Sbagliando si impara

L’indulgenza non è un principio educativo.

Un buonismo convenzionale (che parte dal pregiudizio sconsiderato dell’insegnante aguzzino) impedisce a molti pedagogisti di comprendere il significato didattico dell’errore. Per l’esploratore che intraprende vie nuove, l’errore, per quanto sgradevole, è inevitabile, e infatti la difficoltà del nuovo è proprio la fatica di ritrovarsi dopo essersi perduti. Ma l’alunno che apprende non è un esploratore, percorre una strada già segnata; per lui l’errore non è affatto inevitabile: poteva fare bene, ma ha fatto male; dunque è quasi sempre una colpa – in genere quella della pigrizia.
Ne segue che l’indulgenza dell’insegnante è un atteggiamento non meno pericoloso dell’accanimento punitivo. Solo se viene corretto e se ha un effetto sulla valutazione, l’errore stimola il miglioramento dell’alunno. Sbagliando si impara, certo, ma solo perché la correzione dell’insegnante è accolta dall’alunno. Se per tenerezza verso il bambino si evitano la correzione e la penalità, allora gli si fa male, solo male: se non si corregge l’errore, l’alunno crede di aver fatto bene e continuerà a sbagliare; se la correzione non ha effetto sulla valutazione, è come se si dicesse all’alunno che fare bene e fare male sono la stessa cosa – ed è questo il messaggio più distruttivo che la scuola possa dare.
Il cattivo consiglio della pedagogia di essere infinitamente indulgenti è stato peraltro così assorbito dagli insegnanti, che la scuola non è più l’incubo del tribunale, come paventa chi le è estraneo, ma l’incubo dell’ignoranza. Spesso gli insegnanti non correggono, spesso quasi non ne tengono conto nella valutazione, spesso si scusano di aver osato giudicare. Ormai gli alunni accolgono le correzioni con perfetta indifferenza o addirittura come un’offesa all’autostima. Così, per merito della pedagogia e dei suoi brillanti consigli, per gli alunni non c’è più nessun problema a scrivere 2+2=7, oppure squola.

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