Lucio Russo: usare un computer non equivale a conoscerlo
Lo storico della scienza ci ha messo in guardia con almeno venti anni di anticipo rispetto ad una possibile ubriacatura acritica verso la tecnologia digitale: esserne utenti è banale, e lo si apprende ovunque; altra cosa sarebbe padroneggiarla davvero…
“Il computer sta assumendo un peso crescente nell’educazione dei ragazzi e anche in Italia, nonostante un notevole ritardo, viene (e soprattutto verrà) usato sempre più anche a scuola. L’entusiasmo per il nuovo mezzo comincia però a essere smorzato dall’apparire di diverse voci critiche, soprattutto negli Stati Uniti, dove la “rivoluzione informatica”, con molti entusiasmi, ha generato anche molte delusioni […] La scuola è interessata al computer sia come oggetto di studio che come strumento di lavoro. Dal primo punto di vista il computer può essere studiato a tre diversi livelli:
a) a livello della struttura fisica, studiandone l’hardware;
b) impadronendosi delle tecniche di programmazione;
c) imparando semplicemente l’uso di programmi acquistati (il che è sufficiente a chi voglia, ad esempio, usare un computer come macchina da scrivere, come strumento di classificazione, per “leggere” ipertesti o per navigare in Internet).
Via via che la “rivoluzione informatica” si è sviluppata, per competenze “informatiche” si sono intese successivamente, e nell’ordine, quelle dei tre tipi precedenti, che corrisponderebbero, più o meno, nel caso di un aereo, alle competenze necessarie per progettarlo, per pilotarlo o per usarlo da passeggero.
Ancora qualche anno fa per diffusione della “cultura del computer” si sarebbe intesa la diffusione della capacita di programmare in un linguaggio come il C. Negli ultimi anni le conoscenze di programmazione stanno invece rapidamente rarefacendosi per l’effetto concomitante di due processi. In primo luogo la dilatazione del software presente sul mercato e quindi del numero dei potenziali utenti porta a vendere sempre piú computer come oggetti di consumo e sempre meno come strumenti di lavoro usati per programmare. Inoltre la recente diffusione dei “linguaggi a oggetti” sta creando una nuova categoria di “programmatori” caratterizzati dall’essere digiuni di vere conoscenze di programmazione. Usando tali linguaggi il “programmatore” (se tale lo si può ancora chiamare) si limita infatti a un lavoro di montaggio (assistito da un programma apposito) di programmi già scritti, senza avere alcuna idea del lavoro dei programmatori di livello superiore che hanno preparato i componenti prefabbricati. D’altra parte, nella maggioranza dei casi, anche questi ultimi non hanno idea della struttura dei veri programmi eseguiti dal computer (ottenuti automaticamente dal computer stesso, traducendo quelli scritti dall’uomo in un ’linguaggio macchina’ ormai conosciuto da pochissime persone). In questo modo le conoscenze tecnologiche si ritraggono sempre più, con velocità crescente, non solo dagli utenti finali, ma anche dagli stessi “esperti” del ramo.
In questa situazione cosa si deve insegnare nelle scuole sui computer?
È chiaro che le competenze del primo tipo, quelle cioé relative al funzionamento fisico della macchina, possono essere veramente acquisite solo in corsi specialistici universitari o post-universitari. Nella scuola si può tuttavia, e a mio avviso si dovrebbe, fornire alcune conoscenze di base sui principi di funzionamento, intese non a spiegare come la macchina realmente funzioni, ma perché è possibile che funzioni. Si tratta di conoscenze importanti per arginare il diffondersi di concezioni magiche della tecnologia.
Per le conoscenze del secondo tipo si può andare più in là. Naturalmente scuole specialistiche potrebbero preparare veri programmatori, ma anche gli altri studenti potrebbero imparare a scrivere programmi semplici. Si tratta di conoscenze importanti sia in sé, in quanto la scrittura di un “vero” programma (intendo un programma scritto veramente e non montato con pochi pezzi prefabbricati) aiuta lo sviluppo delle capacità logiche, sia come strumento utilizzabile per raggiungere vari obiettivi scientifici. La possibilità di usare un linguaggio di programmazione, anche elementare, permette infatti di esplorare della “fenomenologia matematica” altrimenti inaccessibile e di simulare fenomeni di varia natura.
Veniamo infine al terzo livello: l’apprendimento dell’uso di un computer da parte di un “utente finale” Non credo si sottolinei abbastanza che in questo caso si tratta di banalità. L’enorme quantità di software esistente, la necessità commerciale di dilatare i programmi di versione in versione, inquadrando un numero crescente di possibili esigenze dell’utente in altrettante opzioni predeterminate, la mole dei manuali e i frequenti problemi di compatibilità possono rendere il compito anche molto faticoso e irritante, ma senza diminuirne per questo la banalità”.
[tratto da: Lucio Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 47-49. Ringraziamo l’autore]