Una introduzione a E. D. HIRSCH, JR., “Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo”, Petite Plaisance, Pistoia 2024.
Hirsch illustra il disastro della scuola americana e lo spiega con l’errore pedagogico di volere che gli alunni acquisiscano le abilità teoriche senza conoscenze e attraverso modalità naturali e spontanee di apprendimento. Lo stesso errore ha investito la scuola europea e ne sta determinando la decadenza.
La scelta dell’editore Petite Plaisance di Pistoia di pubblicare la traduzione di un libro sulla scuola americana uscito a metà degli anni Novanta potrebbe sembrare fuori tempo. In realtà essa è giustificata non solo dal valore intrinseco del testo e dalla sua vasta risonanza nel mondo anglosassone, ma dal fatto che in questi trent’anni la sua attualità si è accresciuta: il quadro catastrofico che esso offriva per un verso continua a corrispondere alla situazione delle scuole negli Stati Uniti, per altro verso ha acquisito una corrispondenza anche alle nostre scuole, che proprio intorno agli anni Novanta hanno rinunciato ai principi a cui dovevano la loro egemonia scientifica e culturale, e hanno adottato quelli americani, di cui gli americani avevano constatato il fallimento già negli anni Cinquanta.
Si tratta di uno dei tanti casi di autolesionismo europeo che suscitano tristi pensieri sul declino della nostra civiltà. Sembra che la catastrofe nel secondo conflitto mondiale ci abbia condannati a un disprezzo di sé così profondo da indurci a ripudiare il miracolo della tradizione classica e cristiana e a guardare con invidia qualunque altra civiltà. È così che una parte degli intellettuali europei si è lasciata abbagliare dall’esperienza del socialismo reale, che aveva rivelato subito la sua natura infernale, e l’altra parte ha mitizzato gli Stati Uniti senza voler rilevare i problemi spaventosi loro posti dal retaggio dello schiavismo.
Caduto il muro di Berlino, il mondo progressista ha avuto bisogno di un nuovo modello e l’ha trovato oltre oceano. Questa conversione non è forzata, non è affatto un tradimento, come potrebbe sembrare. L’immagine degli Stati Uniti come di un bastione conservatore o reazionario non aveva nulla di vero ma era costruita in astratta opposizione all’immagine, ancora meno vera, dell’URSS come futuro radioso dell’umanità. In realtà nel secondo Novecento gli Stati Uniti sono stati sconvolti da tensioni emancipatorie radicali che durano tuttora. Negli anni Sessanta la lotta per i diritti civili non solo riuscì ad abolire le discriminazioni ostili, ma ottenne, quasi a titolo di risarcimento, qualcosa di più: i gruppi che ritennero, o sostennero con successo, di essere stati danneggiati da norme e consuetudini passate, abolite le norme, rese illegali le consuetudini, non si accontentarono del libero accesso in ogni ambito sociale, ma rivendicarono di essere compensati con ‘azioni affermative’, vale a dire con la concessione di privilegi, in particolare di quote proporzionali alla numerosità del gruppo nei posti di prestigio o di potere. Dagli anni Sessanta gli Stati Uniti accolgono dunque, non tanto il principio dell’uguaglianza delle opportunità, garantito dalla fine delle discriminazioni negative e dall’estensione universale dei diritti della persona, quanto il principio dell’uguaglianza dei risultati, che favorendo i gruppi deboli danneggia di necessità i gruppi tradizionalmente egemoni. È facile intuire che la crisi dell’uguaglianza delle opportunità non è altro che la crisi del principio moderno del merito e il ritorno al principio feudale del privilegio. È questo processo di regressione tribale che fa degli Stati Uniti l’ipocentro dei sussulti dell’intero mondo occidentale dagli anni Sessanta in poi.
Il passaggio dal rifiuto della discriminazione negativa alla richiesta delle discriminazioni positive segna un’involuzione decisiva prima nella scuola americana e poi in quella europea. A partire dagli anni Venti la scuola americana aveva subito l’invasione della pedagogia progressista diffusa dal Teachers College, la facoltà magistrale, guidata da Dewey e Kilpatrick, presso la Columbia University di New York. Essa aveva imposto curricoli scolastici di ispirazione rousseauiana e romantica, che si affidavano all’evoluzione spontanea del bambino ed evitavano la trasmissione delle conoscenze e delle abilità teoriche. Nell’America dagli anni Venti agli anni Cinquanta l’istruzione secondaria di massa trascura quasi del tutto l’alfabetizzazione e le materie disciplinari, e si dedica ai problemi quotidiani degli studenti. Negli anni Cinquanta i paradossi di una scuola analfabeta diventano evidenti e suscitano critiche incisive. Esse, insieme alla paura di essere raggiunti dall’URSS dopo il lancio dello Sputnik, umiliano l’autorità della pedagogia progressista e diffondono nell’opinione pubblica americana l’esigenza che la scuola ritorni ad alfabetizzare e a trasmettere le materie disciplinari.
La falsificazione subita negli anni Cinquanta non mette fine alla pedagogia progressista. La ragione è evidente: erede di Rousseau, della sua condanna della civiltà e del suo progetto di un’educazione naturale che proibisca all’adulto la guida diretta del bambino, il progressismo pedagogico nasce da un rifiuto radicale della realtà. Poiché non le riconosce diritti, la concezione progressista ne ignora le smentite e non teme falsificazioni. Appena il rifiuto radicale della realtà riemerge nelle convulsioni emancipatorie degli anni Sessanta, la pedagogia progressista, che da sempre contesta il primato della conoscenza teorica e l’autorità dell’insegnante, ed esalta l’attivismo e l’autonomia del discente, resuscita in forma ancora più aggressiva e, dopo aver conquistato il sistema scolastico statunitense, dagli anni Ottanta si diffonde al sistema scolastico europeo.
D’ora in poi l’istruzione occidentale esalta l’attivismo spontaneo e l’autonomia del discente, e riduce al minimo il ruolo del docente e della cultura. La tradizionale didattica trasmissiva, in cui il docente è seduto in una cattedra rialzata da un piedistallo e i discenti sono seduti nei banchi schierati davanti a essa, è accusata non solo di estraneità agli interessi dei discenti, ma di applicare metodi autoritari (sorvegliare, punire) con l’obiettivo di consolidare la gerarchia sociale. In queste accuse la pedagogia si mostra come una componente del progressismo. Questo è determinato da una visione vittimistica, che decostruisce ogni avvenimento e ogni istituzione fino a smascherare l’oppressione esercitata dagli oppressori sugli oppressi. L’assorbimento esplicito della pedagogia nel progressismo appare in Paulo Freire, per il quale la scuola tradizionale è contrassegnata dall’oppressione esercitata dagli insegnanti sugli alunni con il fine di abituarli all’oppressione sociale di cui saranno future vittime. La sua pedagogia mira a liberare il bambino dall’oppressione degli insegnanti, dunque distrugge la «vecchia» scuola e ne ricrea una «nuova» in cui il dialogo sostituisce la lezione e il sapere dell’alunno è messo sullo stesso piano del sapere dell’insegnante.
Il sapere dell’alunno ha una natura intuitiva, motoria; il linguaggio stesso, pur essendo un sistema artificiale, è appreso in modo naturale, con l’imitazione spontanea. Ma se c’è una modalità naturale e piacevole di imparare, non è vero (così opina la pedagogia) che per acquisire la lettura, la scrittura e le conoscenze teoriche siano necessarie le impegnative lezioni e le faticose esercitazioni, l’autorità dell’insegnante e la cattedra rialzata sul piedistallo, le angosciose verifiche e le umilianti valutazioni. Pur di non rassegnarsi all’autorità magistrale, la pedagogia progressista farebbe volentieri il passo estremo di Nietzsche contro la volontà di verità: denigrerebbe l’alfabetizzazione e le materie disciplinari («Odio i libri» scriveva Rousseau). In Italia un impavido consigliere dell’ex-ministro Luigi Berlinguer non è arretrato davanti a questa conseguenza. Ma non è necessario tanto: c’è un apprendimento naturale del bambino – questo è il fatto accettato da tutti; per la pedagogia è sufficiente che la scuola non voglia imporgli le proprie nozioni, che, ammesso che abbiano significato, non lo hanno certamente per lui; è sufficiente privare il maestro della cattedra e disperderlo tra i banchi a consigliare e a suggerire discretamente, perché si riattivi il desiderio infantile di apprendere, e il bambino sia in grado di ricostruire e acquisire, da solo o collaborando con i suoi pari, con il gioco o con i lavoretti artigianali, in virtù di ricerche spontanee e di esperimenti improvvisati, tutte le conoscenze tramandate, dalla grammatica alla poesia, dalla matematica alla fisica, e di progredire così dall’ignoranza a un sapere solido, applicabile al mondo attuale e ai suoi rapidi cambiamenti e democraticamente condiviso.
In realtà la storia del pensiero aveva già mostrato che la competenza teoretica non si conquista per via pratica, che occorre un salto dalla casualità dell’empiria all’universalità del λόγος – quello che Platone chiama «seconda navigazione» e che è restato ineseguito o almeno inconsapevole fino al miracolo greco. Ma la pedagogia progressista non può riconoscere l’impossibilità di ciò che desidera, perché non è solo puerocentrica, ma anche puerile. Lo scopo – emancipare l’alunno dall’oppressione del maestro e farlo muovere sulle sue gambe – è troppo alto perché gli si possa negare l’esperimento. La storia della scuola americana è una lunga sequenza di esperimenti della stessa natura, dissimulata però da sempre nuove variazioni terminologiche, dagli esiti sempre fallimentari. La carenza di offerta di giovani decentemente preparati per gli studi superiori è tale che gli Stati Uniti devono importarli dall’estero, in particolare dall’Oriente non ancora espugnato dalla pedagogia.
L’ignoranza a cui la scuola non pone rimedio per non opprimere il bambino e non mortificare la sua autostima non è tuttavia universale. Molti bambini non sanno né leggere né scrivere, la gran parte ignora le nozioni più elementari, tutti vivono nell’incubo di una scuola violenta, ma qualcuno riesce a imparare qualcosa. Hirsch rileva un primo grande paradosso del progressismo pedagogico: la rinuncia della pedagogia all’alfabetizzazione e alle discipline per amore dell’ugualitarismo manca anche l’obiettivo che più le sta a cuore. Il fatto è che l’alfabetizzazione e le conoscenze teoriche (la grammatica, la matematica) restano condizioni ineludibili della partecipazione politica e del successo economico. Il compito di insegnarle, respinto dalla scuola pedagogizzata, ricade sulle famiglie. Ma le famiglie sono estremamente differenziate: a volte sono in grado di istruire i loro figli, a volte no. Il risultato è quello previsto da Gramsci, che Hirsch cita con ammirazione: i figli delle famiglie povere non ricevono istruzione, né a scuola né in famiglia, sono dunque esclusi dal progresso intellettuale, così da essere privati di ogni prospettiva di partecipazione politica e ascesa economica. In una parola: il progressismo pedagogico che proclama la centralità del bambino e si prodiga a fortificarne l’autostima non realizza la società ugualitaria desiderata dal progressismo politico, ma una società in cui ricchi e poveri non sono classi fluide in cui gli individui entrano ed escono in base ai loro meriti, ma caste irrigidite lungo le generazioni. Il progressismo pedagogico è incompatibile non solo con la cultura e la scienza, ma perfino con il progressismo politico.
L’obiettivo progressista dell’uguaglianza delle opportunità e della maggiore uguaglianza in generale implica, al contrario, l’esistenza di una scuola tradizionale, fondata sulla trasmissione delle conoscenze e sull’acquisizione impegnativa delle abilità teoriche. A sostegno di questi argomenti, Hirsch menziona i dati secondo cui negli Stati Uniti, dove la povertà prende una sfumatura razziale, la legislazione antidiscriminatoria degli anni Sessanta non si è accompagnata al progresso dei redditi degli afroamericani, perché nel frattempo la scuola, impedita a svolgere la sua funzione, non ha trasmesso loro le conoscenze e le abilità teoriche necessarie a partecipare alla politica e all’economia. Viceversa, le scuole giamaicane, povere e affollate fino all’inverosimile, esigendo impegno e serietà dai loro alunni, sono in grado di prepararli in modo da annullare il divario dei neri rispetto ai bianchi.
*
Mai la pedagogia riscuote consenso più universale come quando disprezza le nozioni. Ma le nozioni sono le parole che ci permettono di conoscere la realtà, di ragionare per comprenderla, di comunicare tra di noi. Il disprezzo delle parole non è così ovvio. Risale a una precisa corrente filosofica abbastanza vicina al senso comune da poterlo influenzare: all’empirismo anglosassone. Già Bacone ha invitato a sospettare del linguaggio. Locke è andato oltre e ha spezzato il legame tra parola ed essenza. Il suo errore ha trascinato con sé l’Illuminismo e l’Émile di Rousseau.
In verità il discorso di Locke sul linguaggio era iniziato da una giusta osservazione. La visione comune crede che le parole siano al posto delle cose; poiché tra parole e cose c’è un riferimento convenzionale, le sembra che la conoscenza delle parole sia conoscenza della convenzione, non delle cose, e che per conoscere le cose le si debba afferrare con le mani, farne esperienza fisica. Locke fa un passo più in là di questa visione. Comprende che le parole hanno un significato non singolare ma universale (i nomi comuni indicano le specie), dunque non sono affatto al posto delle cose, ma di idee generali. Questa consapevolezza lo avrebbe avviato sulla strada praticata dalla grande filosofia greca se, nel trattare le idee generali, non avesse commesso un errore madornale. Egli giustamente concepisce le idee generali significate dalle parole come prodotti dell’astrazione; giustamente caratterizza l’astrazione come un processo che libera dalla casualità l’oggetto esperito e ne evidenzia gli aspetti necessari, cioè l’essenza; ma poi, invece di trarre la conclusione che le parole indicano l’essenza (ciò che Aristotele ha indicato con il termine di sostanza seconda), rifiuta il risultato che il pensiero astraente è più oggettivo delle sensazioni perché di esse conserva ciò che è costante, e mortifica l’idea generale fino a ridurla a una creazione arbitraria del singolo, a un suo costrutto. In conclusione, le parole indicano per Locke essenze, certo, ma essenze che sono tali solo per l’individuo che le ha astratte dall’esperienza, dunque essenze nominali, del tutto distinte dalle vere essenze, dalle essenze reali. E mentre il linguaggio e il pensiero sono abbandonati dall’oggettività e si volatilizzano nel fantasticare, le essenze reali, irraggiungibili dal linguaggio e dal pensiero, scivolano nell’oscurità, e alla conoscenza umana resta, oltre alla banalità dei nessi analitici, soltanto la percezione momentanea.
La coazione a disprezzare il linguaggio e a sopravvalutare i dati sensibili, nata da uno degli errori più stupefacenti dell’empirismo, continua a trascinarsi nella pedagogia. – Occorrerà infine correggere l’errore, riconoscere che il nome non è la copia immiserita della cosa sensibile né significa un costrutto soltanto individuale, ma indica ciò che delle cose sensibili è essenziale, il loro essere regolate dal nesso necessario di specie e genere, da ciò che Aristotele indicò con il termine di sostanza seconda e Platone con quello di mondo delle idee. Poiché i nomi indicano le idee generali prodotte dall’astrazione e poiché l’astrazione purifica l’esperienza sensibile dalla sua casualità e ne manifesta l’essenza, cioè le leggi che la dominano, la comprensione dei significati dei nomi è incomparabilmente superiore all’esperienza sensibile immediata, come la necessità è superiore alla casualità. Solo chi dispone di nozioni è in grado di non perdersi nell’esperienza. Rifiutarle a scuola è un atto di irresponsabile superficialità.
Hirsch stesso fa professione un po’ sbrigativa di pragmatismo e non indaga le assurdità filosofiche alla base del disprezzo pedagogico delle nozioni. Ma l’esperienza e l’istinto lo inducono a difenderle. Egli osserva che solo un corpus di nozioni condivise permette la comunicazione sociale necessaria al processo democratico; solo le nozioni condivise consentono l’inserimento dell’individuo nell’economia che, come si ripete spesso, è sempre più fondata sulla conoscenza e sulla comunicazione. Soprattutto, le nozioni sono gli elementi della conoscenza che per forza propria costruiscono nessi oggettivi sempre più estesi e approfonditi. Come scrive Platone nel Menone, gli elementi dell’essere – vale a dire i significati delle parole – non sono isolati e inerti come le cose, sono imparentati tra loro, dunque ogni parola posseduta è un tentacolo, scrive Hirsch, verso altre parole, in modo da connetterle e da costituire una rete (sillogistica, direbbe Aristotele) sempre più fitta di necessità logiche, che consente la comprensione della realtà e l’illuminazione dell’esperienza.
Poiché la conoscenza già posseduta consente l’acquisizione di ulteriore conoscenza, Hirsch riprende l’espressione, coniata dai sociologi, di «capitale intellettuale»: proprio come il capitale, le nozioni si accrescono in misura proporzionale alla loro quantità iniziale. È per questo motivo che i differenti contesti famigliari, determinando la dotazione originaria di capitale intellettuale, differenziano profondamente la carriera scolastica e il destino degli individui. Una scuola che sulla scia dei dogmi della pedagogia rifiutasse la conoscenza rinuncerebbe a compensare le differenze famigliari e ad affrancare i bambini poveri dal loro svantaggio. Viceversa, se è interesse sociale ridurre le differenze tra gli individui ed è interesse della conservazione della civiltà diffondere la cultura, la scuola deve preoccuparsi anzitutto del linguaggio degli alunni, non soltanto curando la lettura e la scrittura, ma accrescendo da subito il loro vocabolario, ossia arricchendoli di nozioni.
*
Il quarto capitolo del libro di Hirsch, «Critica di un mondo immaginario», indaga le cause più remote del dominio dell’ortodossia pedagogica negli Stati Uniti. Mentre la tradizione ellenica e quella cristiana non si sono fatte illusioni sull’innocenza infantile, concependola come un immediato scivolare nel male qualora gli educatori non intervengano a correggere e a indirizzare, Rousseau e i romantici, dopo aver sottratto al bambino il suo desiderio costitutivo di diventare grande, concepiscono l’innocenza infantile come il bene, come la presenza del divino nel mondo, e il mondo adulto come corrotto dalla civiltà. Per questo prescrivono un’educazione indiretta, che interferisca il meno possibile con lo sviluppo naturale del bambino, affinché questi, guidato dal suo istinto divinamente infallibile, si sviluppi per il meglio. Il male sarebbe invece affrettare l’opera della natura, costringere il bambino con la disciplina, conformarne la personalità a un modello precostituito. Questa impostazione che fa dell’adulto un satellite del bambino ha imbevuto la mentalità americana con conseguenze catastrofiche sulla personalità degli individui abbandonati al loro narcisismo.
Il modello scolastico statunitense – e ormai nostro – consiste nel diluire e procrastinare gli obiettivi cognitivi per dare tempo alla natura infantile di seguire il suo corso fino al loro raggiungimento per forza di inerzia. L’idea che lo spontaneo sviluppo naturale del bambino possa fornirgli le conoscenze e le abilità necessarie per agire nella civiltà e comprenderla è l’illusione fondamentale di cui è nutrita la pedagogia. Per dissolverla, Hirsch cita lo psicologo evoluzionista David Geary, ma già l’etologo Konrad Lorenz era giunto agli stessi risultati. Ciò che si chiama ‘istinto’ è, insieme alla struttura corporea, l’insieme delle conoscenze dell’ambiente e dei moduli comportamentali che i viventi ereditano dalle vicende evolutive della specie a cui appartengono. L’uomo è una delle specie viventi; come ogni cucciolo delle specie superiori, ogni bambino eredita per via genomica un ricco complesso di strutture cognitive e comportamentali di cui impara l’uso attraverso processi spontanei come l’imitazione e il gioco. Così il bambino impara da solo a interpretare le espressioni dei propri simili, a orientarsi nello spazio e nel tempo, a muoversi nell’ambiente, a comprendere e a esercitare il linguaggio. Geary chiama ‘apprendimenti primari’ queste abilità che ogni bambino acquisisce con l’esercitazione spontanea avendone ereditato le strutture attraverso il codice genetico. Questa acquisizione è autonoma, spontanea, gioiosa, duratura.
Ma tra la specie «uomo» e le specie animali si è formata una profonda frattura evolutiva. Mentre le specie animali dispongono soprattutto del genoma per trasmettersi conoscenze e abilità accumulate nel corso dell’evoluzione e quasi mai apprendono gli uni dagli altri, l’uomo possiede il linguaggio verbale. Solo secondariamente le parole servono a comunicare gli stati d’animo (gli animali, che non parlano, ci riescono benissimo); in primo luogo esse permettono di diffondere e di lasciare in eredità le conoscenze e le abilità acquisite dagli individui tramite le loro esperienze e le loro ricerche. Le conoscenze e le abilità umane hanno nel linguaggio verbale un veicolo che le diffonde immediatamente e le trasmette a tutte le generazioni future. Il linguaggio verbale è anzitutto uno strumento cognitivo e didattico. Di qui la capacità dell’uomo di acquisire un dominio sulla natura inconcepibile nelle altre specie; di qui il fatto che l’uomo non soltanto subisce la lenta evoluzione naturale, ma mette in moto un’evoluzione molto più rapida accumulando le conoscenze acquisite. Infine, l’invenzione della scrittura 5000 anni fa, consolidando il potere conoscitivo e didattico del linguaggio, ha accelerato l’evoluzione umana a quel ritmo travolgente per cui essa merita il nome di storia.
È evidente dunque che, oltre all’eredità naturale di strutture conoscitive e comportamentali trasmesse geneticamente, ogni individuo ha a disposizione un’eredità ulteriore trasmessa nel linguaggio verbale, in particolare nella scrittura. Tra i modi di mettere in opera queste due eredità interviene però una differenza importante. Mentre le strutture cognitive che consentono al bambino l’acquisizione spontanea, per gioco e imitazione, dell’eredità naturale sono presenti nel suo genoma – acquisizione che sopra abbiamo chiamato, seguendo Geary, «apprendimento primario» –, il bambino non possiede nel suo genoma le strutture cognitive che consentirebbero un’acquisizione altrettanto spontanea della scrittura e delle conoscenze veicolate dal linguaggio verbale. L’invenzione della scrittura (5000 anni fa) e delle scienze (a partire da 2500 anni fa) è troppo recente per avere un fondamento biologico. Le strutture cognitive alla base della scrittura (la corrispondenza tra grafema e morfema, i gesti grafici) e delle discipline teoriche, anzitutto della matematica, devono essere create a partire da strutture biologiche destinate ad altre funzioni, ma sufficientemente plastiche da poter essere convertite nella nuova abilità. Geary chiama la creazione e la messa in opera di queste strutture «apprendimenti secondari».
Essi non possono essere acquisiti nelle stesse modalità degli apprendimenti primari, non possono essere spontanei e gioiosi, ma possono dare vita a comportamenti spontanei e gioiosi solo dopo la loro acquisizione: così, acquisita la padronanza della lettura, leggere un libro, perfino scriverlo, possono appassionare non meno del gioco; compresi i concetti fondamentali di una disciplina, sviluppare le loro conseguenze può essere profondamente gratificante, al punto che per Aristotele la teoresi coincide con la felicità propriamente umana. Ma prima che i fondamenti cognitivi siano acquisiti, l’apprendimento secondario è un lavoro faticoso. Che il bambino non lo possa svolgere spontaneamente e volentieri è la ragione dell’esistenza della scuola. La sua tradizionale severità (memini plagosum Orbilium) non è effetto dello schema oppressore/oppresso, ma dipende dalla storicità degli apprendimenti secondari, dalla loro superiorità sulla semplice natura.
L’illusione della pedagogia che la scuola possa essere spontanea e gioiosa e al tempo stesso possa realizzare il suo compito di trasmissione della conoscenza teorica nasce dunque dall’erronea confusione tra apprendimento primario e apprendimento secondario nonché dall’intenzione, certamente buona, ma anche impossibile e irrispettosa della dignità umana del bambino, di perseguire il secondo nelle modalità del primo. La trasmissione della scrittura e delle conoscenze disciplinari non avviene sulla base di strutture innate, implica dunque la didattica diretta e lo studio consapevole: spiegazione, memorizzazione, esercitazione, verifica, valutazione, recupero. I metodi indiretti e inconsapevoli, scrive Hirsch, «vitali, olistici, che motivano intrinsecamente i bambini e per pura coincidenza insegnano loro come lavorare e come usare la conoscenza,» sono «una modalità molto incerta di imparare cose come la grammatica, l’ortografia, la fonetica e le tabelline».
Posta di fronte alla differenza insuperabile tra apprendimento primario e apprendimento secondario, la pedagogia non si dà per vinta. Esige che il benessere dei bambini abbia la precedenza sull’apprendimento, come se la fatica dell’apprendimento presente non fosse indispensabile al loro futuro benessere; rinfaccia l’autoritarismo agli insegnanti, in cui scorge dei malvagi sabotatori dei suoi fantastici ideali; imputa alla loro ottusa refrattarietà il fallimento della scuola forgiata secondo i suoi principi; escogita metodi che consentirebbero l’apprendimento della scrittura nelle stesse modalità spontanee dell’apprendimento della lingua madre. Hirsch menziona a questo proposito il metodo «whole language», responsabile di una epidemia di analfabetismo in California, che lo aveva imposto nelle scuole per legge e per legge dovette poi proibirlo. La pedagogia si spiega inoltre il fallimento dei metodi che raccomanda ricorrendo a capri espiatori: gli ostacoli innati come i diversi stili di apprendimento, o gli ostacoli sociali come la mancanza di autostima a causa di problemi famigliari o del razzismo; così confessa però il suo desiderio illegittimo che gli alunni vengano a scuola già completi di conoscenze e abilità perché la scuola possa fare altro.
L’idea erronea che ci sia una modalità naturale per l’apprendimento di ciò che non è naturale porta non solo a risparmiare agli alunni lo sforzo necessario all’apprendimento secondario, ma anche a rifiutare l’incoraggiamento e l’aiuto agli alunni più lenti, che così sono condannati a restare indietro per sempre. Altra conseguenza è, secondo Hirsch, l’importanza esclusiva attribuita al talento innato, come se il suo possesso esentasse dall’esercitazione paziente per metterlo in opera.
Oltre al naturalismo che trascura l’autonomia della sfera culturale dell’uomo, altro pilastro della pedagogia americana è, secondo Hirsch, l’eccezionalismo. Gli americani respingono i confronti tra il proprio e gli altrui sistemi scolastici perché si sentono unici, «nuovi e naturali» rispetto agli europei «corrotti e decadenti», liberi dal fardello del passato e della tradizione, perfino dal peccato originale, dunque destinati al compito messianico di redimere le altre nazioni. Kilpatrick mise in connessione la rigidità dei sistemi scolastici europei (vale a dire la loro funzionalità all’apprendimento secondario) con una presunta rigidità delle società europee, e il sistema scolastico americano, quale lui lo desiderava, – mobile e dinamico (vale a dire centrato sul solo apprendimento primario) – con la dinamicità della società americana. Sempre Kilpatrick escogitò l’idea erronea, ripetuta però dai pedagogisti fino alla nausea, che la conoscenza sia inutile perché è fatta di nozioni statiche rese subito obsolete dalla vorticosa mutevolezza della realtà – come se le conoscenze scolastiche non fossero fatte di parole che in quanto universali sono espressioni non della realtà mutevole, ma delle essenze, cioè delle leggi che governano proprio la mutevolezza della realtà.
La presunzione di libertà che anima l’eccezionalismo della mentalità americana, ne sollecita, afferma Hirsch, anche il localismo. Non esiste propriamente un sistema americano d’istruzione, perché la sua amministrazione non è esercitata dal governo federale, ma a livello degli Stati federati, dei distretti e delle singole scuole, tutti gelosi delle loro competenze, tutti diffidenti nei confronti del potere centrale, ma tutti conformisticamente aderenti all’ortodossia pedagogica che lusinga l’idem sentire romantico. L’effetto della frammentazione, sommato all’orientamento anticognitivo, è la mancanza di un curricolo comune e la sua sostituzione con traguardi di competenze inconsistenti e fumosi, divenuti tristemente noti anche in Europa. L’assenza di una base di conoscenze condivise ha effetti disgreganti sulla società americana: i gruppi di cui è costituita si chiudono alla comunicazione reciproca nel culto tribale del loro spirito particolare.
Altra caratteristica dell’ortodossia pedagogica americana è, per Hirsch, l’individualismo. Esso ha un sapore spiccatamente romantico e democratico: ogni bambino esce dalla mano di Dio, che lo ama e lo dota dunque di una particolare genialità. Poiché ogni bambino è unico e geniale, bisogna respingere la competizione scolastica che produrrebbe inevitabilmente una graduatoria di differenti genialità. Sempre per lo stesso motivo, la pedagogia abolirebbe la valutazione; ma, per non urtare contro la resistenza dei genitori e degli alunni, è costretta a conservarla; tuttavia esige che si risolva in una valorizzazione, che tenda dunque al massimo della scala e in ogni caso eviti le ripetenze. Dalla inflazione dei voti e dalla promozione sociale ci si attende il rafforzamento dell’autostima, dall’autostima rafforzata la garanzia del successo. La ricerca dimostra tuttavia, osserva Hirsch, che l’autostima non ha nessuna correlazione con il successo effettivo; non solo: essa deprime la disposizione allo sforzo cognitivo, che, questo sì, porta al successo.
Così in America, come da noi, si fronteggia il disastro scolastico truccando i voti e spingendo tutti avanti per inerzia; non si fronteggiano i risultati particolarmente disastrosi di particolari gruppi etnici con interventi precoci a compensare il loro svantaggio, ma ritoccando i loro punteggi finali. Si tratta di «azioni affermative» che non solo nascondono il problema invece di risolverlo, ma che in effetti lo aggravano, perché evitano alla scuola lo sforzo didattico necessario a colmare effettivamente lo svantaggio e lo lasciano ingigantire nascondendolo sotto valutazioni irrealistiche. Poi, quando lo svantaggio emerge al di fuori della scuola, nell’ambito dell’occupazione, non resta che imputarlo all’incapacità del mondo di apprezzare la diversità o, addirittura, all’inferiorità naturale del gruppo etnico.
A giustificare l’individualismo romantico è giunto infine l’immeritato successo del libro di Gardner sugli stili multipli di apprendimento. Hirsch osserva che la concezione di Gardner è stata respinta da psicologi importanti come il prof. Miller, che ne ha rilevato la vaghezza e l’incapacità di fornire chiari orientamenti didattici. I pedagogisti l’hanno accolta invece come uno strumento per continuare a sminuire la centralità delle conoscenze e delle abilità teoriche; infatti Gardner le ridimensiona per fare spazio ad altre sei intelligenze, tutte ugualmente importanti, in modo che a nessun bambino sia precluso il godimento di una qualche versione della genialità.
Altro pilastro dell’ideologia pedagogica è, secondo Hirsch, l’antintellettualismo. Per quanto volti alla pratica, gli americani non disprezzano la curiosità intellettuale diretta alle cose, ma solo quella diretta ai discorsi teorici e ai libri. La loro letteratura abbonda di allusioni al contrasto tra la conoscenza di parole e la conoscenza empirica. Walt Whitman non tollera la conferenza di astronomia, preferisce uscire nel paesaggio notturno per ammirare le stelle con i suoi occhi. Emerson, l’idolo di Dewey, scrive tirate contro la scuola e i suoi frequentatori, a cui preferisce la fattoria e il contadino. Il disprezzo della conoscenza teorica nutre i Principi cardine del 1918 e il proposito di Kilpatrick di abolire le materie disciplinari e sostituirle con i progetti. L’antintellettualismo è così irresistibile che negli anni Quaranta la scuola americana si spoglia dell’aspetto culturale e assume un esclusivo orientamento utilitario.
La tradizione anglosassone ha difficoltà a comprendere la natura e l’importanza della conoscenza teorica, fatta di parole, «astratta». Nonostante includa la logica, la matematica e le scienze in generale, e sia dunque indispensabile a un’economia in cui, non la manualità, ma il progresso tecnologico è la prima condizione di successo, la conoscenza teorica continua ad apparirle sterile e oziosa. Sarebbe sbagliato intendere questo disprezzo come bisogno di oggettività e concretezza. Al contrario, la mentalità anglosassone è segnata da una potente esigenza di individualismo. Proprio come lo scetticismo antico difese l’atarassia individuale privando le cose del loro essere, l’individualismo anglosassone si trova a suo agio più nella casualità dell’esperienza sensibile delle cose che nella loro necessità determinabile dal pensiero ed esprimibile solo attraverso il linguaggio. Infatti la necessità non solo strappa l’oggetto dalla sua casualità, strappa lo stesso individuo dal senso di onnipotenza che la casualità del mondo sembra consentirgli. È dunque il senso dell’onnipotenza soggettiva che spinge la tradizione anglosassone a rinunciare al perché e a perdere il senso del linguaggio. È questo individualismo astratto che da Locke, attraverso gli illuministi, si è insinuato in Rousseau e ha disegnato un cerchio magico da cui la pedagogia non sa ancora uscire.
Poiché le altre scienze la guardano con disprezzo e il suo status accademico resta sempre precario, la pedagogia statunitense reagisce, secondo Hirsch, creando un separatismo accademico che, non potendo fondarsi su alcuna scienza, si fonda sul rifiuto di tutte le scienze. Fu Kilpatrick a mettere la pedagogia su questo sentiero che ne garantisce l’indipendenza collocandola in un territorio prescientifico, quello della sacra intangibilità dello sviluppo spontaneo della natura infantile, e ponendole come obiettivo l’esclusione dalla scuola della conoscenza discorsiva, dei suoi metodi e della fatica che implicano.
A questa operazione oscurantista Kilpatrick diede una falsa veste scientifica. Da allora la pedagogia, che nasce dall’intimo rifiuto della scienza, spaccia la sua metafisica naturalistica per scienza e manipola sistematicamente i risultati della ricerca. Essi confermano da sempre ciò che il senso comune e il concetto prevedono: per quanto piccole dosi di attivismo possano migliorare i risultati della didattica tradizionale, guidata dall’insegnante, che è e sempre resterà l’unica efficace, i metodi scolastici che si affidano alle forme dell’apprendimento primario dei discenti sono fallimentari.
La più eclatante delle manipolazioni pedagogiche della ricerca è, secondo Hirsch, il proposito di fondare i metodi attivistici sul costruttivismo psicologico. La pedagogia crede che le abilità specificamente teoriche, che implicano cioè un’estesa riserva di conoscenze e informazioni, quali le abilità di ordine superiore per affrontare problemi nuovi, la soluzione dei problemi, l’imparare a imparare, l’apprendimento per tutta la vita, siano raggiungibili molto meglio nell’ignoranza, quindi attraverso i metodi indiretti della ricerca, dell’induzione, dell’esperimento, della scoperta ecc., organizzati dagli alunni anziché dagli insegnanti. In questo modo, l’alunno non riceverebbe passivamente la conoscenza, ma la costruirebbe attivamente. A sostegno della sua scelta metodica la pedagogia chiama il costruttivismo.
Generalmente accettato dalla psicologia, esso nasce dal constatare che la memoria non restituisce intatto ciò che è stato a suo tempo percepito e poi conservato, ma ricostruisce l’esperienza originale, a volte in modi molto differenti e senza rendersene conto. Si è visto, per esempio, che dei discorsi altrui non si memorizzano mai le parole esatte, ma i concetti, e li si restituisce poi con nuove parole. Da questo carattere costruttivo della memoria non è però affatto deducibile la superiorità dei metodi pedagogici che si affidano alle attività spontanee degli alunni. È anzi deducibile il contrario: i metodi tradizionali, che secondo l’accusa della pedagogia inducono la passività, sono essi stessi costruttivi e non potrebbero rendere passivi gli alunni neanche se lo volessero. Ricordare una lezione ex cathedra non è riprodurre una registrazione fonografica premendo un tasto, ma esporne una elaborazione personale; comprendere un discorso non è caricarlo in memoria, ma ricostruirlo così da connetterlo con il già noto. In generale l’ascolto e la lettura non sono affatto atteggiamenti passivi, ma implicano specifiche e raffinate attività interpretative, che se hanno successo consentono di indovinare i contenuti dei messaggi. Le calunniate lezioni frontali non sono dunque meno attive, per chi le comprende, delle attività organizzate dai discenti. È vero che queste sono ricordate più facilmente rispetto ai contenuti ascoltati o letti; ma sono anche lente, insicure nel loro procedere e inaffidabili nel loro risultato. La maggiore efficacia dei metodi raccomandati dalla pedagogia è un mito.
La pedagogia mira, secondo Hirsch, all’accesso diretto, senza la mediazione della conoscenza, alle cosiddette «abilità mentali di ordine superiore». Già questo nome preclude la considerazione serena del tema. Più correttamente lo psicologo Siegler le ha chiamate «conoscenze associate», vale a dire le abilità sviluppate dal molto conoscere, che costituiscono il pensiero esperto. Qualificando come superiori queste abilità associate, la pedagogia squalifica senza motivo razionale le conoscenze contenutistiche attorno alle quali esse si sviluppano e può così sostenere che quelle siano praticabili direttamente e vantaggiosamente anche dal principiante.
Le abilità razionali di ordine superiore includono il pensiero critico, la soluzione dei problemi e le strategie metacognitive. La pedagogia crede che l’insegnamento diretto di queste abilità sia superiore, dunque preferibile, all’insegnamento delle discipline. Già qui si può notare la contraddizione di polemizzare per un verso contro l’insegnamento diretto dei contenuti e di raccomandare per l’altro verso l’insegnamento diretto delle loro forme più astratte. Per la didattica tradizionale questa contraddizione non esiste: ogni buon insegnante, insieme ai contenuti, suggerisce le tecniche di elaborazione più efficaci, in modo che siano apprese insieme e con vantaggio reciproco. In ogni caso la ricerca scientifica nega l’efficacia dell’insegnamento diretto di quelle che Siegler chiama conoscenze associate.
È una negazione poco sorprendente; infatti il proposito di iniziare dalla riflessione anziché dall’immediatezza contiene un controsenso logico. La riflessione, l’intentio secunda degli scolastici, cioè il conoscere non le cose, ma la conoscenza delle cose, non può che avere luogo dopo la conoscenza delle cose. Non posso riflettere se non sul mio conoscere passato, per rilevarne la forma ed eventualmente correggerla e sistematizzarla. Se nondimeno, seguendo la pedagogia, la didattica evita la conoscenza e inizia direttamente dalla riflessione su di essa, allora questa riflessione non è il conoscere la mia conoscenza, non è acquisire la consapevolezza di un mio atto, ma è conoscere una conoscenza non mia, è rapporto con un estraneo proprio come la conoscenza della cosa che si è evitata per la sua estraneità. E c’è un secondo svantaggio: pur resa immediata per la scelta di iniziare da essa, la riflessione resta una conoscenza più astratta, dunque più difficile e meno coinvolgente, perché non parla di cose intuitive, ma del rapporto tra il sé e le cose intuitive, quando la consuetudine con queste ultime non è stata ancora acquisita. In terzo luogo, poiché per iniziare dalla riflessione occorre separarla dalla conoscenza immediata, essa non è più un procedimento già dato implicitamente nella conoscenza dell’oggetto e che può essere utile esplicitare, ma diventa una disciplina a sé stante, che non si applica facilmente al resto delle discipline. Per questo, osserva Hirsch, dopo aver frequentato il corso di logica gli studenti continuano a fare gli stessi errori logici; per questo i logici di professione non pensano più logicamente degli altri nelle materie che non conoscono. Infine, poiché per iniziare dalla riflessione la si rende una disciplina a sé stante, separata dalle altre discipline, essa è ora una disciplina in più, che sottrae tempo alle altre e pone il problema se il danno derivante dal sacrificio delle altre valga i suoi benefici. Insomma, iniziare da ciò che segue, non può che aumentare le difficoltà senza offrire vantaggi di sorta.
Analoghi problemi si verificano col celebre imparare a imparare. L’espressione riflessiva indica un fenomeno ben preciso, cioè l’acquisizione inconsapevole di abilità generali nello svolgere attività particolari: come conversando su un argomento particolare si impara l’arte del conversare in generale, così imparando le particolari materie disciplinari si impara a imparare, vale a dire si acquisiscono atteggiamenti generali come l’interesse per l’inconsueto, la pazienza di fronte alle difficoltà iniziali, le tecniche per tenere desta l’attenzione e così via. Se invece la riflessione precede e sostituisce l’immediatezza, se si crede che l’abilità generale che si ottiene dalla consuetudine con il particolare debba essere conseguita direttamente, allora siamo nel caso di chi desidera la frutta, ma rifiuta mele, pere, arance, pesche perché sono una frutta, non la frutta, e imparare a imparare diventa l’apologia dell’ignoranza con l’ipocrisia aggiuntiva di desiderare qualcosa di meglio della conoscenza.
Allo stesso modo, la metacognizione (il termine orribile, mezzo greco mezzo latino, che la pedagogia usa per indicare la riflessione), ossia l’insegnamento ai principianti (a chi non conosce) delle strategie di studio degli esperti (di chi conosce), è utile solo se segue la cognizione: se il discente è impegnato a comprendere e a memorizzare un contenuto disciplinare, un suggerimento di tipo procedurale (come sottolineare, come riassumere, come consultare il vocabolario, dove dirigere dapprima l’attenzione…), quindi riflessivo, metacognitivo, può rendere lo studio più efficace. In caso contrario l’insegnamento separato della metacognizione è difficile e genera il problema di se, come e quando applicarla. Robert Siegler, che ha il merito di aver contestato il titolo pomposo di «abilità mentali di ordine superiore» e di aver introdotto quello più modesto di «conoscenza associata», ha evidenziato un ulteriore problema: nello studiare un contenuto gli alunni sviluppano loro strategie, adatte al loro livello di consuetudine con il contenuto studiato. L’insegnamento separato delle strategie metacognitive, vale a dire delle tecniche di studio degli esperti, può portare a una prematura e dannosa soppressione delle strategie spontanee dei principianti (questo accade, per esempio, quando si impedisce ai bambini di contare con le dita, perché i più esperti ne fanno a meno).
Da queste critiche nasce la raccomandazione di Hirsch che non si conceda indipendenza al lato formale, riflessivo dell’apprendimento, che lo si articoli nella didattica delle discipline, ossia che si respinga l’abuso che la pedagogia ne fa per assicurarsi, attraverso la pretesa indipendenza del momento formale dalle discipline, la sua inesistente autonomia.
La conoscenza delle discipline non è una materia inerte che diventa utilizzabile dall’intelligenza con l’applicazione di abilità formali imparate a parte – secondo quella che Hirsch chiama la metafora dello strumento. Solo un pensiero astratto può separare materia e forma come se fossero opzioni alternative. Non basta saper tradurre in suoni i segni grafici per comprendere ciò che si legge, non è sufficiente neanche conoscere le forme grammaticali: per comprendere occorre conoscere i significati delle parole, occorre possedere le nozioni con i loro nessi specifico-generici. Vale a dire, le nozioni non sono immagini inerti, ma in quanto specie sussunte in generi presentano un lato formale non meno importante delle abilità formali in senso proprio, e credere che sia sufficiente il possesso di abilità formali universalmente applicabili per poter impadronirsi delle scienze significa concepire queste ultime come se fossero chiacchiere quotidiane.
*
I pedagogisti, osserva Hirsch, hanno un rapporto difficile con le prove e le valutazioni. Non solo perché fanno emergere che le scuole che essi hanno forgiato sono inutili o dannose per chi le frequenta, ma anche per una ragione di principio: se la scuola deve limitarsi a essere un ambiente, reale o virtuale, in cui gli alunni, giocando e facendo libere esperienze guidate dai loro interessi del momento, sviluppano secondo il ritmo di ciascuno il proprio immancabile talento innato, non c’è alcun motivo di fare prove e valutarle – è sufficiente attendere. Anzi, ci sono buone ragioni per evitarle: le valutazioni possono scatenare la competizione e annullare la cooperazione (l’abitudine all’antitesi non permette alla pedagogia di capire che esse si completano a vicenda), offendono il principio di uguaglianza (come se impedire il manifestarsi dell’eccellenza non fosse un grave danno per tutti, anche per gli invidiosi). Così Kilpatrick abolì verifiche e valutazioni insieme alle materie disciplinari. Mettendosi al suo seguito, la pedagogia tutta crede che le valutazioni siano premi e punizioni esteriori, che scoraggiano il desiderio intrinseco, autentico di imparare, dunque inducono a un apprendimento superficiale destinato a una rapida evanescenza. Anche qui l’ossessione dell’antitesi impedisce la visione dell’evidenza. Hirsch rileva che la ricerca scientifica conferma l’esperienza di ciascuno, secondo cui la verifica e la valutazione spingono i discenti a studiare meglio e ad apprendere di più rispetto a quanto farebbero stimolati dal solo interesse personale. In altre parole, il premio o la punizione esteriore non scaccia l’interesse intrinseco, anzi gli si accompagna e lo rende più efficace.
Le ragioni sono evidenti e le abbiamo già esposte. Poiché la scuola è trasmissione della lingua dotta e dell’essenziale della scienza e dell’arte di una civiltà, e non uno sviluppo naturale di attitudini innate, l’apprendimento scolastico è diverso dall’apprendimento spontaneo: non può basarsi sul gioco, che è la forma prevalente in cui le attitudini ereditate biologicamente dai viventi diventano abilità in atto. La scuola va oltre le attitudini naturali all’orientamento, al movimento e al linguaggio orale, e costruisce le strutture specificamente umane alla base della tradizione della civiltà – quelle della scrittura e della matematica. Acquisite, la loro pratica può essere piacevole o diventare addirittura un bisogno; ma la loro acquisizione è sempre un lavoro. Mentre il gioco è un’attività fine a sé stessa, che ha nel presente la sua ricompensa, il lavoro è un’attività per realizzare uno scopo, che ha dunque la sua ricompensa nel futuro. Nel presente occorre dunque controllarne il progresso e l’adeguatezza allo scopo. Questo controllo è la verifica e la valutazione. Abolirle, come si chiede con irresponsabile insistenza, significa abolire il carattere di lavoro dell’attività scolastica, la rinuncia all’apprendimento adeguato dei presupposti della scienza e della cultura e l’abbandono degli alunni all’inerzia o, nel caso degli alunni dotati di talento, al dilettantismo. Ma la scuola è l’antitesi del dilettantismo. La scuola senza verifiche e valutazioni è dunque opposta a sé stessa.
Il rifiuto viscerale delle verifiche e delle valutazioni si dirige anzitutto contro le prove oggettive. I pedagogisti americani trasferiscono su di esse la colpa del declino della scuola; i pedagogisti italiani, con l’appoggio del mondo progressista e del romanticismo popolare, levano contro le prove oggettive, che il ministero fa somministrare per poi ignorare i loro risultati costantemente catastrofici, l’accusa incredibile di essere meno attendibili delle consolanti valutazioni scolastiche, o quella di servire a profilare gli alunni in vista dell’avvento della distopia.
In realtà, osserva Hirsch, le verifiche in generale sono indispensabili, perché 1) incentivano gli alunni e gli insegnanti a raggiungere i migliori risultati possibili, 2) controllano l’apprendimento degli alunni e consentono di individuare e superare le loro difficoltà. D’altro canto le prove oggettive non pretendono affatto, come si obietta con una certa superficialità, di dare una inesistente conoscenza definitiva degli alunni (gli alunni non possono essere definitivi), ma consentono 1) una campionatura più ampia delle conoscenze e delle competenze da verificare e 2) una valutazione indipendente dalla competenza e dal gusto di chi corregge, quindi una imparzialità incomparabilmente maggiore. Esse sono indispensabili al controllo amministrativo delle classi, degli istituti scolastici e delle stesse iniziative dei vertici. «Senza controllo efficace non sono possibili né una buona didattica né la buona amministrazione scolastica».
Hirsch osserva però che l’importanza dell’imparzialità delle valutazioni varia secondo i contesti. Scopo della verifica e della valutazione scolastica non è confrontare gli alunni di una classe per collocarli in una graduatoria di merito, ma controllare il progresso del loro apprendimento e l’adeguatezza dell’impegno necessario, rilevare le debolezze per superarle. A scuola i difetti delle verifiche prestazionali, di cui il secondo paragrafo del capitolo sui test dà un brillante elenco, cioè l’esiguità delle conoscenze campionate (poche domande rispetto a quelle possibili) e l’impossibilità di una valutazione imparziale a costi ragionevoli, non sono ostacoli rilevanti. Esse hanno inoltre il vantaggio di richiedere dagli alunni la costruzione libera del discorso, costituiscono quindi un’occasione indispensabile per esercitare le abilità argomentative autonome. Hirsch riconosce poi che anche le prove oggettive hanno i loro difetti. Qualora ci sia modo di prevederle, esse non solo possono essere facilmente raggirate, ma deformano la didattica sollecitandola a concentrarsi sulle conoscenze e le abilità oggetto di prova, a trascurare il resto e a introdurre come studio principale l’assimilazione delle tecniche e delle furbizie utili ad aumentare le probabilità di risposta esatta in assenza di conoscenza. Solo se si garantisce l’imprevedibilità, le prove oggettive danno risposte attendibili e imparziali. Altro difetto insuperabile è, non l’incapacità di valutare e quindi sollecitare il pensiero critico, perché non è affatto necessario che i questionari vertano su semplici fatti, ma possono riguardare anche i ragionamenti, ma l’incapacità di valorizzare il percorso argomentativo dell’alunno, il loro limitarsi al suo risultato. In questo senso non sollecitano lo sviluppo dell’autonomia dell’alunno. La conclusione di Hirsch è che la valutazione più completa e imparziale, che al tempo stesso più stimola l’apprendimento, risulta dall’uso combinato di prove prestazionali e di prove oggettive.
Il libro di Hirsch non solo vuole avere il valore teorico di illustrare e spiegare la catastrofe della scuola americana; vuole avere anche un valore pratico, vuole essere uno strumento per aiutare il lettore a impadronirsi delle conoscenze con cui demistificare i facili luoghi comuni della pedagogia progressista, così da sottrarsi alla loro seduzione. Per questo alla fine del libro il lettore troverà un capitolo che riassume con grande incisività le tesi principali esposte nelle pagine precedenti, e un glossario sul gergo pedagogico: l’elenco delle sue parole magiche, le loro definizioni e le obiezioni a cui esse prestano il fianco.
Criticare la pedagogia è facile in quanto consiste nel confondere l’apprendimento secondario con l’apprendimento primario, dunque presuppone una implicita riduzione dell’uomo alla sua animalità che essa stessa non riuscirebbe ad accettare in forma esplicita. Tuttavia la profonda offesa che la pedagogia infligge al bambino disconoscendone l’ammirazione per gli adulti e il desiderio intenso di apprendere per diventare uno di loro è sommersa e resa inconoscibile dal sentimentalismo romantico che scorge il divino proprio dove è meno presente, nella natura. Contro il sentimentalismo desideroso che i bambini non crescano, ma restino bambini, perché l’amore che porta loro non è autentico ma serve solo a travestire l’odio contro gli adulti, la critica su basi logiche non può avere effetto immediato, deve dunque lavorare con tenacia, consapevole di avere dalla sua parte più la realtà che le opinioni. Possa essere il lavoro di Hirsch l’inizio di un risveglio del mondo della scuola che, per quanto lento, sappia infine restaurarne la sostanza.
Autore: Eric Donald Hirsch, Jr.
TItolo: Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo
Traduzione: Paolo Di Remigio e Fausto Di Biase
Editore: Petite Plaisance, Pistoia
Anno: 2024
Titolo originale: The Schools We Need, And Why We Don’t Have Them
Prima edizione: Doubleday, 1996
https://www.petiteplaisance.it/libri/471-480/477/sin477.html
Un commento