Uno straordinario consiglio di classe
Durante un consiglio di classe come tanti, tra lamentele su studenti svogliati e genitori invadenti, il preside propone un’inversione di prospettiva. Il consiglio si trasforma così in un’esperienza rivoluzionaria, in cui l’umiltà e l’onestà prendono il posto della sterile frustrazione.

Il consiglio di classe procedeva come al solito. Un lungo elenco di problemi, lamentele sugli studenti che non studiavano abbastanza, genitori troppo assenti o, al contrario, fin troppo presenti che sempre più spesso diventavano gli avvocati dei loro stessi figli. Le voci si sovrapponevano, il tono si scaldava, e il solito senso di frustrazione aleggiava nell’aria come un’ombra pesante.
Il preside, un ex professore di filosofia, ascoltava in silenzio, le dita intrecciate davanti a sé. Dopo un’ennesima accusa contro la mancanza di disciplina degli studenti, alzò una mano con calma e tutti si zittirono.
“Colleghi, posso proporre qualcosa di diverso?” esordì con un sorriso enigmatico. “Passiamo il tempo a lamentarci degli studenti, delle famiglie, del sistema. Ma lamentarsi degli altri è facile, perché ci deresponsabilizza scivolando in un vittimismo che non fa altro che tradire la nostra stessa amara impotenza. Vi sfido a fare qualcosa di più difficile e nel contempo stimolante: lamentiamoci di noi stessi.”
Uno scambio di sguardi perplessi attraversò la sala. Il professore di matematica si aggiustò gli occhiali, la docente di lettere incrociò le braccia.
“Cosa intende, preside?” chiese una voce dal fondo.
“Intendo dire che, invece di elencare ciò che gli altri fanno di sbagliato, proviamo a chiederci in cosa noi potremmo fare meglio. Quali sono i nostri limiti? Quali sono le nostre responsabilità nei problemi che osserviamo in classe quotidianamente? Se siamo qui per educare, dobbiamo essere i primi a dare l’esempio: mostriamoci umili e consapevoli delle nostre fragilità.”
Seguì un lungo silenzio. Poi, a sorpresa, la professoressa di scienze prese la parola. “Forse… a volte do per scontato che gli studenti debbano capire le cose al primo colpo. Non sempre cerco strade alternative per spiegarmi meglio.”
Il professore di matematica annuì lentamente. “Io invece tendo a dare maggiore attenzione ai ragazzi più brillanti, lasciando indietro quelli in difficoltà. È più facile, ma non è giusto.”
“Io, invece, faccio esattamente il contrario” disse la prof.ssa di scienze umane. “Mi concentro così tanto sugli studenti con maggiore difficoltà che trascuro quelli con maggiori potenzialità: non è giusto”
Una dopo l’altra, le confessioni iniziarono a fluire. La professoressa di lettere ammise di perdere la pazienza troppo spesso e di non riuscire a gestire le proprie emozioni negative di fronte a certi comportamenti degli studenti, come le distrazioni di alcuni studenti o gli errori di altri. Il docente di storia confessò di non riuscire a rendere le sue lezioni davvero coinvolgenti e che, preparandosi maggiormente, avrebbe potuto, forse, arricchire le sue lezioni di aneddoti particolari che avrebbero reso le proprie lezioni più interessanti e piacevoli. La professoressa di educazione fisica riconobbe di non valorizzare abbastanza gli studenti meno atletici e di non riuscire a nascondere queste sue preferenze.
Ci fu persino qualche risata, momenti di condivisione sincera, e per la prima volta quel consiglio di classe sembrò avere uno scopo più profondo di un semplice resoconto di problemi davanti a cui esprimere la propria vittimistica frustrazione. Era un’esperienza di crescita umana e professionale, di autentico confronto: un dialogo in cui finalmente si smetteva di fingere, di nascondersi dietro quel velo di arrogante ipocrisia e, togliendosi per qualche istante le proprie pesanti maschere, gli insegnanti riuscirono a nutrirsi di quella vitale energia che proviene soltanto dalla rigenerante, se pur severa, verità.
Quando tutti ebbero parlato, il preside riprese la parola. “Questo è stato il consiglio di classe ordinario più straordinario di sempre. Abbiamo riconosciuto i nostri limiti, ma ricordiamoci una cosa fondamentale: questo non è e non dovrà mai essere mai una giustificazione per i nostri studenti per non impegnarsi. Noi possiamo migliorarci, possiamo dare loro più strumenti, più ispirazione. Ma alla fine, sono loro che devono studiare, faticare e mettersi alla prova. Noi possiamo tendere la mano, ma loro devono essere disposti ad afferrarla. Che sia chiaro, dunque: non possiamo e non dobbiamo né sostituirci a loro, né rendergli le cose troppo semplici: con il buonismo e l’ipocrisia non solo non si insegna, ma nemmeno si educa. Non dobbiamo regalare i voti; non dobbiamo illuderli di aver imparato se l’apprendimento non è effettivamente avvenuto; non dobbiamo ingannarli e non dobbiamo ingannarci. Il modo migliore di essere dei buoni insegnanti è quello di essere il più possibile degli insegnanti giusti e onesti: il resto è vile, ipocrita e deleterio buonismo”
Un silenzio denso di consapevolezza avvolse la stanza. Poi, il consiglio di classe riprese, ma stavolta con uno spirito nuovo. Più consapevole, più autentico. E, forse, più potente di prima.