Senza nostalgia. Con realismo

È possibile pensare i cambiamenti intervenuti nella scuola italiana senza farsi ubriacare dai freddi dati, dai numeri delle statistiche e dalla pseudoscienza? Certamente sì. Le testimonianze sono ricche di note significative, e soprattutto fanno parlare le vecchie priorità, oggi sommerse da una giostra di obiettivi confondenti.


La tecnica di deviare l’attenzione dell’interlocutore al di fuori di quello che è il vero problema è antica quanto il mondo.

Infarcire di termini vuoti, ma altisonanti, quali ‘progettualità’, ‘psicomotricità’, il trio ‘conoscenza-competenza-abilità’, per non citare che i primi che mi vengono in mente, non sposta la sostanza.

La situazione è da quattro passi nel delirio: mi torna in mente la vecchia favola dei Vestiti dell’Imperatore. Qui, nessuno – tranne, forse, gli adepti di questa pagina e pochi altri – ha il coraggio di alzarsi e dire che tutto questo serve solo a creare cortina fumogena intorno ad un problema sostanziale, gravissimo: troppi studenti oggi non sanno cosa significhi studiare, non hanno le basi, non hanno il metodo.

La scuola non può essere ridotta al parcheggio, più o meno lussuoso, dove le famiglie possano scaricare i pargoli, che devono essere a priori promossi, perché il pezzo di carta non si deve negare a nessuno. Che poi non valga nulla, è un altro discorso: una volta strappato l’agognato attestato, ecco pargoli e famiglie a sventolarlo, pretendendo un impiego adeguato, e retribuzione garantita ed elevata, sulla base di quanto il diploma attesta.

Tutto questo, tragicamente, inizia nella malabolgia delle Elementari, con qualsiasi denominazione si vogliano definire.

Io ho frequentato le elementari pubbliche a Milano, tra il 1964 ed il 1969.
Eravamo sempre non meno di trenta, in classe, la maestra era una sola, anziana.
Ci ha insegnato moltissimo, senza LIM, senza audiovisivi, senza fronzoli.
Non ha mai maltrattato o umiliato nessuno, ha sempre aiutato chi aveva più difficoltà, ma non si è mai fatta prendere per il naso da chi cercava di raccontare frottole per giustificare la propria negligenza.
Insegnava la grammatica, l’ortografia e la punteggiatura, pretendeva quaderni e libri ordinati e ben conservati, con lei studiavamo aritmetica e geometria, scienze, storia, geografia, insomma tutto quello che ai tempi si insegnava.
Ci dava i compiti e ce li riconsegnava corretti, individualmente.
Amava leggere e ha cercato di instillare in tutti l’amore per la lettura.

Ha insegnato a tutti a rispettare il lavoro, purché onesto, senza discriminazioni.
In una classe in cui nove decimi degli alunni erano figli di non-milanesi, come me, faceva redigere ad ogni alunno un quadernone in cui, partendo dalla scuola, dal viale in cui si trovava, dal quartiere, fino a comprendere tutta la città, spiegava e raccontava, e tutti scrivevamo ed imparavamo, la storia di Milano, i personaggi o gli eventi cui erano intitolate vie e piazze, perché vivere in un luogo rendeva necessario, nella sua opinione, conoscerne la storia, per poterlo comprendere ed apprezzare e farlo proprio.
Tutti imparavano, anche la mia compagna di banco i cui genitori erano analfabeti, o l’altra bambina, arrivata dalla (allora) Jugoslavia, che all’inizio non sapeva neppure l’italiano.

Tutti ne uscivano arricchiti.

La vera tragedia, per quanto posso vedere, non è tanto nel fatto che oggi una parte cospicua degli studenti non sappia certe cose, già fatto tragico in sé, quanto nel fatto che non abbia alcuna curiosità, alcun interesse, nell’apprendere e nel comprendere.
Il Sistema ha costruito i clienti ideali, se la vogliamo vedere dal punto di vista di chi fa marketing: acritici, passivi, desiderosi di comparire ed avulsi dalla realtà.
Un allevamento intensivo di migliaia di decerebrati, gli Eloi del romanzo La Macchina del Tempo di H.G. Wells. Carne allevata per essere divorata dai Morlock.

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