Sopravvissuto al signor Saltamerenda
L’essere umano – si dice oggi – è resiliente: ma la sua resilienza va ben coltivata, altrimenti è perduta
Quando frequentavo le scuole elementari, ormai quaranta anni fa, io e i miei compagni dovevamo guardarci dal signor Saltamerenda. Chiamavamo così il maestro della classe accanto alla nostra: un signore alto, allampanato, con la giacca in tessuto spigato, che fumava la pipa e aveva i capelli corvini, pettinati come certi attori che ammirai nei primi film di Alfred Hitchcock. Non so bene quale incarico avesse, ma ricordo che – forse per questioni d’età – aveva un grande ascendente sulle maestre, tanto che si prendeva la briga di comminare le sanzioni pure per le nostre mancanze o trasgressioni, pur non essendo noi tra i suoi allievi. Si avvicinava con passo elegante e, dall’alto dei suoi tre metri, ci comunicava con ferma flemma che avremmo saltato la ricreazione; saremmo rimasti seduti in classe mentre gli altri correvano e gridavano nel cortile alberato lanciandosi con violenza castagne dure come sassi. Nei casi di flagranza di reato il signor Saltamerenda mollava qualche secco scapaccione sul coppino, che noi intascavamo zitti zitti. Non ricordo pianti.
Le scuole che ho frequentato sono state largamente imperfette, e non mi dispiacciono alcuni dei cambiamenti che negli anni sono occorsi. Ma la verità è che da quelle scuole sono usciti tanti bambini normali che non di rado si sono affermati nella vita, negli ambiti più disparati, e hanno affrontato le grandi scelte esistenziali con un tot di spirito di sopportazione (oggi lo si chiama “tolleranza alla frustrazione”) che ora pare smarrito. Per quel che ricordo i genitori non si presentavano al “direttore didattico” (così si diceva, allora) per denunciare di continuo ingiustizie, insensibilità e maltrattamenti, anche se in qualche caso forse sarebbe stato sacrosanto; i bambini, dal canto loro, andavano avanti, crescevano e superavano ostacoli che oggi sono stati spianati: si pensi solo all’esame di licenza elementare o agli esami di riparazione in vigore fino al 1977. Le situazioni erano quello che erano, e i bambini le attraversavano regolandosi sull’evidenza ordinaria, e più ancora sul rimando emotivo (che è sempre educativo) che ricevevano dai loro genitori, i quali – magari – avevano frequentato la scuola elementare nel tempo infelice della guerra e della ricostruzione, come fecero i miei, e certo non si struggevano per cose che a loro parevano tollerabili.
Oggi le scuole sono luoghi molto più accoglienti di un tempo, e ciò è un bene: fino a un certo punto. Certe attenzioni si sprecano. Gli psicologi d’istituto, una volta estranei alle scuole, hanno liste d’attesa di un chilometro. Nei consigli di classe gli insegnanti si prodigano (prendendo spessissimo decisioni sbagliate) per aiutare chi attraversa qualche difficoltà personale; e i genitori intervengono quotidianamente nella vita scolastica recriminando e criticando ogni condotta che a loro pare lesiva della sensibilità dei figli, arrivando a stigmatizzare l’uso delle insufficienze, descritte come strumenti d’umiliazione…
Con tutto ciò, possiamo dire che i bambini sono ora emotivamente più forti e sicuri di un tempo? Stiamo forse raccogliendo i frutti zuccherini delle mille attenzioni riservate ai bambini? Abbiamo cresciuto bambini e ragazzi temprati, pronti alla lotta della vita (sì, perché la vita è più lotta che danza, come scriveva Marco Aurelio)?
Io credo di no.
L’iper-protezione, a casa come a scuola, affonda le proprie radici in un duplice errore: prima di tutto in un’idea distorta dell’amore verso i propri figli e verso il prossimo; e poi in una scriteriata sottovalutazione delle capacità delle bambine, dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi di trovare la propria strada, la propria identità e la propria realizzazione anche attraverso la resilienza nelle avversità, di mille tipi differenti.
[A chi abbia davvero voglia di affrontare quest’argomento, anche in famiglia, e non tema di smarrirsi emotivamente, suggerisco la visione di un capolavoro del cinema che considero quantomai eloquente: La morte corre sul fiume (The night of the hunter, 1955), del grande Charles Laughton. Buona visione].