Scuola e false antitesi

I nemici della conoscenza spesso scoprono l’acqua calda e la vendono come terapia per ogni male


Chi oggi insegni nella scuola italiana si scopre accerchiato da un muro ideologico. Questo muro non ha grandi proprietà meccaniche: basta una spallata di senso comune per aprirvi un varco. Tuttavia è un muro riedificato e rappezzato di continuo grazie al laborioso ricorso a teorie ad hoc da parte di colleghi solleciti, psico-pedagogisti, pedagogisti, messi ministeriali, circolari e organi di stampa spesso impegnati a tenere in vita idee indimostrate. Non è dunque un caso che queste tesi, nella ripetizione, diventino verità.

Come accade per tutti i costrutti ideologici, c’è però qualcosa che fa vacillare quel muro: è il nudo confronto con la realtà, almeno quando essa sia pensata e descritta ricorrendo a tutte le necessarie definizioni e distinzioni.

Uno degli schemi erronei più ricorrenti quando si parla di scuola, con l’intenzione di introdurvi cambiamenti ancor più dannosi di quelli già avvenuti, è la falsa antitesi. Che cosa intendiamo con questa espressione? Intendiamo l’opposizione esclusiva di due concetti che nella prassi scolastica messa sotto accusa da decenni non si escludono affatto.

Facciamo qualche esempio di antitesi velenose:
– l’antitesi tra le conoscenze e le competenze;
– l’antitesi tra il dare troppi compiti e il non darli affatto;
– l’antitesi tra la centralità dell’allievo e la centralità del maestro;
– l’antitesi tra la ‘lezione frontale’ e la didattica partecipata;
– l’antitesi tra una scuola piena di formalismi burocratici ma trasparente, e una scuola liberata dalla burocrazia ma opaca e ingiusta verso gli allievi e le loro famiglie;
– l’antitesi fasulla tra il mutuo insegnamento e l’insegnamento che parte dalla spiegazione dell’insegnante.

Queste antitesi hanno in comune d’essere false; d’altra parte si distinguono tra loro per il diverso modo in cui i promotori della scuola rinnovata stravolgono i concetti, privandoli della loro vitalità essenziale. Ora esamineremo brevemente l’ultima di queste antitesi fasulle, allo scopo di mettere in luce la scorrettezza esemplare di chi la alimenta. Ciascuno di noi può fare altrettanto con le altre, anche a venire.

Parliamo dell’opposizione tra il mutuo insegnamento e l’insegnamento che parta dalle conoscenze dell’insegnante. Ebbene, nessun insegnante, già cento anni fa, si sarebbe sognato di disprezzare o sconsigliare la pratica diffusa tra gli allievi di fare i compiti insieme. È talmente noto che i bambini e i ragazzi possono aiutarsi vicendevolmente, condividendo nozioni e concetti per migliorare gli apprendimenti, che non è mai stato necessario riferirsi a studi scientifici che confermassero l’ovvio.

È però successo che la pedagogia, a partire da questa ovvietà, ha preteso di opporre la pratica del mutuo insegnamento tra allievi alla lezione tradizionale dell’insegnante, cioè di colui che è il più esperto, il più padrone della disciplina che insegna. La pedagogia cioè, incurante del fatto che la teoria del mutuo insegnamento non spiega affatto da dove vengano le conoscenze che dovrebbero essere socializzate se non provengono dall’insegnante (o da un altro adulto esperto); incurante del fatto che il mutuo insegnamento, nel tentativo di sottrarsi all’autorità del maestro ed al rapporto gerarchico per andare alla ricerca di una immaginaria parità di ruoli, si palesa subito per quello che è, ovvero un succedersi di momenti in cui un allievo riveste l’autorità di chi sa di fronte a chi non sa, stabilendo comunque una gerarchia, ha praticato una fastidiosa forzatura logica per decretare l’obsolescenza e la minorità della didattica tradizionale rispetto al cooperative learning, al lavoro di gruppo, o alla peer education.

Riassumendo: la prassi scolastica tradizionale non ha mai negato il valore del mutuo insegnamento (fuori dalla scuola), pur rimanendo lucida sulla centralità dell’insegnamento teorico trasmissivo che muova dal maestro (a scuola); la pedagogia corrente, invece, quasi accecata dall’ovvia validità del mutuo insegnamento, l’ha usato contrastivamente per espellere dalla scuola la lezione tradizionale, che non può che essere quella in cui chi spiega conosce al meglio ciò che spiega, padroneggiando il linguaggio e i concetti necessari alla corretta comprensione.

Ne siamo certi: molti a questo punto ci farebbero notare l’esistenza di studi di pedagogia sperimentale che dimostrerebbero la maggiore efficacia del primo approccio rispetto al secondo. Ma è certo anche ciò che risponderemmo noi:

1) quell’efficacia sperimentale poggia per intero sul fatto che qualcuno (che padroneggia una certa conoscenza: per esempio un insegnante) ha trasmesso quella conoscenza ad altri, che non l’avevano;
2) quell’efficacia è tanto più grande quanto più è profonda la comprensione di quella particolare conoscenza, così come delle sue relazioni interne ed esterne con altre conoscenze;
3) l’efficacia di un metodo di cui si promuove la diffusione non può essere valutata a partire da un suo utilizzo sporadico, perché – a causa di quanto abbiamo scritto al punto (1) – gli alunni possono aiutarsi finché hanno cose da spiegarsi l’un l’altro; ma poi?

Pare impossibile che ci sia qualcuno che non riconosca il proprio attaccamento ideologico ad una contrapposizione così dissennata, così come è dissennata l’idea di proteggere un metodo didattico in nome di una sua efficacia qualitativa, quand’anche paia palese che in pochi giorni di lezione si inabisserebbe la sua efficacia quantitativa. Infatti, per ogni ora di mutuo insegnamento praticato in classe, c’è un’ora in meno in cui vengono messe in circolo nuove conoscenze.

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