Parole parole parole: pericolose

La trasmissione radiofonica ‘Tutti in classe’ prepara il terreno a tutti i novatori ed avanguardisti della scuola, che vogliono sempre più lontana dal modello trasmissivo, legato al sapere, ai libri, per spingerla (vagamente) verso il ‘territorio’…

Lunedì undici novembre del 2024, chi fosse sintonizzato su Radiounorai dalle 10.30 alle 11.00 ha avuto la ventura di godere di un saggio esemplare, di un campione purissimo del trionfalismo autoreferenziale autocelebrativo che troneggia da qualche lustro nel mondo della scuola. Il decennale dalla nascita del Manifesto delle Avanguardie educative, filiazione molto fiera e attiva di INDIRE, è stata la degna cornice, come si suol dire, per festeggiare in pompa magna l’autoproclamato mondo dell’innovazione didattica: l’evento è avvenuto nientemeno che davanti al pubblico radiofonico nazionale, con una puntata apposita del programma Tutti in classe, condotto dalla giornalista RAI Paola Guarnieri, la quale, fin da inizio trasmissione, ha rivelato al mondo la sua natura di testimone e narratrice embedded nella «costellazione dell’innovazione educativa». La conduttrice ha infatti ricordato a tutti di essere dedita da anni a seguire passo passo i vagiti del Movimento degli avanguardisti (li chiamerò così da qui in avanti per brevità). Ma non basta: la Guarnieri ha raccontato anche che, quando lei stessa veniva a contatto in questi anni recenti con scuole che «avevano dei punti fermi di innovazione», scopriva poi immancabilmente che tutte queste scuole avevano aderito a suo tempo al Manifesto delle avanguardie educative di INDIRE.
Insomma: non c’è altro orizzonte, altra via di salvezza per la scuola che la gallery di pratiche didattiche pensata dal cervello di INDIRE e trasmessa poi alle scuole, come dogma pedagogico e di operatività didattica: questo il messaggio fondamentale della puntata.
Tutto l’impianto della trasmissione è stato di conseguenza quello di presentare agli ascoltatori una sorta di marcia inarrestabile di pratiche educative, volute da ispiratori precisi e fatte proprie a cascata, in questi dieci anni, da un numero sempre maggiore di scuole sul territorio; è stato proprio usato il termine «contagio», a significare un influsso benefico scaturito come un big bang da un punto di partenza, esaltato come una vera e propria via di salvezza: una ciambella di salvataggio gettata ad un sistema scolastico altrimenti condannato – questa la diagnosi – al fallimento, nel segno dell’arretratezza e dell’incomunicabilità tra docenti, trasmissivi di un sapere trito e inutile, e discenti dei nostri giorni, passivi e indifferenti al sapere scolastico.
La catena di trasmissione dell’innovazione, partendo dagli avanguardisti, ha trovato indispensabile terreno fertile nella «meravigliosa legge dell’Autonomia scolastica»: questo ha voluto ricordare agli ascoltatori Elisabetta Mughini, prima ospite della trasmissione, Direttrice di ricerca in INDIRE e coordinatrice uscente di Avanguardie educative. E quando la Guarnieri ha chiesto alla terza ospite, Gabriella Benzi, Dirigente Scolastica dell’Istituto comprensivo di Govone in provincia di Cuneo, quale sia l’ingrediente necessario e insostituibile affinché si producano le trasformazioni nel sistema scolastico, la DS ha risposto senza indugi che cosa? La cultura e l’empatia dei docenti? Acqua. Il confronto pedagogico e didattico maturato tra i docenti nei Consigli di classe e nei Collegi docenti, organo sovrano dell’elaborazione didattica di una scuola? Ancora acqua. No: la risposta è stata «la governance, cioè il DS». E la Guarnieri stessa, a fine trasmissione, dopo una rapida carrellata – dieci minuti su trenta susseguiti al quadro ideologico autocelebrativo – di esempi di innovazione didattica con passerella di rispettivi Dirigenti chiamati a raccontare la progettazione della loro scuola (carrellata che, come nel caso di un IC di Reggio Calabria, non è uscita dalle solite esperienze standardizzate di outdoor education, debate, laboratori di educazione ai media con annessi prodotti di realtà) ha sentenziato: tutto questo è possibile «a patto che ci sia qualcuno che insieme agli insegnanti e prima degli insegnanti abbia le idee chiare e ragioni da leader: il Dirigente scolastico».
Insomma abbiamo capito, per l’ennesima volta e stavolta in un programma di Radiorai, cosa sono l’innovazione didattica e la trasformazione del sistema scolastico per INDIRE e per i suoi fedeli seguaci: un’alleanza, avanguardista fin dal nome, tra pedagogisti e burocrati di un Ente pubblico governativo da un lato, e Dirigenti scolastici dall’altro. Docenti e studenti sono sotto e sullo sfondo, chiamati rispettivamente ad eseguire e a sorbirsi i prodotti pensati per loro.
Come questa impostazione, fondata sul proclamato concetto di leaderismo del DS sulla sua scuola (che puntualmente si materializza nella esclusiva presenza di Dirigenti scolastici in ogni trasmissione in cui si parli di scuola), sia compatibile con lo spirito democratico costituzionale della scuola repubblicana, e in particolare con l’art.33 della Carta, è domanda che dovrebbe sorgere spontanea a chiunque: ma tale domanda fa fatica a sorgere, e soprattutto non trova cittadinanza in questo tipo di trasmissioni. Questo è un dato di fatto costante.
Essendo però in parte consapevoli della possibilità della domanda, e trovandosi ancora imbevuti della retorica postsessantottina della scuola democratica che hanno respirato in gioventù, gli architetti del sistema, e quindi i loro corifei, si dovevano pure attaccare a qualcosa per salvare la faccia: e così eccoli che si affannano a salvarsi in corner, corredando questo impianto autoritario, fatto di una pedagogia a senso unico veicolata dall’alto, con una continua insistita precisazione, del tutto teorica quanto più fortemente proclamata, del fatto che il processo di innovazione didattica è aperto, per carità, ai contributi che vengono dal territorio stesso, cioè dalle scuole stesse. E quindi la seconda ospite, l’attuale coordinatrice degli avanguardisti, Jose Mangione, ha illustrato alla Guarnieri l’articolazione verticistica sì, ma reticolare e sinergica al contempo, della struttura burocratica messa in piedi in dieci anni: a partire dalle ventidue scuole adottanti il modello didattico INDIRE nel 2014, la ramificazione avviene sui territori con le scuole capofila (quelle che, stando alle parole introduttive della Mughini, «avevano esperienza di innovazione e hanno variato ciò che poi in INDIRE abbiamo scritto in Linee guida per l’implementazione di metodologie di innovazione didattica e organizzativa»), fino ad arrivare alle scuole polo (definite presidio, o sentinella territoriale) e, infine, alle scuole aderenti alla base. Ciliegina sulla torta: gli ambassador, ovvero dirigenti che, a detta della sintesi comunicativa della Guarnieri, «in qualità di ambasciatori diffondono e rafforzano la rete, facendone un sistema che cambi la scuola».
Fatta così salva, un po’ tirandola per i capelli, la clausola di democraticità, è però soprattutto un altro il concetto che sta veramente a cuore agli ideatori di questa macchina, e sul quale in trasmissione la conduttrice e le sue ospiti hanno insistito molto: la «messa a sistema delle innovazioni, il traguardo più difficile», ossia l’obiettivo fondamentale che l’innovazione didattica non sia più solamente frutto dello spirito di iniziativa episodico di un Dirigente e di un gruppo scelto di suoi docenti – non se ne esce, siamo sempre lì! – ma una rete di esperienze diffuse, trasmissibili da scuola a scuola e custodite in una sede centrale, poste a modello per analoghe esperienze in altre scuole. Infatti INDIRE, conferma la Mughini a commento, è «proprio il luogo, riconosciuto dalle scuole, presso il quale avviene una formalizzazione di quello che accade, e il primo passo della messa a sistema è quello di ricondividere con le altre scuole, il tutto grazie alla meravigliosa Legge dell’Autonomia scolastica».
Da questa dichiarazione si trae la conferma di quanto unico, articolato e coerente sia ormai il sistema della scuola italiana: quello che partendo dalla Legge sull’Autonomia pensata dal governo del centrosinistra e vergata nel 1999 da Berlinguer e Bassanini, si è poi via via precisato negli anni con ulteriori leggi, con Istituti ed Enti, con figure professionali.
Inevitabile a questo punto il giudizio apodittico, di assoluta lode, che gli stessi osti danno al loro vino: tutto quello che le scuole, sotto la benedizione di INDIRE, hanno in questi dieci anni ideato, praticato e messo in rete a partire dal loro «territorio» è esaltato come esempio perfetto di didattica attiva per le competenze, delle cui esperienze si dice immancabilmente, da parte del DS di turno a domanda del giornalista di turno, che gli studenti si sono rivelati entusiasti interpreti, dimostrandosi scopritori dei propri talenti e delle proprie motivazioni.

La Guarnieri, ad inizio programma, ha introdotto il complesso di azioni rientranti nell’alveo di INDIRE come «sperimentazioni scolastiche che sono andate crescendo e che sono oggi dei solidi modelli, efficaci e innovativi, applicati da centinaia di scuole con risultati innegabili». Non chiedete mai, cari pochi lettori del Gessetto, dove diavolo alberghi e da quali prove sia suffragata l’innegabilità dei risultati prodotti dalle innovazioni didattiche e dai corrispondenti progetti portati avanti dagli avanguardisti e dai loro adepti: essa è autoevidente, quindi questa è una domanda che non va mai fatta! Basti sapere, e ciò metta in fuga ogni dubbio, che se erano solamente ventidue le scuole «adottanti», ovvero le illuminate del 2014, oggi le scuole aderenti ammontano a mille e cinquecento novantasei! Un quarto del totale degli Istituti di ogni ciclo della scuola patria! Questo è l’unico dato numerico statistico che è stato detto in trasmissione. E questo deve tacitare i dubbiosi.
Venendo ora ad un piano di analisi comunicativa, che si proponga di misurare l’incidenza presso l’opinione pubblica che una puntata radiofonica come questa possa avere prodotto, emerge che il ruolo della Guarnieri è stato indubbiamente notevole, ai limiti dell’eroico: era quasi impossibile cercare di tradurre in un linguaggio comprensibile al pubblico radiofonico di persone normali le evoluzioni concettuali e il corredo lessicale partoriti fin dal 2014 dagli avanguardisti, rimasti inalterati negli anni come formula magica, e riprodotti tali e quali in trasmissione dagli ospiti festeggianti il compleanno di INDIRE e a loro volta festeggiati. La Guarnieri si è sforzata infatti di giustificare, di spiegare, di esemplificare, di riassumere e quindi di tradurre a un ampio pubblico concetti quali «connubio tra territorio e comunità educante», «implementazione di metodologie innovative», «Service learning» (perché l’English in pillole, pronunciato con vari accenti italo-mediterranei, è regola aurea degli avanguardisti). Il concetto di Service learning in particolare è stato focalizzato, come direbbero loro stessi: stimolata dalla Guarnieri, la prima ospite, ovvero la Dirigente INDIRE Elisabetta Mughini (presentata come memoria storica degli avanguardisti), ha precisato meglio tale concetto descrivendolo come un «quindi si fa esperienza di cittadinanza ed educazione nell’ambito del territorio e si torna a scuola carichi della scoperta che i saperi possono essere immediatamente usati e ritrasferiti verso la società e viceversa, e il territorio entra a far parte del nostro curricolo; per cui quando il ragazzo sa che l’acqua del proprio territorio è inquinata non lo fa per motivi di carattere disciplinare, ma restituisce al territorio quello che imparato e che cosa si può fare per modificare questo fenomeno e migliorare dei servizi”. Cosa capirebbe, da questo discorso, un profano che non sia avanguardista illuminato? Oseremmo dire nulla, e questo salverebbe il profano stesso. Ma la Guarnieri ha brutalmente quanto efficacemente tradotto questo concetto in un «la comunità scolastica impara mettendosi al servizio della comunità fuori dalle aule». Insomma, alla Guarnieri va il merito di aver fatto capire al pubblico il significato del fiume di parole della Mughini, nonché i caratteri dell’ideologia che vi sta dietro.
Noi che scriviamo qui siamo però docenti di scuola, e per motivi anagrafici abbiamo spesso frequentato, ormai quasi tutti, dei bei corsi pedagogici, a pagamento per migliaia di euro, prima o dopo avere vinto il concorso. Corsi pedagogici obbligatori, per diventare docenti a tutti gli effetti, imposti a noi dai governi di vario colore: chi di noi ha fatto una SSIS, chi un TFA, chi una manciata di CFU pedagogici, per essere ammessi a scuola dopo una laurea di per sé certamente insignificante – perché disciplinare – agli occhi delle avanguardie pedagogiche illuminate che di tali corsi erano e sono i custodi e i protagonisti. Non è certo un caso che proprio INDIRE sia l’ente al quale afferisce la rendicontazione che il docente in anno di prova, dopo l’ottenimento del ruolo, deve produrre ed inviare, prima di essere valutato dal Dirigente scolastico. Ebbene noi che da tali corsi siamo usciti, ben di rado estasiati e più spesso con un sorridente scetticismo, abbiamo appreso a leggere tra le righe dei discorsi confezionati da puntate come questa, e possiamo quindi smontarli, allo scopo di evidenziarne la volontà di destrutturazione di ogni idea di scuola come luogo promotore di istruzione pubblica. Il fiume di parole piovuto nella mezz’ora di Tutti in classe, cosa dice infatti, con enfasi solenne e con aria di soccorso premuroso ai giovani?
1) Che l’apprendimento è al servizio del territorio: quindi niente più sapere per il sapere, e quindi negazione del concetto, greco e occidentale, di pensiero e di filosofia. Un concetto che non era altro che amore per il sapere, privo di immediati riscontri pratici; un tipo di sapere dal quale derivano anche la Rivoluzione scientifica e il metodo scientifico, con buona pace degli innovatori che insistono sulla didattica del far fare cose agli studenti applicandoli alle discipline STEM;
2) che di cittadinanza ed educazione non si fa studio sui libri, magari frequentando buona letteratura o studiando storia e filosofia, ma si fa esperienza sul territorio, non è dato sapere come e per opera di chi;
3) che per rendere moralmente giustificabile il tempo dedicato alla scuola da parte di uno studente, occorre ribadire che lo scopo del suo stare a scuola non è disciplinare: il ragazzo cioè non studia più per motivi disciplinari, ovvero per imparare una materia di studio, ma per servire il territorio. E solo a questa condizione egli troverà un senso agli anni passati a scuola. Qui, come è evidente, entra in gioco il concetto di competenze, variamente declinato: altro grande mito prodotto in questi decenni dagli stessi centri di potere protagonisti della celebrazione di cui stiamo trattando;
4) che, soprattutto, si torna a scuola carichi di una scoperta: quindi pervasi da una sorta di entusiasmo, di infatuazione, di illusione, la cui natura fideistica emerge dall’aggettivo stesso: carichi. Ci vorrebbe un misuratore della carica risultante da progetti didattici, ma non l’hanno ancora inventato;
5) che una volta che si è acquisita la carica, lo studente (che ha studiato poco o nulla ma ha fatto esperienza di) è in grado, udite udite, di restituire al territorio le soluzioni al fenomeno, al problema dell’inquinamento delle acque, nel caso specifico esemplificato in trasmissione.
Cosa si può replicare di fronte a una tale sapienza operativa, attiva, miracolosa e risolutrice? Nulla, e infatti tiriamo avanti. Facciamo solo notare come questa impostazione pedagogica sottostante, che porta allo snaturamento della scuola da luogo di studio e di conoscenza a servizio per il territorio, vale indifferentemente, nelle dichiarazioni dei suoi fautori, per ogni grado di scuola: dalla primaria alla secondaria di primo grado alla secondaria di secondo grado, quindi fino ai licei. Anzi vale soprattutto per i licei, luogo in cui i docenti si ostinano ancora a dare dei 4 e a bocciare, arroccati a una didattica trasmissiva costituita da lezioni ancora troppo disciplinari e frontali. Non ci possiamo quindi stupire se, dopo dieci anni di questo messaggio, veicolato da ambienti paraistituzionali a prescindere dai governi in carica (almeno fino a quando non ci sarà una volontà politica dichiaratamente avversa), un pedagogista come Daniele Novara, un giorno sì e l’altro pure, propone soluzioni didattiche per i licei che sono prese di sana pianta da modelli di scuola montessoriana della primaria.
In una prossima occasione sarà oggetto di riflessione la puntata di Tutti in classe del lunedì successivo, dedicata al commento dei recenti dati OCSE sulla Literacy digitale degli studenti di terza media.

Un commento

  1. Di fatto, INDIRE resta incollato ai Cardinal Principles of Secondary Education. Pesco da Wikipedia: “I principi cardine dell’educazione secondaria furono gli obiettivi educativi formulati nel 1918 (leggasi millenovecento diciotto) dalla Commissione per la Riorganizzazione dell’Educazione Secondaria (CRSE) della statunitense Associazione Nazionale per l’Educazione (NEA)” (scusate le cacofonie). Essi rappresentarono una svolta verso l’estremismo attivista del Teachers College della Columbia University (quella di Dewey e Kilpatrick). Questa la loro lista:
    1) salute,
    2) padronanza dei processi fondamentali (questa voce, così oscura, era stata dimenticata nella prima bozza e fu introdotta solo nella bozza definitiva; significa leggere, scrivere e far di conto),
    3) partecipazione alla vita familiare,
    4) professione
    5) cittadinanza,
    6) gestione del tempo libero
    7) carattere personale.
    Si precisò che i principi non identificavano aree di studio separate, ma erano temi correlati. Sulla loro base, le scuole statunitensi in parte si misero al servizio degli imprenditori locali, in parte si persero in progetti su cosa dire e fare al primo appuntamento con una ragazza o su come abbottonarsi i pantaloni o su come cucinarsi un uovo. Il discredito universale delle scuole innovate suscitò una critica radicale di questa impostazione già negli anni Cinquanta. La contestazione studentesca dell’autorità magistrale degli anni Sessanta la riportò in auge.
    Così il governativo INDIRE finisce con il propagandare una pedagogia vecchia, fallita e che solo l’anarchismo sessantottino ha potuto raccattare dalla spazzatura; si può solo ammirare la sfacciataggine con cui attacca la targhetta ‘innovazione’ alla cassetta che contiene le povere ossa.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *