Una risposta a Giovanni Carosotti
Una risposta alla bella recensione che il prof. Carosotti ha dedicato alla traduzione italiana del libro di Hirsch sul fallimento del sistema scolastico statunitense.
Caro Giovanni,
grazie della bella recensione, che testimonia come il testo di Hirsch ti abbia colpito non meno di quanto abbia colpito noi che lo abbiamo tradotto. In questa risposta vorrei discutere alcune tue considerazioni che non condivido ma su cui potremmo trovare un’intesa. Il punto maggiore di disaccordo è questa tua frase: «Apparentemente Hirsch non propone un’analisi politica a giustificare questa deriva; non si fa mai cenno al contesto neoliberista e alle ragioni economicistiche che sono alla base di questa tendenza riformatrice finalizzata a promuovere l’ignoranza tra le giovani generazioni». A me sembra che nella concezione di Hirsch il disastro della scuola americana non abbia un’origine economica né sia effetto dell’ideologia neoliberista, ma derivi interamente dagli errori della pedagogia progressista o attiva. E se nel lavoro precedente, «Cultural Literacy», Hirsch accusava direttamente Dewey, in quest’opera, forse per favorire la formazione di ampie alleanze, forse perché il libro vuole inserirsi in un fronte unico comprendente i magnifici testi della Ravitch, che è piuttosto tenera con Dewey, l’accusa cade su Kilpatrick e in generale sull’ambiente del Teachers College della Columbia University.
Tu parli di «una strategia falsamente riformatrice i cui obiettivi rispondevano a criteri di dominio economico». Io ho dubbi sulla plausibilità della nozione di «dominio economico» nel contesto dell’economia di mercato. La nostra economia è regolata da meccanismi che si formano sulla base degli scambi contrattuali; il contratto è un accordo tra persone libere, ed esse lo stringono perché vi scorgono il loro utile. Ovviamente, nel mercato si formano posizioni dominanti; esse però possono farsi valere solo rispettando la caratteristica di fondo del sistema, il suo basarsi sulla libertà contrattuale. Il controllo totale sulla vita degli uomini, cui mi sembra alluda la tua espressione «dominio economico», è forse accarezzato da qualche grande gruppo industriale, ma resta una nozione essenzialmente estranea al sistema di mercato; esso è stato perseguito e in parte attuato dal comunismo, che abolisce il mercato, dunque il contratto, e lo sostituisce con il controllo statale dell’economia. La promessa marxiana di costruire una società più produttiva e senza sfruttamento è stata subito tradita dall’economia pianificata: essa è non solo inefficiente, ma comporta qualcosa di molto peggio dello sfruttamento: la militarizzazione del lavoro, cioè il controllo totalitario del lavoratore da parte di un apparato di partito. Il mio timore, Giovanni, è che la nozione di «dominio economico» attribuisca la natura totalitaria del comunismo al capitalismo, facendone l’origine di ogni male e, quasi per definizione, il nemico irriducibile della scuola. La storia non testimonia però questa ostilità: l’esigenza della scuola pubblica è nata dalla borghesia ed essa è stata realizzata nell’ambito dell’economia di mercato.
Quello che la scuola italiana ha subito dalla fine del secolo scorso è, non una irruzione del capitale, ma una americanizzazione della didattica, l’adeguamento a un modello che, come si vede bene in Hirsch, nulla ha a che fare con una specifica esigenza del capitale statunitense, ma nasce dal pregiudizio puerocentrico della società americana nel suo complesso, si è espresso nella pedagogia progressista di Dewey e Kilpatrick di inizio Novecento e si è imposto con il radicalismo della contestazione studentesca degli anni Sessanta. Le burocrazie della UE e delle organizzazioni sovranazionali hanno certamente favorito questa virata, non perché, a quanto mi sembra, l’abbiano recepita da un programma di dominio del capitalismo neoliberale; ma perché nella scuola americanizzata, senza alfabetizzazione e senza istruzione, esse intravvedono un modello che moltiplica le occasioni per esercitare la loro influenza sui giovani.
Della strategia capitalista contro la scuola scrivi ancora che era finalizzata a «indebolire il senso critico degli studenti, per renderli soggettività integrate in un sistema di valorizzazione, incapaci di una reale critica sistemica». Concordo con la tua convinzione che la conoscenza di cui la scuola deve essere organo di trasmissione sia esercizio del pensiero critico. Ma per me è importante sottolineare la natura «teorica» di questo atteggiamento critico: la scuola insegna a leggere con rispetto e attenzione ciò che ci è tramandato, in modo che il nuovo, di cui i giovani devono essere portatori, sia una scrittura che non inizi da zero, ma faccia tesoro di ciò che essi criticano. Aristotele critica Platone, suo maestro, ma ne conserva l’esigenza più profonda, quella della scienza. – Quando però aggiungi al sostantivo «critica» l’aggettivo «reale», ti esponi all’equivoco di attribuire alla scuola un compito di critica «pratica» del sistema, di pensarla cioè come tirocinio rivoluzionario. Mi sembra molto improbabile che questo sia il tuo pensiero. Su questo punto sarebbe però necessaria la massima chiarezza, perché ne va della natura della nostra critica della scuola attuale. Non possiamo rimproverarle ciò che le rimproverano i pedagogisti, cioè che essa soffra di una chiusura nella torre d’avorio dell’erudizione o della tecnica. Tutt’al contrario! Noi sappiamo bene che la scuola attuale, a partire dalla riforma dell’autonomia che la legò al territorio, aizza gli alunni verso l’impegno pratico (cittadinanza attiva) e a tal fine fa proprie tutte le possibili istanze progressiste (educazione civica giocata tutta sull’Agenda 2030, diritti umani a profusione, inclusività totale, perfino i laboratori STEM da strutturare così che favoriscano il superamento del gender gap nelle discipline matematiche e scientifiche), mentre trascura con cinismo inaudito la semplice alfabetizzazione e, a fortiori, le materie disciplinari. Essa vuole essere una scuola che educa (in senso pregnante) cittadini cosmopoliti, multiculturali, egualitari, ecologici, lasciandoli peraltro analfabeti e ignoranti. C’è un «deep state» ministeriale che spinge verso una politicizzazione in senso progressista. La nostra lotta per la restaurazione della conoscenza teorica a scuola deve fronteggiare anzitutto questa spinta al pragmatismo ideologico.
Parli, poi, di «pseudo-scienza pedagogica». Su questa valutazione sono così d’accordo che anzi la inasprirei parlando di «anti-scienza». Per un verso, infatti, la pedagogia ostenta perfino con volgarità il suo atteggiamento ostile alla conoscenza: non solo parla con disprezzo delle «nozioni», senza capire che le nozioni sono le parole, quindi gli elementi preziosi di ciò che per l’uomo è più prezioso, cioè del linguaggio; pretende inoltre che la conoscenza consista soltanto di nozioni, cioè di parole staccate – dimenticando che le parole sono legate nei giudizi e i giudizi nei sillogismi; ignora infine che la rinuncia alla conoscenza equivale alla disgrazia più grande che possa colpire la mente: alla rinuncia all’oggettività. Tanta ostilità anticognitiva nelle ricette della pedagogia risponde a un’ansia apologetica: serve a giustificarne la natura ideologica, che rende precario il suo rapporto con la scienza e la realtà.
A me sembra tuttavia urgente non solo la giusta accusa di pseudo-scientificità, ma anche l’indicazione del vero stato della conoscenza scientifica sulle questioni che riguardano l’educazione e l’istruzione, in modo da avviare un ripensamento nella parte redimibile del mondo pedagogico, che la induca a liberarsi dai vieti schemi di cui è prigioniera. L’anti-scientificità della pedagogia nasce in parte dall’empirismo rousseauiano (essendo autodidatta, odiava la cultura scolastica e trovò nell’empirismo che gli illuministi avevano assorbito da Locke un sostegno al più volgare senso comune), in parte da una ricezione difettosa, quella di Dewey, dell’evoluzionismo darwiniano, una ricezione che non riconosce il salto dall’organico all’umano, che tende dunque a ignorare la specificità dell’umano. Ma l’evoluzionismo successivo ha precisato il pensiero darwiniano: la selezione naturale opera su una variabilità dei viventi provocata dalla mano divina delle «mutazioni genetiche»; l’evoluzione non è dunque solo continuità, è anche rottura, creatività. Per questo l’uomo è anche animale, ma non è solo animale; in lui si sono connesse abilità che, per quanto già presenti in diverse specie viventi, hanno formato qualcosa di assolutamente nuovo, che in quelle non si trova: il pensiero concettuale espresso nel linguaggio sintattico. Su questa concezione più discontinua dell’evoluzione biologica si è sviluppata l’etologia, la scienza che studia il comportamento dei viventi e che con Konrad Lorenz giunge a conclusioni in grado non solo di confutare i pregiudizi naturalistici su cui è costruita la pedagogia moderna, ma anche di fondare una pedagogia adeguata alla natura dell’uomo e ai compiti del bambino.
A differenza degli animali, l’uomo non dispone soltanto dell’eredità biologica, ossia del patrimonio di informazioni accumulate nel corso dell’evoluzione della sua specie, fissate nel genoma e che danno forma al corpo e al comportamento; nella vita umana all’eredità biologica si aggiunge l’eredità culturale, contenuta nel linguaggio di parole e nella scrittura di cui, unico tra tutti gli animali, egli dispone. La scuola esiste perché l’eredità culturale è racchiusa in libri a cui non si può accedere senza l’aiuto di un insegnante. Quanto è dimostrato in modo sistematico dall’etologia, è confermato con l’esperimento dalla psicologia contemporanea: Richard D. Geary, che Hirsch menziona, ha ribadito nel suo ultimo libro la differenza dell’apprendimento primario, che deve avvenire spontaneamente, per mezzo del gioco, e che consiste nel mettere in atto le informazione e le abilità ereditate per via genetica, dall’apprendimento secondario, che risulta da un lavoro consapevole e diretto dall’insegnante, per appropriarsi dell’eredità culturale. La pedagogia che pretende che il bambino possa acquisire l’eredità culturale nello stesso modo dell’eredità biologica, giocando (giustamente tu la stigmatizzi come «demagogica»), distorce con il sentimentalismo romantico una visione arcaica e inadeguata – ottocentesca – dell’evoluzionismo biologico.
A mio parere, più efficace della critica politica della scuola attuale, che spesso finisce nel paradosso di esasperare le istanze progressiste che già la dominano, sarebbe lo sforzo teorico di aiutare la pedagogia ad abbandonare la sua posizione ideologica, affinché si connetta alla scienza e alla realtà, in modo che cessi di offendere gli insegnanti e di rovinare la cultura e gli studenti con le sue assurde escogitazioni.
Caro Paolo,
La tua tesi sulla preminenza praticamente totalizzante della pedagogia pseudoscientifica/antiscientifica eventualmente promossa dalla sinistra più gruppettara ed anti-Gramsciana è espressa con limpida nettezza e passione. Tuttavia proprio non me la sento di non considerare l’interesse ed il gaudio che le masse ignoranti procurano e sempre hanno procurato al potere. Che questo sia detenuto dal Papa, dal Re, da Stalin o dal turbo-neoliberismo credo faccia assai poca differenza. Ed è un fatto che attualmente l’Occidente sia governato dal neoliberismo. Credo che tanto basta per rendersi conto che è impossibile espungere la politica dall’analisi della situazione in cui versa oggi la scuola. E francamente, da uomo di sinistra ferocemente critico sulla sinistra odierna, debbo ammettere di non riuscire ad attribuirgli la responsabilità politica principale dello sfacelo che rileviamo.
Caro Marco,
se neoliberismo comprende come tratto essenziale la fede che il mercato sia l’unico regolatore efficiente della vita sociale, si può dire che la fase neoliberale sia finita nel 2008, quando la FED, dopo aver lasciato cadere Lehman Brothers per non intromettersi nel mercato, ebbe paura della catastrofe finanziaria mondiale, infranse i principi neoliberali, stampò e prestò ovunque dollari senza limiti.
La tendenza più preoccupante del nostro tempo è la demonizzazione della tradizione occidentale che procede perfino contro la libertà di pensiero, il lascito più prezioso della cultura greca. Questo è il fondamento della crisi della scuola ed è prodotto del millenarismo progressista.
D’altra parte mi sembra una fiducia eccessiva nelle masse pensarle come assetate di scienza e incuranti delle fatiche intellettuali. In questo campo vale purtroppo il detto evangelico “compelle intrare”.
Sono d’accordo, Paolo. A mio modesto parere sarebbe più corretto scrivere “neo-liberista” e non “neo-liberale”, come fanno molte persone scordando la distinzione che esiste nella lingua italiana grazie a Einaudi e Croce.
Grazie dell’intervento, che mi dà il destro per una riflessione. Non credo che i termini di ‘neoliberismo’ o ‘neoliberalismo’, quali sono usati di solito, indichino categorie storiografiche o economiche. Credo siano associazioni psicologiche.
Per tutti quelli che sono stati di sinistra (io tra loro), il crollo dell’URSS e dei regimi satelliti è stato un trauma. Abbiamo insistito per decenni nell’illuderci che il socialismo reale fosse, pur con tutte le sue deviazioni, un’ipotesi alternativa al capitalismo. Poi sono arrivati la trappola dell’Afghanistan ordita da Brzezinski, l’intuizione reaganiana che l’URSS era allo stremo, il suo rilancio della corsa agli armamenti che rendeva obsoleti senza speranza gli armamenti russi, Gorbaciov e lo smantellamento del totalitarismo, infine il crollo dell’URSS. Avvenimento di enorme portata storica, su cui a sinistra non c’è stato uno straccio di riflessione. Ma dove non c’è consapevolezza avanzano l’inconscio e le sue associazioni. Gli avvenimenti di politica internazionale erano connessi con una riaffermazione della fiducia nel mercato come regolatore dell’economia e della società. La mia tesi (che nasce anche dal vissuto personale) è che la demonizzazione del neoliberismo e del mercato non nasca affatto dalla sua natura di ideologia economica e sociale, ma dalla sua associazione al trauma della fine miseranda del comunismo.
Ma infine occorrerà assumere un atteggiamento scientifico rispetto agli avvenimenti del Novecento. La minima informazione storica ci rivela che il comunismo è stato non meno orrendo, forse più, del nazismo, che la sua caduta è stata una liberazione per l’umanità sotto il suo tallone, che dovremmo tributare la nostra GRATITUDINE verso chi l’ha aiutata: Giovanni Paolo II, Reagan, Thatcher, per quanto possiamo essere in disaccordo con le ideologie economiche di questi ultimi. Solo attraverso il recupero della prospettiva storiografica potremo metterci in linea con le sfide presenti.