Tanti cuochi in cucina

Quando la pluralità dei docenti nella scuola primaria complica la ricetta educativa


Bea ha sei anni. Li ha compiuti pochi giorni fa e i suoi genitori le hanno organizzato una festa bellissima, con tanti palloncini e una torta a strati con i cuori. C’erano i nonni, che le hanno regalato un magnifico zaino rosa, e anche i suoi amichetti. Qualcuno di loro ha già compiuto gli anni e si vanta molto di essere grande, così grande da andare, appunto, alla “scuola dei grandi”, come dice la nonna, che ancora sbaglia e qualche volta dice “elementare” e non “primaria”, perché si confonde e così si toglie d’impaccio.

Anche Bea lascerà i suoi piccoli amici, quelli di cinque anni che torneranno alla scuola dei piccoli. Lei, Marta e Matteo, invece, saranno alunni della 1a F. Mamma ha saputo da poco che saranno in classe insieme ed è tutto un parlottare intorno al materiale da acquistare e alle maestre da individuare.

Bea è emozionata. Sa già scrivere il suo nome. La mamma è convinta che sarà bravissima e Bea non vede l’ora che arrivi il suo primo giorno di scuola.

Bea frequenterà una classe a tempo pieno. Lei sa già cosa significa: pranzerà a scuola e uscirà nel pomeriggio, giusto in tempo per le lezioni di danza.

Arriva il giorno tanto desiderato e Bea si trova davanti all’ingresso della scuola, con il suo zaino nuovo fiammante con dentro i quadernoni e un favoloso astuccio glitterato che Marta se lo sogna, bello così! Dentro c’è anche la colla stick, che è viola e profuma di mirtillo e a Bea verrebbe tanta voglia di darle una leccatina…

Ma dov’è la maestra? C’è un gruppetto di persone assiepato vicino al portone, il cortile è pieno di bambini, mamme e papà, tutti parlano a voce alta, qualche bambino piange già e vuole tornare a casa, le mamme salutano con la mano gli altri genitori, si scattano fotografie, poi arriva un signore alto, con la giacca, qualcuno gli passa un microfono e lui fa un breve discorso che Bea non capisce tanto bene, ma si vede che era quello che ci voleva, perché, subito dopo, il parapiglia si placa e si sentono scandire, ad alta voce, le classi e i nomi dei bambini che devono mettersi in fila per entrare.

Bea sente pronunciare il suo nome e corre verso i compagni. Una signora bionda continua a chiamare ed ecco arrivare Simone, Giulia, Alessia, Federico e anche Marta e Matteo, che si mettono subito a bisticciare per chi deve stare avanti. Una ragazza con un vestitino a fiori si avvicina e li separa, però sorride e li accarezza sui capelli. Si attraversa un corridoio luminoso e si arriva, finalmente, in classe. Le pareti sono ricoperte di orsetti e coniglietti bianchi con la coda rosa, cuori e fiori pendono dal soffitto e ondeggiano al vento caldo. Tutti i bambini si siedono e la ragazza sorridente consegna ad ognuno un cartoncino con sopra scritto il nome, poi raggiunge il gruppetto di persone alla cattedra.

Bea ascolta la signora bionda che prende la parola per prima. È la maestra Rosa, insegnerà italiano e altre cose di cui Bea non conosce bene il significato, come storia, geografia, arte. Poi è la volta della ragazza col vestitino, che dice di chiamarsi Michela e che anche lei è una maestra! Pazzesco! Dice che insegnerà matematica e altre cose indecifrabili per Bea, come scienze e tecnologia. Ha una voce sottile e dolce, infatti qualche bambino non la ascolta e si mette a chiacchierare con il compagno e a tirare fuori oggetti a caso dall’astuccio e la maestra Rosa, che sta girando tra i banchi, lo riprende con una voce non più tanto gentile. Infine c’è un’altra signora, con i capelli lunghi e scuri e dei grandi orecchini tondi, dorati, dice di chiamarsi Sara, che lei è una maestra che aiuta tutti e che starà sempre con loro, ma Bea capisce che starà un po’ di più con quel bambino che si chiama Riccardo e che, invece di stare seduto, si è già alzato tre volte, parla in un modo strano e, all’improvviso, ha buttato a terra il cartoncino di un bambino con gli occhiali al primo banco e poi si è messo a ridere fortissimo. Così, dopo un pochino, la maestra-che-aiuta-tutti decide che è il caso di fargli fare un giretto e poi Bea, dalla finestra, vede il compagno correre in giardino, con la maestra che cerca di riprenderlo, ma con i tacchi è complicato e a Riccardo viene da ridere più che mai!

Intanto, in classe, dopo le presentazioni, si fa un bel disegno e Bea è felicissima.

Arriva il momento della merenda, la maestra Sara è rientrata con Riccardo per mano e raggiunge le altre alla cattedra. Bea nota che ora parlano tra loro ad alta voce, guardano dei fogli, sembrano molto prese ma aiutano, comunque, qualche bambino a scartare la merenda o a sbucciare la banana.

Dopo la ricreazione il gruppetto alla cattedra si infoltisce. Arriva un ragazzo alto, con i jeans e una maglietta rossa e dice di essere anche lui un maestro. Mah…

Si chiama Ivano e “per ora”, annuncia, farà con loro inglese, poi si mette a parlare fitto fitto con le altre maestre. “Per ora”. Bea si chiede cosa significhi, ma intanto il maestro Ivano li saluta e dice di portare un quaderno a quadretti grandi per lavorare con lui e che si rivedranno il giorno dopo.

Le sorprese non sembrano finite. A un certo punto la maestra Rosa e la maestra Michela, che hanno appena aiutato la maestra Sara-che-aiuta-tutti a sistemare al suo banco Riccardo, che ora piange, urla e si dimena, dicono che sta per arrivare la maestra Nadia, che insegnerà religione. Nel contempo, vicino a Riccardo, è arrivata una ragazza mora, con una borsa a tracolla marrone da cui escono delle palline colorate e che ora cerca di distrarre il compagno, ma lei non dice di essere una maestra e sta solo vicino a Riccardo, che continua a scalciare. La maestra Sara sguscia via in fretta, sta già infilando la porta e saluta ad alta voce: “Ciao bambini, a domani!”. Nella confusione generale qualcuno grida, il bambino con gli occhiali dice a tutti che deve fare pipì e non sa dov’è il bagno, tre o quattro bambini stanno vicino al cestino a chiacchierare, Marta gira indisturbata per la classe.

 Bea ha perso il filo, non si ricorda cosa sia religione, ha un po’ di mal di testa e vuole tornare a casa. Non è riuscita a finire il suo disegno perché la maestra Michela ha voluto che completassero una scheda e ora è entrata una signora con i capelli bianchi che dice che racconterà una favola. Deve essere la maestra Nadia di religione, ma Bea non ha finito neanche di colorare la scheda, tutti i pennarelli sono sparsi sul banco, Matteo sta leccando la sua colla al mirtillo e la storia che la maestra Nadia sta iniziando a raccontare non le interessa affatto…

L’esperienza di Bea è quella di tantissimi bambini che varcano la soglia della scuola primaria. Sono carichi di aspettative, curiosi, vivaci. L’impatto con l’ambiente scolastico, però, spesso li disorienta. A sei anni un bambino è ancora molto piccolo. Ha avuto esperienze limitate, molti non hanno frequentato la scuola dell’infanzia, che viene ancora ritenuta una sorta di ludoteca, un luogo di intrattenimento dove lasciare i bambini mentre si va al lavoro. Le famiglie raramente comprendono la necessità di far frequentare regolarmente i figli, non pensano che quel segmento scolastico sia così importante. Quindi ci sono bambini che hanno poca confidenza con un ambiente strutturato, alcuni provengono direttamente da casa o dal nido protettivo dei nonni.

Entrando a scuola si guardano intorno in cerca di punti di riferimento, cercano di capire cosa ci si aspetti da loro, trovano subito lo scoglio di regole molto più rigide rispetto a quelle dell’ambiente domestico o anche della scuola dell’infanzia e hanno bisogno di prendere le misure, di capire com’è fatto quel nuovo mondo con cui dovranno fare i conti.

Le persone più mature ricorderanno distintamente il loro primo giorno di scuola, caratterizzato da una presenza. Dopo il primo momento di smarrimento, infatti, salutata la mamma, in classe trovavano la maestra.

LA maestra. Perché era una. Un solo adulto di riferimento cui si volgevano, all’unisono, decine di piccoli sguardi in cerca di conforto, rassicurazione, indicazioni.

Dall’inizio degli anni novanta questa situazione è stata scardinata. Uno tsunami ha travolto l’immobile scuola elementare del tempo, investendo organizzazione oraria, discipline, metodologie e, soprattutto, introducendo la pluralità dei docenti fin dalla classe prima. In principio fu la riforma dei moduli. Tre insegnanti su due classi, in un complicato intreccio di orari, compresenze, sovrapposizioni che si arrampicavano in architetture impervie e spericolate con classi in verticale, “a scavalco”, quattro (insegnanti) su tre (classi), prevalenze, toccate e fughe, salti e voli, che implicavano la costituzione di poderose commissioni con decine di persone impegnate, per giorni, a tessere la trama complicata di orari impossibili. Poi venne l’estensione del tempo pieno, richiesta a gran voce dal contesto sociale e familiare in evoluzione, soprattutto in ambienti urbani e con alte percentuali di mamme lavoratrici. Più avanti fu la volta della vituperata riforma Gelmini che suggerì, tra le polemiche, un ritorno alle origini, ripristinando una sorta di “maestro unico” che, però, tanto unico non poteva più essere, data l’introduzione di più discipline e l’orario, per gli alunni, arrivato a 27 o 30 ore nelle classi a tempo antimeridiano.

A più di trent’anni dalle prime sperimentazioni è possibile, forse, iniziare a tracciare un bilancio.

Decidere di togliere la figura di riferimento ad alunni della fascia 6/11 anni, è stata una buona idea? Una molteplicità di figure cui il bambino deve continuamente adattarsi nell’arco della giornata scolastica è un vantaggio che regala flessibilità di pensiero, allarga gli interessi e promuove il problem solving, come gli esperti continuano ad affermare, oppure una fatica che distrae dalle proposte d’apprendimento, costringe a una ginnastica emotiva sfibrante e rallenta il raggiungimento degli obiettivi?

I bambini della scuola primaria hanno l’età giusta perché da loro ci si aspetti elasticità, plasticità e siano in grado di cogliere le occasioni offerte da tanti modelli d’insegnamento diversi?

Il buon Piaget, che è stato dimenticato dalla scuola, forse direbbe di no.

La piccola Bea attraverserà i prossimi cinque anni in un crescendo di dubbi. La maestra Rosa, una docente d’esperienza, severa e prescrittiva, vorrà che i bambini scrivano esclusivamente in corsivo, con penna blu e rossa e che i quaderni siano ordinati e abbiano sempre la loro foderina. Non porterà la classe in cortile, perché il tempo è poco e vorrà terminare il lavoro quotidiano pretendendo silenzio durante le lezioni, darà molti compiti per il fine settimana.

 La maestra Michela, che sta sostituendo la titolare e andrà via a fine anno, desidera che i bambini lavorino in gruppo, la sua didattica è molto laboratoriale e durante le sue lezioni tutti sono invitati ad alzarsi in piedi e manipolare gli oggetti che sono a disposizione. A Michela non interessa che i quaderni siano precisi e ordinati, ma solo che i suoi alunni abbiano capito gli argomenti. Possono scrivere in stampato e usare i colori che vogliono. Con Michela si va in giardino ogni giorno per fare le osservazioni di scienze e guardare le piante e gli insetti. Di solito i suoi compiti sono pochi e facili da svolgere. Il maestro Ivano fa cantare i suoi alunni e propone sketch divertenti per aiutarli a ricordare le parole difficili, spesso i quaderni restano sotto al banco e tutti si alzano per partecipare alla lezione. Quando va via, la classe è in subbuglio e alle altre maestre occorre sempre un po’ di tempo per recuperare la tranquillità e iniziare il lavoro. La maestra Nadia fa incollare tante schede sul quaderno e fa usare i pennarelli, a Bea piace. Invece, con la maestra Rosa, i disegni devono essere colorati con i pastelli, si fa una gran fatica e i colori sono sbiaditi.

Un bambino di sei o sette anni che inizia un percorso di apprendimento, mette in atto un impegno immenso. Ogni nuova proposta didattica prosciuga le sue energie. Alla primaria i bambini arrivano senza saper tenere una penna in mano e escono sapendo svolgere una espressione matematica, disquisire di Giulio Cesare e scrivere una relazione su un argomento dato (o, almeno, così dovrebbe essere). Ogni singola acquisizione di nuove conoscenze esaurisce, nello sforzo, tutte le possibilità di attenzione e concentrazione. Il momento esecutivo mette in gioco una serie infinita di connessioni logiche, recupero degli apprendimenti pregressi, abilità motorie, cognitive, emotive, creatività.

Immaginiamo quanta energia viene dispersa per adattare continuamente l’impegno all’aspettativa di adulti sempre diversi. Immaginiamo la labile attenzione di un gruppo di seienni continuamente messa alla prova da un orario in cui, in cinque ore, possono entrare in classe cinque diversi insegnanti, ognuno con il suo stile d’insegnamento, le sue regole, il suo setting d’aula. Immaginiamo, tra l’altro, che durante la stessa ora entrino e escano dalla classe insegnanti di sostegno, assistenti educativi, insegnanti in compresenza e che, magari, la classe abbia aderito a un qualche progetto in cui è prevista la presenza di un esperto esterno…L’attenzione del gruppo sarà costantemente distolta da input diversi, deviata e dispersa a scapito della concentrazione sull’obiettivo da raggiungere. Il bambino, che avrebbe bisogno di soffermarsi sull’acquisizione delle abilità di base (perché, ricordiamo, è ancora quello l’obiettivo della primaria), che richiedono tempi di ascolto lunghi e senza interruzioni, tempi di esercizio prolungati, ripetizione continua fino all’acquisizione definitiva, momenti di recupero e consolidamento, lavoro calmo in un ambiente rilassato e sereno, viene subissato in modo schizofrenico da argomenti, proposte, voci, richieste.

Un unico insegnante potrebbe riuscire a lavorare dosando realmente gli argomenti in base alla capacità ricettiva dei suoi alunni e ai loro tempi. Potrebbe sfruttare la complicità emotiva con il gruppo per far passare messaggi e riuscire a realizzare, con successo, quella buona pratica tanto vagheggiata della “trasversalità degli insegnamenti”, non di facile realizzazione da parte degli sfilacciati team docenti, per i quali la programmazione, che dovrebbe rappresentare il momento della coesione di intenti e della organizzazione e razionalizzazione delle proposte didattiche, si traduce spesso in una noiosa e vuota pratica burocratica, piuttosto che costituire una solida base di lavoro condiviso.

Il frutto avvelenato di una scuola che è diventata ipertrofica, ridondante, avvinghiata attorno alle certezze dei suoi miti pedagogici e che ha smarrito la consapevolezza di come funzioni la mente di un bambino, è la perdita della visione d’insieme del sapere da parte dei piccoli alunni, in cambio di un coacervo di nozioni sicuramente più numerose, ma distribuite in ordine sparso, slegate, occasionali e fragili.

Il risultato che possiamo riscontrare è quello di alunni confusi, di abilità imprescindibili acquisite in modo insufficiente e incompleto.

Tanti sono stati, nel tempo, gli argomenti con cui si è annichilita la flebile proposta della restaurazione dell’insegnante unico. Ovviamente si viene immediatamente tacciati di essere dei nostalgici passatisti incapaci di vedere le magnifiche sorti della moderna pedagogia, di essere degli incomprensibili tradizionalisti che vagheggiano la maestra materna e sempliciotta del tempo che fu, invece di guardare al futuro di infanti che, evidentemente, necessitano di saperi sempre più evoluti e settoriali e così via. Alcuni dubbi, però, sono certamente condivisibili.

Innanzitutto la competenza dell’insegnante. Fortunata la classe cui viene assegnato un buon docente, ma dove capiti qualcuno scarsamente attrezzato, che per cinque anni rovinerà un intero gruppo classe compromettendo l’apprendimento di tutte le discipline, che si fa?

Se, come purtroppo continua ad accadere, l’insegnante unico dovesse essere una persona problematica e fragile, chi potrà rilevarlo e intervenire?

Che succede se l’insegnante è molto giovane, con poca esperienza e non in grado di gestire in autonomia tutte le responsabilità che comporta la conduzione della classe?

Chi si occupa di attuare delle forme di recupero per gli alunni in difficoltà? Ma qui la risposta è facile: da quando, molti anni fa, la riforma è stata tradita e le compresenze vengono abitualmente adoperate per le coperture delle supplenze, di quei bambini, già oggi, non si occupa nessuno. Chissà che, rallentando i ritmi e adattando seriamente il lavoro alla classe, non siano molti meno gli alunni “in difficoltà” e “da recuperare”.

Un unico maestro può essere sufficientemente competente in tutte le discipline che dovrà insegnare? Forse, però, la domanda dovrebbe essere un’altra: siamo ancora sicuri che a sei anni sia necessario conoscere contemporaneamente dodici, tredici materie, invece di concentrarsi sulle abilità essenziali? Ma anche qui si aprono altri discorsi.

Le questioni non sono di facile soluzione. Sarebbe bene però valutare, fuori da ipocrisie, arroccamenti ideologici e conclusioni affrettate, la possibilità di ripristinare un punto di riferimento che orienti e guidi il percorso dei primi apprendimenti, alla luce dei risultati incerti e deludenti ottenuti in decenni di riforme e sperimentazioni.

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