Salviamo la scuola!

È evidente che la scuola del secolo scorso non era perfetta, ma è fuori di ogni ragionevole dubbio che essa è stata un’istituzione largamente ed amaramente da rimpiangere.

IL QUADRO GENERALE

La crisi profonda del sistema scolastico del Paese, il grave allarme rispetto all’efficacia della proposta formativa sono, o dovrebbero essere, sotto gli occhi di tutti. In effetti, nonostante alcune analisi accurate e diverse impietose evidenze dello sfacelo, purtroppo la maggioranza degli attori del sistema scuola persevera nel ritenere che la strada che si sta percorrendo, oramai da circa tre decenni, sia quella giusta. Oppure, pur ravvisando limiti ed insidie, non è disposta ad individuare un percorso alternativo, né, sic et simpliciter, a far marcia indietro. Ora, è evidente che la scuola del secolo scorso non era perfetta, ma è fuori di ogni ragionevole dubbio che essa sia stata un’istituzione largamente ed amaramente da rimpiangere.

Chi scrive si pone umilmente l’obbiettivo di esplicitare e discutere le ragioni del fallimento formativo odierno e tentare di indicare una strada per ridare fiato alla scuola e perciò speranza al nostro futuro.

In primis, è del tutto evidente che sussistano casi di buona scuola, eccezioni al desolante quadro d’insieme, e tuttavia mi pare abbia senso solo considerare il caso generale e trascurare le sempre più rare e meno sistemiche isole felici.

È chiarissimo come gli studenti siano i protagonisti della scena (in parte anche per volontà politica…): ebbene, dobbiamo purtroppo registrare tra loro una diffusa arroganza e supponenza ed una profondissima impreparazione, a tutti i livelli. Sono però studenti che non possono essere geneticamente diversi da quelli del passato prossimo, sicché la loro responsabilità nel disastro non può che essere marginale. Il mondo gira, ed ovviamente la scuola deve cercare di tenerne il passo. Tuttavia le compete un ruolo così fondamentale e radicato nella dimensione storica della nostra civiltà, che non può sopportare tutti i capricci della moda (intesa in senso socio-politico). Dunque, in definitiva, perché la scuola è così malamente peggiorata in questi anni se ai nostri studenti non possiamo sostanzialmente attribuire alcuna responsabilità? La ragioni sono diverse e molto intrecciate, e poiché ovviamente qui non si aspira ad un trattato ma ad una “denuncia”, il lettore perdonerà la mancanza di esaustività ed esattezza documentale.

Per agilità espositiva distinguiamo un numero di (altri) attori: i genitori, gli insegnanti, i dirigenti scolastici, il legislatore e la società. Naturalmente i due ultimi, per l’intima connessione, si potrebbero addirittura far coincidere, ma resta comoda la categoria di società perché ci interessa come essa influenzi soprattutto genitori e studenti.

A mio (e non solo mio) avviso la responsabilità principale dello status quo è proprio imputabile al modo in cui legislatore ha inteso interpretare ed attuare le istanze che provengono dalla società, ed in particolare da quelle allegre combriccole che vanno solitamente sotto il nome di socio-antropologi e psicologi (ok: neuro-scienziati, esperti della didattica, psicologi dell’età evolutiva ed altre etichette tecno-eleganti) e dal paradigma politico dominante che potremmo definire a piacimento neoliberista o neocapitalista o, più precisamente, entrambe le diciture. In altri e più concreti termini, le riforme scolastiche hanno trasformato la scuola in qualcosa di assai vicino ad una fabbrica. Con buona pace della sinistra, che in questo Paese ha perso la bussola, perlopiù rincretinita da sociologi e psicologi. Sicché s’è dimenticata che senza cultura non c’è libertà e senza libertà non c’è democrazia. S’è anche dimenticata, per altro, che il merito è necessario, oltre che per pungolare gli individui nell’acquisizione di una cultura minimamente solida, anche per combattere il ristagno delle classi sociali.

Prima di analizzare la delicata questione della didattica che si è inteso promuovere – se non proprio imporre, con scarsissimo riguardo del saggio orientamento costituzionale sulla libertà dell’insegnamento – vorrei passare alla categoria dei dirigenti. Perché è molto semplice definire in che modo contribuiscono al problema, e sotto quali impulsi. Dunque il dirigente è diventato il capo di una fabbrica, spesso di qualche centinaio di sottoposti. Un capo, per altro, quasi sovrano, vista la scarsa incidenza degli uffici scolastici in questioni che non siano meramente burocratiche. Come capo si comporta; in particolare persegue il profitto. Ed il profitto, purtroppo, non si identifica affatto con la crescita civile e culturale degli studenti, ma meramente con il numero di iscritti ed il numero di promossi. Per assurdo, se anche volesse sottrarsi al meccanismo (ma chi lo vuole?) troverebbe leggi e direttive ministeriali che quasi gli impongono di ricordare agli insegnati che non devono insegnare, ma produrre progetti, abilità e competenze misurabili e che queste misure devono comunque essere tali da non produrre quello che lui chiama fallimento formativo, cioè un certo numero di bocciature e (di conseguenza, vedasi al capitolo genitori) il calo degli iscritti (oltre il fisiologico…) e gli abbandoni. Ovviamente chi scrive ritiene invece che sia proprio la mancata bocciatura, se necessaria, il vero fallimento formativo, poiché comporta l’accumulo e la stratificazione delle lacune.

Andiamo dunque avanti con l’analisi. La scuola neo-riformata ha inteso capovolgere la “gerarchia” professore-genitore-studente. Anche perché ha dimenticato che al vertice o se si vuole alla base di tutto, sta un’altra categoria: il sapere. Si può certo individuare nella scuola pre-riformata una eccessiva rigidità, forse troppa autorevolezza attribuita a prescindere ai docenti… Ma era davvero il caso di compiere addirittura un’inversione? In effetti andrebbe precisato il ruolo dei genitori. Questi, nella grandissima parte dei casi, solidarizzano con i propri figli, trattàti sostanzialmente come pari, più che come educandi. Sicché il docente non è più l’adulto di riferimento istituzionale, degno di specifico rispetto. È solo un pari a cui tocca il compito di intrattenere a scuola il proprio figliuolo diletto, e, salvo che non dimostri – con cura e dovizia di particolari – il contrario, ha sempre torto. Le ragioni di tutto ciò sono profonde, ma l’argomento è socio-politico e non è questa la sede.

È ora il momento di parlare del convitato di pietra (la Signora Cultura/Sapienza/ Conoscenza/Intelligenza). Cosa e come debbono apprendere i nostri studenti? Non credo di stupire nessuno se affermo che esiste contaminazione tra il cosa ed il come, proprio come esiste contaminazione tra i fini e i mezzi. Tuttavia dovremmo stare attenti alla brutale inversione dei fini con i mezzi. Un esempio… di scuola? Il digitale, l’informatica! Il perché piaccia tanto a chi dirige la baracca abusare di informatica e di digitalizzazione è ancora una volta ultra-banale: i soldi e quindi il consenso (probabilmente se invertiamo i termini il risultato non cambia).

Come sappiamo, gli ultimi anni hanno visto un tale investimento nelle metodologie di apprendimento da aver posto in secondo piano i contenuti dell’apprendimento. Chi scrive ha scarsa memoria, perciò detesta il nozionismo. Per anni si è beato della propria volontà ed abilità nel comprendere a fondo i concetti… ma la maturità porta consiglio. Perciò ha capito che la vecchia scuola (e la vecchia università) lo ha obbligato all’apprendimento di un congruo minimo di nozioni (come le tabelline e l’ortografia!), e che la propria favella sarebbe senz’altro più arzilla se fosse supportata da maggior memoria. Ma lasciamo da parte il personale e facciamo un’affermazione tanto categorica quanto banalmente vera: l’intelligenza si alimenta di contenuti. A forza di semplificare e togliere si diventa stupidi, anche se non lo si è in partenza. A proposito dell’impoverimento culturale (e perciò della nostra intelligenza collettiva) propongo un semplice esercizio: atteso che il mondo è diventato assai più complesso di quello di tre decenni or sono, si confrontino i manuali odierni con quelli di allora. Per caso trovate che questi ultimi siano diventati molto, molto più semplici? Pieni di figure e schemi? Con immediate applicazioni pratiche ogni qual volta è vagamente possibile? Non si può concludere questo discorso senza evocare l’accanimento con cui si perseguono i metodi di apprendimento più cretini. Quelli che producono scientificamente il minimo delle conoscenze possibili. Esempi? Provate a somministrare quesiti a risposta aperta in luogo di quelli a crocette… o a spiegare a un collega di sostegno molto affezionato all’utilizzo dell’informatica che una consegna che preveda l’impiego di “PowerPoint” spesso non fa che mostrare l’incapacità degli studenti di eseguire correttamente un mero copia-e-incolla.

Evocato da quanto precede è arrivato il momento di affrontare un tema spinosissimo. La vecchia scuola è stata, in diverse occasioni e riguardi, alquanto razzista. Sicché l’inclusione è cosa buona e giusta. Ma non al prezzo con cui la stiamo pagando, per mancanza di risorse, mala-interpretazione, abusi ed industrie del caso. Chiarisco subito che non mi riferisco alla sacrosanta inclusione dei disabili (nella scuola dell’obbligo così come nella società in generale). La certificazione DSA, però, è diventata uno sport… Non è (più) una cosa seria. Per spinte dall’alto (legislazione, psicologi e medici compiacenti, dirigenti) e dal basso (alunni paraculi, genitori svogliati). S’è creata una categoria di “intoccabili”, cioè di “ineducabili”, condannata ovviamente alla marginalità (tacendo dei potenziali futuri danni sociali). Si fotografano le inabilità e le si promuovono sostanzialmente intatte di anno in anno, senza poter tentare di rimuoverle. Inoltre è piuttosto difficile, visto il comportamento generale osservato tra i docenti che si occupano di sostegno, non ipotizzare una influenza della componente più fragile degli studenti sull’impoverimento generale dei contenuti e delle complessità disciplinari, a livello di classe e di scuola.

L’inclusione, poi, è diventata un termine passepartout ed è segnatamente estesa all’inclusione sociale. Ma dell’inclusione sociale deve occuparsi la politica, attuando una volta per tutte il terzo articolo della Costituzione! Detto in termini pratici, quando la scuola si confronta con la delinquenza e la grave sofferenza sociale non può esser chiamata a surrogare, deve invece costringere le altre istituzioni a svolgere il loro dovere.

Ed in tutto ciò i docenti cosa fanno? Pare incredibile, ma nonostante la burocrazia elefantiaca e la pressione quotidiana di tutto un sistema malsano, c’è chi rema contro, e cioè si preoccupa soprattutto di insegnare, cioè cerca di recitare al meglio la propria parte in quel dialogo a tre (docente-discente-sapere) cui tutto si dovrebbe informare. Ma questi sono pochi, perché alla maggior parte dei colleghi mi sento di imputare quella che definirei una omertà da sopravvivenza o anche una sorta di lenta ma inesorabile “bollitura” (assuefazione inconscia al sistema). E per la verità, ahimè, non mancano neppure gli alfieri entusiasti del nuovo corso, subito in trincea contro i perplessi, specie se neo-immessi nel mondo della scuola.

UN CASO SPECIFICO, SIGNIFICATIVO

Il caso, o meglio il terribile algoritmo distrettuale, mi ha costretto a crescere, come insegnante, assai in fretta. Assegnandomi, quale primo (doppio) incarico (con completamento in altro istituto) forse quello che può essere individuato “il peggio del peggio”, il refugium peccatorum, la cartina al tornasole dello sfascio generale: l’istituto professionale (alberghiero).

Mi corre l’obbligo di chiarire subito che secondo me una tale scuola non dovrebbe proprio esistere. Nel mio mondo ideale nessuno è da considerarsi abbastanza maturo per specializzarsi in qualcosa (e meno che mai a carattere prettamente pratico-professionale) prima di aver assolto un tipo di obbligo scolastico affine al biennio di un buon liceo di una trentina di anni fa. In effetti a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, si è tentato, con fatica ma in larga parte riuscendovi, di diffondere la cultura al più vasto strato sociale possibile, affrancando i ceti socialmente più deboli dalla condanna al lavoro umile e precoce. Ciò ha significato evidentemente prolungare l’obbligo scolastico e non mortificare le discipline più astratte a vantaggio dell’immediata acquisizione di nozioni tecnico-operative. Oggi la scuola torna ai vecchi steccati: urge sfornare tanti piccoli soldatini scemi da offrire in pasto alla tecnocrazia capitalista? C’è persino da rilevare rispetto al passato per così dire presessantottino una variante disarmante e potenzialmente letale: un pesante arretramento culturale anche delle élite.

Bisogna chiarire come i professionali siano di fatto, ed in larga parte in maniera intenzionale, un’ultima spiaggia o peggio una vera e propria discarica. Questo perché in definitiva è piuttosto comodo per tutti non affrontare le carenze sociali, quelle didattiche, quelle intellettive.

Dunque sono stato chiamato ad insegnare quell’abominio di disciplina che passa sotto il nome di scienze integrate. Un pasticcio simplettico di fisica, chimica, scienze della terra e biologia che sembra assurgere a paradigma di quanto di più insensato sia stato in grado di elaborare il riformismo sciagurato di cui s’è detto. A tutto questo po’ po’ di conoscenze quanto tempo viene riservato? Due ore settimanali per solo due anni!

V’è per altro un aspetto che a me pare niente affatto trascurabile: le competenze e la professionalità dei docenti. Non entrerò nel mare turbidum della metodologia di reclutamento dei docenti, ma dico seccamente: qual è la ratio secondo la quale un laureato in fisica deve poter insegnare la biologia o – peggio (e me ne assumo le relativa responsabilità intellettuale) – un laureato in biologia deve poter insegnare la fisica? Con quale valore aggiunto per gli studenti? Con quale etica professionale?

QUALE PERCORSO

Naturalmente non pretendo di avere le risposte. Ho però la consapevolezza che occorre tradurre quest’analisi in qualcosa di molto più fattivo di una lagna nostalgica e distaccata. Vorrei perciò cercare la strada insieme ad una comunità di docenti e dirigenti in grado di ripensare la loro funzione e di incidere politicamente e socialmente per emendare le brutture, un andazzo di cose che, come una inesorabile sciagura naturale, si è abbattuto sulla scuola.

La scuola ha certamente un gran bisogno di risorse economiche, se non altro almeno per rimediare alla sua inveterata incuria strutturale (come si può insegnare la bellezza, il rispetto, la cultura in un luogo brutto, trascurato, malsano e spesso illegale?). Queste sole, purtroppo, non bastano. Occorre una nuova consapevolezza ed un bagno di umiltà da parte di tutti; certamente da parte di quella schiera di politici, sociologi e psicologi che hanno dato corpo alle proprie congetture, che hanno sperimentato varie riforme sulla pelle di quasi due generazioni, con gli esiti che sappiamo.

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