che riteniamo fondamentale ai fini della comprensione di questi meccanismi di pseudo-innovazione culturale (The school we need and why we don’t have them, Anchor books, New York). Non possiamo che incoraggiarne la lettura, anche perché è avvenuta la pubblicazione della traduzione italiana dell’intero documentatissimo studio, a cura di Fausto Di Biase e di Paolo Di Remigio, nostro collaboratore al Gessetto (Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo, Editrice Petite Plaisance, Pistoia, 2024).
A titolo di puro esempio, riporto un breve estratto dall’utile glossario conclusivo dell’opera, nel quale Hirsch delinea una pratica ormai diffusissima anche nelle scuole italiane, purtroppo:
«Metodo dei progetti». Un’espressione usata per descrivere la forma naturalistica di insegnamento ideata da W. H. Kilpatrick agli inizi del movimento dell’educazione progressista. Il suo articolo intitolato «Il metodo dei progetti» (1918) fu l’articolo più ampiamente distribuito sull’istruzione americana che sia apparso in quell’epoca. Secondo il metodo progettuale, si devono abbandonare le classi organizzate per materie disciplinari a favore di progetti «olistici», naturali, che permetterebbero agli alunni di ottenere le abilità vitali di cui hanno bisogno, lavorando in cooperazione con i loro compagni. Il metodo si presentò in opposizione all’istruzione tradizionale per materie disciplinari. Aboliva il modello della lezione-e-interrogazione, le prove, i voti e le ripetizioni. Il metodo era basato su una fede romantica nella superiorità dell’impostazione naturale su quella artificiale nell’apprendimento. Affermava, scorrettamente, di essere basato anche sugli ultimi risultati della psicologia. In seguito, gli osservatori hanno appurato che il metodo dei progetti è il modo meno efficace della pedagogia in uso nelle scuole americane. Il metodo incontrò una critica crescente, il termine «metodo dei progetti» cadde in disgrazia. Ma la terminologia si trasformò, e la pratica stessa rimase in forme differenti e sotto nomi differenti, come «apprendimento per scoperte», «apprendimento naturale», «apprendimento olistico», «apprendere facendo» e «apprendimento tematico».
[tratto da: E. D. Hirsch, The schools we need and why we don’t have them, Anchor Books, 1996, New York, p. 264]